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Autore: missimissisipi    09/04/2014    5 recensioni
“Elena”
Il suono della sua voce mentre pronuncia quel nome che non sembra appartenermi del tutto non fa altro che testimoniare il voler allontanarsi da me. Eppure è qui, così vicino. E’ distante con le parole ma a qualche decina di centimetri con le promesse.
“M’importa.” Esclama non sbottonandosi troppo con i suoi pensieri.
“Lo hai già detto.”
Le sue nocche diventano quasi bianche. “Ma tu non sembri capirlo”

Elena, Damon, Katherine, Caroline: l'importanza di avere un qualcuno al proprio fianco anche mentre le certezze si frantumano in un crescendo di eventi capaci di far traballare ogni convinzione.
Genere: Romantico, Slice of life, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caroline\Klaus, Damon Salvatore, Elena Gilbert, Katherine Pierce, Stefan Salvatore | Coppie: Damon/Elena, Damon/Katherine, Elena/Stefan
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: Triangolo
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Capitolo sedicesimo

 

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If I die young

 

Katherine

 

Dicono che gli inizi siano sempre difficili, che non è mai facile iniziare qualcosa. Come il primo giorno di scuola, le prime parole di un tema e la prima domanda ad un compito in classe. Il primo esame e il primo amore, la prima cotta e la prima notte nel letto da soli.

Gli inizi sono sempre complicati e complessi, non si può trovare un modo semplice per sormontare il problema. Allo stesso modo non si evitano le paranoie, e neanche tutta la preparazione del mondo può aiutare a cancellare e mascherare quell’ansia da inizio.

Gli inizi son così, non si possono spiegare. E’ come quando si va per la prima volta a mare dopo un inverno freddo, e l’acqua è a dir poco ghiacciata. Però noi proviamo lo stesso a bagnarci, quando poi la pressione e l’ansia son troppe ci gettiamo a capofitto, respirando a malapena.

E’ così, non possiamo spiegarcelo. Ci diciamo che la prossima volta andrà meglio, che faremo meno errori e che andremo preparati all’impatto.

Tutte scemenze.

Non si può mai essere preparati alla caduta, ad un inizio.

Fa davvero molto freddo e siamo a fine ottobre, quasi novembre; mi stringo infreddolita nella mia giacca di pelle, nella vana speranza di andare incontro ad un calore inesistente, ma lo definirei meglio effimero. Non so se questo sia davvero un inizio – la visita ed il viaggio di ritorno organizzati per questa giornata: so solo che non si può decidere cosa succederà, come mi muoverò. Accadrà e basta, come degli inizi. In fondo so che c’è una parte di me che vorrebbe –vorrebbe- davvero definire questa giornata un inizio, così da giustificare i miei pensieri e le mie parole, i miei ragionamenti e le mie azioni.

Le evidenti occhiaie sotto gli occhi scuri mi raffigurano più stanca di quello che in realtà io sia. Ho solo bisogno di risposte – tante, direi – e di  certezze.

Non ho dormito.

Ecco spiegati gran parte dei miei pensieri.

Non ho dormito.

Non ho dormito, ecco tutto. Non ho chiuso occhio, troppo presa a divincolarmi nel buio, da sola, cercando di capire cosa succedesse, cercando di decifrare i miei sogni. Ma sarebbe stato tutto molto più facile se –lo ammetto- avessi ingerito un qualche sonnifero o medicinale. Tutti mi vietano assolutamente l’assunzione di quei cosi, io comunque ho qualche pillola nella mia borsa e nella valigia. Insomma, non si sa mai.

Avrei voluto dormire e non per questione di ore a cui consegue l’apparente tranquillità. Ma perché quello che ho visto, quello che è successo, nel sonno, mi ha così destabilizzata da lasciarmi un segno, da marchiarmi fino a farmi male.

Non riesco a pensare ad altro.

Chi era? Chi era quella donna? Ed io? Io dov’ero?

Erano tutti così in pace con se stessi, non c’era nessuna Elena… sembrava che io fossi di troppo, io che neanche c’ero.

Ma Bonnie, Rose, Jeremy, Alaric, Jenna e Kol – persino Kol! – parlavano con questa donna, di cui non riuscivo a intravedere alcun tratto somatico. Solo una folta chioma castana. Ed io… io ero lei, in un certo senso.

Ma non lo ero.

Tutti l’accerchiavano, tutti che le sorridevano e ridevano in sua presenza, le tenevano le mani e si congratulavano,  e credo ci fossero anche persone a me –attualmente- sconosciute.

“Sei pronta, Lena?”

Prendo un respiro profondo, dettato dalla paura di ciò che sto per fare e non tanto dal sogno –incubo- che ho avuto e che mi ha fatto sorgere numerosi dubbi.

E’ l’ultimo giorno prima di partire, siamo nella periferia di Chester, oggi ombreggiata e nuvolosa, e con me ci sono tutti, ma proprio tutti; Rose, Bonnie, Jeremy, Jenna e Rick, che dopo questa tappa ci accompagnerà all’aeroporto per tornare alla solita caotica e rumorosa Londra.

Una folata di vento ci spinge mentre camminiamo e raggiungiamo un punto a me sconosciuto, fino a che non scorgo due nomi familiari: Miranda e Grayson Gilbert. I miei genitori.

Jeremy è già chino, con un braccio a mezz’aria, quasi volesse tastare con i polpastrelli quelle lettere, ma non riuscisse nell’intento. Data di nascita… data di morte… tutta la loro vita, tutti le loro buone azioni, i loro momenti felici e tristi sono racchiusi in così pochi segni, in date e lettere.

Il resto è deposto nella memoria di chi li ha conosciuti e amati, di chi li ha odiati e di chi sembra non averli mai visti ed avuti nella propria esistenza. Ogni riferimento a me è ovviamente e puramente casuale. E vorrei averlo fatto, mi ritrovo a pensare, perché loro mi hanno dato la vita e io non so nemmeno chi siano.

C’è solo un cognome a legarci, a tenerci uniti, un vincolo indistruttibile che ho, in qualche modo, varcato, che Las Vegas ha varcato, che mi ha permesso di dimenticare tutto ciò di caro che avessi.

Tutti passano una mano sulle mie spalle, quasi carezzandomi e quasi dandomi un dolce buffetto, mentre si allontanano da me e dalla figura di mio fratello nel quasi più totale silenzio, rotto dal suono flebile del vento.

“Com’è successo?” chiedo con voce roca, sbattendo le ciglia e sedendomi di fronte ai loro nomi, accanto a mio fratello che tira su con il naso.

“Incidente stradale” risponde alzando i sopraccigli. “Erano di ritorno da uno dei loro soliti viaggi… A Mystic Falls, una stupida città della Virginia”

“Virginia?”

Scrolla le spalle. “Mezzo mondo per una dannata vacanza. Ci andavano spesso ed…anzi,” adesso sorride. “mi dicevano sempre che eri stata concepita lì” si passa la lingua sulle labbra. “Ma ero un bambino, non so con esattezza se fosse vero”

“E’ tutto okay, Jer” è quello che so dire, mentre mi faccio piccola e mi stringo a lui.

“No, Lena, non lo è” risponde mentre  passa un braccio attorno alle mie spalle.

Mi mordo l’interno guancia. “Penso sarebbero fieri di te, della persona che sei diventato. Guardati, Jeremy” lo osservo, mentre ricambia lo sguardo. “Guardati, qui, forte, mentre mi parli dei nostri genitori che non ricordo e sono deceduti quando eravamo troppo giovani. Guardati, Jeremy. Respiri, sei grande ed hai superato tutto questo. Io sono fiera di te, per quanto possano valere le mie parole”

E ride, adesso, assottigliando gli occhi e lasciando scorrere le lacrime sul suo viso.

Vederlo qui, fragile, piccolo, piangere… è da brividi. Lui è qui, dopotutto, lui è qui per me, lui sta cercando di esser forte ma è solo un uomo, un uomo a cui i genitori sono morti troppo presto.

Il suo respiro torna ad essere quello di qualche minuto fa, deglutisce e si passa una mano sugli occhi, eliminando tutte le lacrime.

“Ti  lascio sola”

Sorrido mentre incrocio le gambe ed abbasso lo sguardo.

La sua figura scompare e prende posto assieme alle altre che non vedo, molto probabilmente tutte dietro me, distanti qualche metro e tutte silenziose. Fredde. Immobili.

“Miranda, Grayson” alzo le spalle. “Sono Elena”

Sbuffo.

“Adesso ci riprovo”

Tossicchio, scuotendo il capo e chiudendo gli occhi.

Una volta aperti, cerco di sorridere.

“E’ bello rivedervi… credo” inclino il capo “anche se non ricordo chi voi siate non significa che non possa capire l’importanza di un genitore, non è così? Per questo propongo di riprovarci”

Tocco i loro nomi, il mio cognome e mi stringo nella giacca.

“Sono Elena. Elena Gilbert. E voi i miei genitori.”

Scrollo le spalle. “E non chiedo di vegliare su di me, affinchè ritornino i ricordi… no. Non chiedo questo. Perché… ho realizzato che se anche non lo facessi ci sarebbero un sacco di brave persone al mio fianco. Io chiedo solo che Jeremy stia bene. Lui ne ha più bisogno.” - prendo una pausa – “E’ tutto quello che voglio adesso...”

 

Mi rialzo, passando una mano sui jeans per ripulirli.

“A presto”

***

 

“Vada per Bas!”

“Bas?” aggrotto la fronte. “Bas chi?”

“Sebastien, Lena!” Bonnie allarga le braccia e sbatte le ciglia rapidamente. Dovrei ricordare chi questo Bas sia? Perché, se non ricordo male, colei che ha perso la memoria sono proprio io.

“Il parrucchiere!” esclama Rose, di fronte al mio sguardo confuso.

“Sì, certo, adesso ricordo” ribatto sarcastica, incrociando le braccia e lasciando che sia mio fratello a portare il mio trolley verso il taxi.

L’aeroporto è quasi completamente deserto, ci siamo noi e poche altri uomini. In più, all’uscita, qualche macchina nera è pronta a portarci a destinazione, ossia il salone di bellezza di Bas perché, come diceva la lista stilata dalle due mie amiche qui presenti, devo cambiare esteticamente. “E’ fondamentale” aveva detto Bonnie più tardi, “dare un taglio al passato, che rimane tale e non deve influire sul presente”. E Rose aveva continuato, seppure la mia espressione non era delle più propense a riguardo, “Quando si termina una storia o un capitolo della propria vita, la maggior parte delle donne cambia taglio o colore dei capelli. E’ un cliché, Lena, ma in un certo senso… aiuta, fidati”

Ed allora avevo borbottato qualcosa, chiaramente contraria, ma avendo riletto velocemente gli altri punti segnati sul foglio, era lampante il fatto che fosse il minore dei mali.

E’ così è stato. O meglio, e così sta accadendo.

Francis Road, pavimento bianco laccato, ambiente ampio e luminoso, affollato, se non si considera un angolo riservato… a me.

A me?

Seduta, comprendo un sacco di cose; e non riguardano il fatto che sia schifosamente stanca, con schifose occhiaie e capelli quasi schifosamente spenti e non lucenti.

Sono… altre informazioni. Bas è un uomo sulla cinquantina – “Mi sei già simpatica, Helena!” “E’ Elena!” – calvo, montatura scura dai vetri più grandi dei suoi occhi scuri. E’ palesemente gay – “Non che tu non possa piacermi, Katherine…” “E’ Elena, dannazione!” “…ma io abito sulla strada parallela a questa, comprendi?”- ed è un classico parrucchiere: estroverso, fin troppo curioso, chiacchierone e ciarlatano.

Ma Bonnie e Rose lo adorano: ridono ad ogni sua battuta –non c’è che dire, ha una risata fin troppo rumorosa – e lo osservano con la luce negli occhi, poi pendono dalle sue labbra mentre dispensa a noi poveri e comuni mortali consigli su creme e balsami. È ufficiale: lo odio.

 

“Nadia!” esclama allora, con un sorriso smagliante e con le mani poggiate alla poltrona che occupo. Lo osservo mediante il riflesso nello specchio di fronte ad entrambi, piccole lampadine ai bordi di questo e un sacco di prodotti sulla mensola su cui è poggiato un giornale ed il mio cellulare.

“E’ Elena, per l’amor del cielo”

Ma non sembra far caso alle mie preghiere –lamentele-: sorride mentre mi scruta attentamente.

“Già deciso il taglio?”

 

Elena

 

Sorseggio altro alcool mentre la gola brucia e gli occhi pizzicano. Potrei quasi affermare con sicurezza che, nonostante tutto ciò che ho ingerito questa sera, la mia gola sia secca e comunque deglutire mi sembra così difficile da fare. Celeste, di fronte a me, sorride come non l’ho vista fare da subito.

Ha dei denti bianchissimi ed è così affascinante che mi gira la testa.

E anche forte, aggiungo.

“Dolcezza” esclama ondeggiando con il bacino a ritmo, seguendo la musica di sottofondo che contribuisce al mio mal di testa. “Quei due lì ti stanno osservando da un po’…”

Allora mi acciglio, corrugo la fronte e mi volto a vedere chi siano le due figure.

Sbatto le ciglia.

“Cosa ci fanno qui?” domando confusa e con un tono di voce infantile.

 

Due figure sorridenti perdono la loro felicità osservandomi: il sorriso di lei è sfumato in paura, quello di lui è morto e le sue labbra sono stese e rilassate, schiuse. Ma gli occhi di entrambi sono posati su di me, ed improvvisamente mi sento così nuda e sporca, così fragile e vulnerabile.

“Katherine? Cosa ci fai qui?” la voce squillante di Caroline mi rimbomba nelle orecchie, assottiglio gli occhi e mi sfioro una tempia con le dita.

“Io…”

“Kate? Sei ubriaca?” Ha più paura, adesso, con gli occhi spalancati, mentre il suo corpo è stretto in un top bordeaux e in un paio di jeans neri aderenti. Sbatto le ciglia e gli occhi diventano troppo umidi, son troppo liquidi e mi sembra di essere una bambina colta sul fatto dalla propria mamma.

“Katherine?” la voce che odo adesso è maschile, un po’ roca, un forte accento ad impregnarla. Mi volto verso Niklaus, messo in tiro per quest’appuntamento con la mia amica e spaventato almeno la metà di quanto lo sia la bionda apprensiva.

“Sei da sola?” lui si avvicina, mentre io mi sposto impercettibilmente indietro: sfioro con la schiena il bancone di Celeste, non so perché percepisco questa tensione nell’aria, ed il fatto che sia a dir poco terrorizzata mi destabilizza ulteriormente.

Annuisco con il capo e gli occhi puntati verso terra. Klaus parlotta con Caroline, e poi non ricordo più nulla, se non il buio, mentre voci, musica e rumori tempestano la mia mente.

 

 

“Le ho preparato un po’ di tè caldo… tra qualche minuto la svegliamo”

Un sospiro: “Sta bene, Caroline, ha solo bevuto e la situazione è degenerata”

“Lo so”

“Ora è casa”

“Ma io sono ancora preoccupata”

Entrambi si ammutoliscono, se solo non fosse per uno schiocco pressoché inudibile di labbra, come se lui avesse appena sfiorato la fronte di Caroline e, per qualche breve attimo, me li immagino nella mente.

Mugugno qualcosa sia per palesare il mio essere sveglia, sia perché, appena mossa, una fitta terribile colpisce il mio capo. E so già che non è per il sole – ho dormito così tanto? – che filtra attraverso le tende nel soggiorno del mio appartamento, so che non è per altri futili motivi se non per la mia incoscienza e infantilità, il non voler prendersi cura di me stessa, fiondandomi appunto sull’alcool come un’adolescente alla sua prima sbronza.

“Ehi”

La voce della bionda giunge da lontano, una flebile parola appena sussurrata che si perde nell’aria se non fosse per il silenzio quasi imbarazzante calato nello spazio che ci circonda, il quale mi permette di udire benissimo tutti i minimi suoni.

“Come stai?” e detto questo si avvicina, noto che i suoi vestiti son gli stessi della sera scorsa e poi occhiaie lievi circondano i suoi occhi sempre vivi e sorridenti.

Mi dispiace, mi dispiace un sacco essere la causa di tutti i suoi mali. “Mhm”

“Hai bisogno di andar in bagno? Perché ho preparato del tè alle fragole, proprio come piace a te”

“Grazie” mormoro, “voglio solo sciacquarmi il volto”

“D’accordo”

Aiuta ad alzarmi e le sorrido, è un attimo e scorgo Nik lontano da noi che fa lo stesso, sorride, anche se timidamente, in modo quasi impacciato. E’ preoccupato. Tutti lo sono quando si tratta di me.

Ma giunta in bagno l’ansia sale e mi invade, così come un senso di disgusto che mi spinge a rigettar tutto vomitando l’anima.

 

 

Caroline è una di quelle persone che, in casi estremi come quello di un’ora fa, ti tiene i capelli mentre getti te stessa in un water. Anche se preoccupata ed arrabbiata, soprattutto, dice “Andrà tutto bene, ehi, calmati, tranquilla, andrà tutto bene”. Ed io vorrei crederle, davvero, vorrei farlo sul serio e sarebbe tutto più semplice.

Poi mi sono calmata, ho reso la mia persona presentabile mentre entrambi sono andati a fare commissioni per la sottoscritta, del genere “aspirine per il dopo sbronza”, “qualcosa da mangiare per rimettersi in sesto!”, “piccole sorprese per trascorrere la giornata assieme!”, testuali parole della mia amica bionda.

Così mi ritrovo su una poltrona, un plaid a coprirmi, pelle color del latte e capelli legati in una coda alta.

Intenta ad aspettare.

Non voglio neanche immaginare cosa accadrà domani, come mi alzerò dal letto e come cercherò di cavarmela a lavoro, tornandoci dopo tanto tempo. Non se ne parla di rimanere a casa e deludere Caroline, essere un peso per lei e blablabla. Sono adulta, posso farcela.

Devo farcela.

Il campanello trilla improvvisamente e sobbalzo, prima di alzarmi con un po’ di fatica ed aprire la porta d’ingresso.

“Ciao”

“Ehi” mormorano le voci dei due contemporaneamente.

Aggrotto le sopracciglia. Ecco…

“Credo che abbiate sbagliato pianerottolo, i Lockwood sono al piano inferiore, si sono trasferiti poco tempo fa”

L’espressione di quelli muta improvvisamente.

“Oh, no… no! Ehm, Katherine?”

Mi blocco immediatamente. “Dovrei sapere chi voi… siate?”

Un uomo ed una donna mi scrutano ma il loro sguardo è perso, quasi vacuo, come se potessero legger oltre il mio corpo. Lui ha una giacca di pelle nera e capelli chiari, le labbra strette mentre lei… oh, lei sembra sull’orlo di una crisi, sembra stia per scoppiare in un pianto isterico.

Deglutisco.

“Mi dispiace, insomma… credo sappiate, no? Posso… aiutarvi? Aiutarvi in qualche modo?”

Kate, siamo…”

“John ed Isobel Petrova, è permesso?” l’uomo prende coraggio e mi spiazza con quelle parole.

Sbatto le palpebre un paio di volta prima di aprire la porta per facilitare il loro ingresso, con un “accomodatevi” al seguito.

 

 

E’ mezzogiorno e a Londra ha piovuto, le strade sono bagnate e Caroline è bloccata nel traffico, imbottigliata assieme ad altre decine di automobili che non le consentono di esser qui. Mi ha inviato un sms scusandosi dell’assenza e come avrei potuto dirle di loro qui? Non l’ho fatto, semplice. Siamo seduti in soggiorno da una dozzina di minuti, interrotti da qualche rumore del piano superiore e dai mezzi di trasporto in movimento a Trafalgar Square.

Definire tutto questo strano ed imbarazzante è un eufemismo.

“Si sta… bene qui? L’appartamento è… confortevole?” Isobel tira su con il naso, osservandomi senza soffermarsi troppo sui miei occhi, vagando poi, di continuo, sul resto della casa.

“Si, niente di speciale”

“Mi fa piacere” afferma allora, un mezzo sorriso sulle labbra, “Ci fa piacere”

“Sei tornata a lavoro dopo l’accaduto? I medici lo hanno sconsigliato” Adesso John pone una domanda, stringendo le mani e poggiando i gomiti sulle ginocchia.

Arriccio le labbra: “Ci sono stati dei miglioramenti, per cui io e Caroline pensavamo di andarci, giusto per osservare un po’ di sana vecchia vita”

“Hai parlato con qualche dottore?”

Scuoto la testa.

“Ne sei sicura? Sarai al sicuro?”

Scrollo le spalle. “Caroline sarà con me. E anche se è il primo approccio con tanti apparenti sconosciuti, penso sia ora di uscire di casa e inoltrarmi nella mia vita, se voglio riprendere le redini di questa. E’ il primo passo, è difficile, ma… non sarò sola”

“D’accordo”

D’accordo” ripeto io, sussurrandolo, con alcune ciocche di capelli fra le dita.

Cala nuovamente il silenzio fra noi, e, stranamente, le loro domande quasi invasive non mi hanno recato alcun fastidio, non sono sotto pressione per questa loro presenza e ciò mi calma.

In fondo sono i miei genitori.

“E quell’uomo,” chiede Isobel qualche minuto più tardi “quel tuo amico, uhm… ti è d’aiuto?”

“Damon?”

“Non ricordo il nome… solitamente lo chiamavamo amico, tesoro. Ti sta aiutando?”

 Deglutisco, aggrottando la fronte. “Certo, certo! E’ un amico, no? Perché non dovrebbe?”

“Già, hai ragione”

Sono in allerta, adesso, con il nome di Damon accennato ed inserito nella conversazione. Sono più agitata ed i miei ormoni – ne sono certa – sono in fibrillazione, in continuo movimento.

Eppure non c’è nessun altra loro domanda, solo un nuovo silenzio e qualche sguardo a me indirizzato, mi osservano di tanto in tanto quasi per capire come io stia realmente senza chiederlo. E gliene sono grata.

I respiri di John si fanno lievemente più rumorosi, lei si inumidisce le labbra e sembra voglia parlare ma non sa come e da dove iniziare. E questo continua per un po’, io che li osservo con la coda dell’occhio e loro di sfuggita.

 “Penso di parlare anche a nome della mamma – di Isobel, volevo dire Isobel… quando dico che speriamo davvero che tu stia bene, Katherine.” Sorrido intenerita a quelle parole, allora annuisco con il capo, stringo la coperta in plaid con una mano.

“Lo so” alzo le spalle “e vi ringrazio, so quanto debba essere difficile per voi altri”. Isobel si alza, all’improvviso, lo sguardo un po’ perso ed uno strano fare materno che l’accompagna nei passi. Si blocca, poi, a un metro di distanza da me.

“Sei nostra figlia, noi non vogliamo perderti”

“So anche questo, perché io non voglio perdere voi”

E allora si fa ancora più vicina, e, titubante, accarezza lentamente una mia guancia, ed io mi lascio cullare da quel tocco che sembra mancarmi, quel tocco familiare ma così estraneo e così lontano da me.

Un rumore di chiavi fa aprire la porta, e poi una folta chioma bionda inonda tutto.

“Scusami tanto, Kate, ma come ti ho detto c’era traffico e--- oh, uhm, ciao” si gratta il collo con una mano, per poi rivolgermi un’occhiata quasi accusatoria.

“Scusate! Davvero! Cioè… Io non volevo affatto disturbarvi… intendo che, insomma, se avessi saputo che voi foste--”

John sorride e la interrompe: “Non preoccuparti, stavamo giusto andando via” Poi si alza e inizia ad avvicinarsi al confine che è l’ingresso dell’appartamento. Osservo di sfuggita Care: la mia amica ha le guance rosse per l’affanno e la corsa, forse anche per un po’ di rabbia –giusto un po’- in corpo che adesso scatenerà contro di me. Ne sono quasi certa.

“E’ stato un piacere, allora” dico, tossendo e schiarendomi la voce.

“Anche per noi” Isobel sorride, “A presto, Katherine”

E spariscono dalla mia visuale, richiudendo la porta alle loro spalle. Caroline attende qualche secondo poi sbraita, “Ma sei impazzita?”

Inclino il capo, confusa.

“Sconosciuti, familiari, tu, postumi della sbronza, io lontana, John, Isobel?!”

Rido. Ed ecco che lo tsunami inonda tutto.

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Hola mishamigos (chi vede/ha visto supernatural capirà:) )

perdonate il ritardo nell'aggiornare! ho avuto problemi di connessione ed in più poco tempo per scrivere, e tra l'altro l'ho impiegato per la stesura di una minilong che ho in mente da davvero un sacco di tempo (in realtà ne sto scrivendo due, una di 7 e l'altra di 10 capitoli). Ma non ho intenzione di pubblicarle, almeno per ora -- facciamo per un bel po'.

Forse il capitolo è un po' più lungo degli altri, forse la parte inziale può sembrare "stupida", banale, scritta senza una reale ragione: è davvero necessaria, in più il percorso delle due, qui, è piuttosto simmetrico perchè ci sono i genitori come punto fisso.

Nel POV di Elena ci sono degli spazi qua e là, dovuti principalmente al fatto che non si trova in uno stato di salute stabile, è ubriaca-in post sbronza, motivo per cui ho cercato di riprendere il suo pensiero, poichè, a mio parere, sarebbe sembrato totalmente inopportuno lasciarla ragionare benissimo, compiendo azioni e pronunciando frasi di reale senso compiuto.

Katherine completa pian piano la sua lista: cosa ne pensate? nel prossimo capitolo posterò un'immagine del suo nuovo taglio! :)

grazie per tutto l'amore che ricevo con le vostre parole, con i lettori silenziosi! è davvero importante e molto ma molto bello per me, non immaginate quanto!

spero che questo capitolo vi piaccia e interessi! a voi l'ultima parola:)

vi lascio con uno spoiler, a presto!

“Katherine… come sei vestita?”

“Ciao anche a te, Care”

Si appoggia alla scrivania come me, imitandomi e controllando l’orario.

“No, sul serio… non ti ho mai vista con qualcosa di bianco, prima non ho fatto neanche caso”

Annuisco, “E’ stata l’unica cosa chiara che ho trovato nel guardaroba! C’erano solo capi neri e vestiti da prostituta”

***

C’è qualcosa nel suo modo di fare, quello di vestire e atteggiarsi, così come quello di camminare che mi destabilizza: sto cercando di capirne il perché, i risvolti, le cause; ma tutto questo invano, tutto questo porta inevitabilmente ad un vicolo cieco impossibile da evitare.

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