Capitolo sedicesimo
If
I die young
Katherine
Dicono che
gli inizi siano sempre difficili, che non è mai
facile iniziare qualcosa. Come il primo giorno di scuola, le prime
parole di un
tema e la prima domanda ad un compito in classe. Il primo esame e il
primo
amore, la prima cotta e la prima notte nel letto da soli.
Gli inizi
sono sempre complicati e complessi, non si può trovare
un modo semplice per sormontare il problema. Allo stesso modo non si
evitano le
paranoie, e neanche tutta la preparazione del mondo può
aiutare a cancellare e
mascherare quell’ansia da inizio.
Gli inizi
son così, non si possono spiegare. E’ come
quando si va per la prima volta a mare dopo un inverno freddo, e
l’acqua è a
dir poco ghiacciata. Però noi proviamo lo stesso a bagnarci,
quando poi la
pressione e l’ansia son troppe ci gettiamo a capofitto,
respirando a malapena.
E’
così, non possiamo spiegarcelo. Ci diciamo che la
prossima volta andrà meglio, che faremo meno errori e che
andremo preparati all’impatto.
Tutte
scemenze.
Non si
può mai essere preparati alla caduta, ad un inizio.
Fa davvero
molto freddo e siamo a fine ottobre, quasi
novembre; mi stringo infreddolita nella mia giacca di pelle, nella vana
speranza di andare incontro ad un calore inesistente, ma lo definirei
meglio
effimero. Non so se questo sia davvero un inizio – la visita
ed il viaggio di
ritorno organizzati per questa giornata: so solo che non si
può decidere cosa
succederà, come mi muoverò. Accadrà e
basta, come degli inizi. In fondo so che
c’è una parte di me che vorrebbe –vorrebbe-
davvero definire questa giornata un inizio, così da
giustificare i miei
pensieri e le mie parole, i miei ragionamenti e le mie azioni.
Le evidenti
occhiaie sotto gli occhi scuri mi raffigurano
più stanca di quello che in realtà io sia. Ho
solo bisogno di risposte – tante,
direi – e di certezze.
Non ho
dormito.
Ecco
spiegati gran parte dei miei pensieri.
Non ho
dormito.
Non ho
dormito, ecco tutto. Non ho chiuso occhio, troppo
presa a divincolarmi nel buio, da sola, cercando di capire cosa
succedesse,
cercando di decifrare i miei sogni. Ma sarebbe stato tutto molto
più facile se
–lo ammetto- avessi ingerito un qualche sonnifero o
medicinale. Tutti mi
vietano assolutamente l’assunzione di quei cosi,
io comunque ho qualche pillola nella mia borsa e nella valigia.
Insomma, non si
sa mai.
Avrei
voluto dormire e non per questione di ore a cui
consegue l’apparente tranquillità. Ma
perché quello che ho visto, quello che è
successo, nel sonno, mi ha così destabilizzata da lasciarmi
un segno, da
marchiarmi fino a farmi male.
Non riesco
a pensare ad altro.
Chi era?
Chi era quella donna? Ed io? Io dov’ero?
Erano tutti
così in pace con se stessi, non c’era nessuna
Elena…
sembrava che io fossi di troppo, io che neanche c’ero.
Ma Bonnie,
Rose, Jeremy, Alaric, Jenna e Kol – persino Kol!
– parlavano con questa donna, di
cui non riuscivo a intravedere alcun tratto somatico. Solo una folta
chioma
castana. Ed io… io ero lei, in un certo senso.
Ma non lo
ero.
Tutti
l’accerchiavano, tutti che le sorridevano e ridevano
in sua presenza, le tenevano le mani e si congratulavano, e credo ci fossero anche
persone a me
–attualmente- sconosciute.
“Sei
pronta, Lena?”
Prendo un
respiro profondo, dettato dalla paura di ciò che
sto per fare e non tanto dal sogno –incubo- che ho avuto e
che mi ha fatto
sorgere numerosi dubbi.
E’
l’ultimo giorno prima di partire, siamo nella periferia
di Chester, oggi ombreggiata e nuvolosa, e con me ci sono tutti, ma
proprio
tutti; Rose, Bonnie, Jeremy, Jenna e Rick, che dopo questa tappa ci
accompagnerà all’aeroporto per tornare alla solita
caotica e rumorosa Londra.
Una folata
di vento ci spinge mentre camminiamo e
raggiungiamo un punto a me sconosciuto, fino a che non scorgo due nomi
familiari: Miranda e Grayson Gilbert. I miei genitori.
Jeremy
è già chino, con un braccio a
mezz’aria, quasi
volesse tastare con i polpastrelli quelle lettere, ma non riuscisse
nell’intento. Data di nascita… data di
morte… tutta la loro vita, tutti le loro
buone azioni, i loro momenti felici e tristi sono racchiusi in
così pochi
segni, in date e lettere.
Il resto
è deposto nella memoria di chi li ha conosciuti e
amati, di chi li ha odiati e di chi sembra non averli mai visti ed
avuti nella
propria esistenza. Ogni riferimento a me è ovviamente e
puramente casuale. E
vorrei averlo fatto, mi ritrovo a pensare, perché loro mi
hanno dato la vita e
io non so nemmeno chi siano.
C’è
solo un cognome a legarci, a tenerci uniti, un vincolo
indistruttibile che ho, in qualche modo, varcato, che
Las Vegas ha varcato, che mi ha permesso di dimenticare tutto
ciò di caro che avessi.
Tutti
passano una mano sulle mie spalle, quasi
carezzandomi e quasi dandomi un dolce buffetto, mentre si allontanano
da me e
dalla figura di mio fratello nel quasi più totale silenzio,
rotto dal suono
flebile del vento.
“Com’è
successo?” chiedo con voce roca, sbattendo le
ciglia e sedendomi di fronte ai loro nomi, accanto a mio fratello che
tira su
con il naso.
“Incidente
stradale” risponde alzando i sopraccigli. “Erano
di ritorno da uno dei loro soliti viaggi… A Mystic Falls,
una stupida città
della Virginia”
“Virginia?”
Scrolla le
spalle. “Mezzo mondo per una dannata vacanza.
Ci andavano spesso ed…anzi,” adesso sorride.
“mi dicevano sempre che eri stata
concepita lì” si passa la lingua sulle labbra.
“Ma ero un bambino, non so con
esattezza se fosse vero”
“E’
tutto okay, Jer” è quello che so dire, mentre mi
faccio piccola e mi stringo a lui.
“No,
Lena, non lo è” risponde mentre
passa un braccio attorno alle mie spalle.
Mi mordo
l’interno guancia. “Penso sarebbero fieri di te,
della persona che sei diventato. Guardati, Jeremy” lo
osservo, mentre ricambia
lo sguardo. “Guardati, qui, forte, mentre mi parli dei nostri
genitori che non
ricordo e sono deceduti quando eravamo troppo giovani. Guardati,
Jeremy.
Respiri, sei grande ed hai superato tutto questo. Io sono fiera di te,
per
quanto possano valere le mie parole”
E ride,
adesso, assottigliando gli occhi e lasciando
scorrere le lacrime sul suo viso.
Vederlo
qui, fragile, piccolo, piangere… è da brividi.
Lui
è qui, dopotutto, lui è qui per me, lui sta
cercando di esser forte ma è solo
un uomo, un uomo a cui i genitori sono morti troppo presto.
Il suo
respiro torna ad essere quello di qualche minuto
fa, deglutisce e si passa una mano sugli occhi, eliminando tutte le
lacrime.
“Ti lascio sola”
Sorrido
mentre incrocio le gambe ed abbasso lo sguardo.
La sua
figura scompare e prende posto assieme alle altre
che non vedo, molto probabilmente tutte dietro me, distanti qualche
metro e
tutte silenziose. Fredde. Immobili.
“Miranda,
Grayson” alzo le spalle. “Sono Elena”
Sbuffo.
“Adesso
ci riprovo”
Tossicchio,
scuotendo il capo e chiudendo gli occhi.
Una volta
aperti, cerco di sorridere.
“E’
bello rivedervi… credo” inclino il capo
“anche se non
ricordo chi voi siate non significa che non possa capire
l’importanza di un
genitore, non è così? Per questo propongo di
riprovarci”
Tocco i
loro nomi, il mio cognome e mi stringo nella
giacca.
“Sono
Elena. Elena Gilbert. E voi i miei genitori.”
Scrollo le
spalle. “E non chiedo di vegliare su di me,
affinchè ritornino i ricordi… no. Non chiedo
questo. Perché… ho realizzato che
se anche non lo facessi ci sarebbero un sacco di brave persone al mio
fianco.
Io chiedo solo che Jeremy stia bene. Lui ne ha più
bisogno.” - prendo una pausa
– “E’ tutto quello che voglio
adesso...”
Mi rialzo,
passando una mano sui jeans per ripulirli.
“A
presto”
***
“Vada
per Bas!”
“Bas?”
aggrotto la fronte. “Bas chi?”
“Sebastien,
Lena!” Bonnie allarga le braccia e sbatte le ciglia
rapidamente. Dovrei
ricordare chi questo Bas sia? Perché, se non ricordo male, colei che ha perso la memoria sono proprio io.
“Il
parrucchiere!” esclama Rose, di fronte al mio sguardo
confuso.
“Sì,
certo, adesso ricordo” ribatto sarcastica, incrociando
le braccia e lasciando che sia mio fratello a portare il mio trolley
verso il
taxi.
L’aeroporto
è quasi completamente deserto, ci siamo noi e
poche altri uomini. In più, all’uscita, qualche
macchina nera è pronta a
portarci a destinazione, ossia il salone di bellezza di Bas
perché, come diceva la lista stilata dalle due mie
amiche qui
presenti, devo cambiare esteticamente. “E’
fondamentale” aveva detto Bonnie più
tardi, “dare un taglio al passato,
che rimane tale e non deve influire sul
presente”. E Rose aveva continuato, seppure la mia
espressione non era
delle più propense a riguardo,
“Quando si
termina una storia o un capitolo della propria vita, la maggior parte
delle
donne cambia taglio o colore dei capelli. E’ un
cliché, Lena, ma in un certo senso…
aiuta, fidati”
Ed allora
avevo borbottato qualcosa, chiaramente
contraria, ma avendo riletto velocemente gli altri punti segnati sul
foglio,
era lampante il fatto che fosse il minore dei mali.
E’
così è stato. O meglio,
e così sta accadendo.
Francis
Road, pavimento bianco laccato, ambiente ampio e
luminoso, affollato, se non si considera un angolo
riservato… a me.
A me?
Seduta,
comprendo un sacco di cose; e non riguardano il
fatto che sia schifosamente stanca, con schifose occhiaie e capelli
quasi schifosamente
spenti e non lucenti.
Sono…
altre informazioni. Bas è un uomo sulla cinquantina
– “Mi sei già
simpatica, Helena!” “E’
Elena!” – calvo, montatura scura dai
vetri più grandi dei suoi occhi scuri.
E’ palesemente gay –
“Non che tu non
possa piacermi, Katherine…”
“E’ Elena, dannazione!”
“…ma io abito sulla strada parallela
a questa, comprendi?”- ed è un classico
parrucchiere: estroverso, fin
troppo curioso, chiacchierone e ciarlatano.
Ma Bonnie e
Rose lo adorano: ridono ad ogni sua battuta
–non c’è che dire, ha una risata fin
troppo rumorosa – e lo osservano con la
luce negli occhi, poi pendono dalle sue labbra mentre dispensa a noi
poveri e
comuni mortali consigli su creme e balsami. È ufficiale: lo
odio.
“Nadia!”
esclama allora, con un sorriso smagliante e con
le mani poggiate alla poltrona che occupo. Lo osservo mediante il
riflesso
nello specchio di fronte ad entrambi, piccole lampadine ai bordi di
questo e un
sacco di prodotti sulla mensola su cui è poggiato un
giornale ed il mio
cellulare.
“E’
Elena, per l’amor del cielo”
Ma non
sembra far caso alle mie preghiere –lamentele-:
sorride mentre mi scruta attentamente.
“Già
deciso il taglio?”
Elena
Sorseggio
altro alcool mentre la gola brucia e gli occhi
pizzicano. Potrei quasi affermare con sicurezza che, nonostante tutto
ciò che
ho ingerito questa sera, la mia gola sia secca e comunque deglutire mi
sembra
così difficile da fare. Celeste, di fronte a me, sorride
come non l’ho vista
fare da subito.
Ha dei
denti bianchissimi ed è così affascinante che mi
gira la testa.
E anche
forte, aggiungo.
“Dolcezza”
esclama ondeggiando con il bacino a ritmo,
seguendo la musica di sottofondo che contribuisce al mio mal di testa.
“Quei
due lì ti stanno osservando da un
po’…”
Allora mi
acciglio, corrugo la fronte e mi volto a vedere
chi siano le due figure.
Sbatto le
ciglia.
“Cosa
ci fanno qui?” domando confusa e con un tono di voce
infantile.
Due figure
sorridenti perdono la loro felicità
osservandomi: il sorriso di lei è sfumato in paura, quello
di lui è morto e le
sue labbra sono stese e rilassate, schiuse. Ma gli occhi di entrambi
sono
posati su di me, ed improvvisamente mi sento così nuda e
sporca, così fragile e
vulnerabile.
“Katherine?
Cosa ci fai qui?” la voce squillante di
Caroline mi rimbomba nelle orecchie, assottiglio gli occhi e mi sfioro
una
tempia con le dita.
“Io…”
“Kate?
Sei ubriaca?” Ha più paura, adesso, con gli occhi
spalancati, mentre il suo corpo è stretto in un top bordeaux
e in un paio di
jeans neri aderenti. Sbatto le ciglia e gli occhi diventano troppo
umidi, son
troppo liquidi e mi sembra di essere una bambina colta sul fatto dalla
propria
mamma.
“Katherine?”
la voce che odo adesso è maschile, un po’
roca, un forte accento ad impregnarla. Mi volto verso Niklaus, messo in
tiro
per quest’appuntamento con la mia amica e spaventato almeno
la metà di quanto
lo sia la bionda apprensiva.
“Sei
da sola?” lui si avvicina, mentre io mi sposto
impercettibilmente indietro: sfioro con la schiena il bancone di
Celeste, non
so perché percepisco questa tensione nell’aria, ed
il fatto che sia a dir poco
terrorizzata mi destabilizza ulteriormente.
Annuisco
con il capo e gli occhi puntati verso terra.
Klaus parlotta con Caroline, e poi non ricordo più nulla, se
non il buio,
mentre voci, musica e rumori tempestano la mia mente.
“Le
ho preparato un po’ di tè caldo… tra
qualche minuto la
svegliamo”
Un sospiro:
“Sta bene, Caroline, ha solo bevuto e la
situazione è degenerata”
“Lo
so”
“Ora
è casa”
“Ma
io sono ancora preoccupata”
Entrambi si
ammutoliscono, se solo non fosse per uno
schiocco pressoché inudibile di labbra, come se lui avesse
appena sfiorato la
fronte di Caroline e, per qualche breve attimo, me li immagino nella
mente.
Mugugno
qualcosa sia per palesare il mio essere sveglia,
sia perché, appena mossa, una fitta terribile colpisce il
mio capo. E so già
che non è per il sole – ho dormito così
tanto? – che filtra attraverso le tende
nel soggiorno del mio appartamento, so che non è per altri
futili motivi se non
per la mia incoscienza e infantilità, il non voler prendersi
cura di me stessa,
fiondandomi appunto sull’alcool come un’adolescente
alla sua prima sbronza.
“Ehi”
La voce
della bionda giunge da lontano, una flebile parola
appena sussurrata che si perde nell’aria se non fosse per il
silenzio quasi
imbarazzante calato nello spazio che ci circonda, il quale mi permette
di udire
benissimo tutti i minimi suoni.
“Come
stai?” e detto questo si avvicina, noto che i suoi
vestiti son gli stessi della sera scorsa e poi occhiaie lievi
circondano i suoi
occhi sempre vivi e sorridenti.
Mi
dispiace, mi dispiace un sacco essere la causa di tutti
i suoi mali. “Mhm”
“Hai
bisogno di andar in bagno? Perché ho preparato del
tè
alle fragole, proprio come piace a te”
“Grazie”
mormoro, “voglio solo sciacquarmi il volto”
“D’accordo”
Aiuta ad
alzarmi e le sorrido, è un attimo e scorgo Nik
lontano da noi che fa lo stesso, sorride, anche se timidamente, in modo
quasi
impacciato. E’ preoccupato. Tutti lo sono quando si tratta di
me.
Ma giunta
in bagno l’ansia sale e mi invade, così come un
senso di disgusto che mi spinge a rigettar tutto vomitando
l’anima.
Caroline
è una di quelle persone che, in casi estremi come
quello di un’ora fa, ti tiene i capelli mentre getti te
stessa in un water.
Anche se preoccupata ed arrabbiata, soprattutto, dice
“Andrà tutto bene, ehi,
calmati, tranquilla, andrà tutto bene”. Ed io
vorrei crederle, davvero, vorrei
farlo sul serio e sarebbe tutto più semplice.
Poi mi sono
calmata, ho reso la mia persona presentabile
mentre entrambi sono andati a fare commissioni per la sottoscritta, del
genere “aspirine per il dopo sbronza”,
“qualcosa da mangiare per rimettersi
in
sesto!”, “piccole
sorprese per
trascorrere la giornata assieme!”, testuali parole
della mia amica bionda.
Così
mi ritrovo su una poltrona, un plaid a coprirmi,
pelle color del latte e capelli legati in una coda alta.
Intenta ad
aspettare.
Non voglio
neanche immaginare cosa accadrà domani, come mi
alzerò dal letto e come cercherò di cavarmela a
lavoro, tornandoci dopo tanto
tempo. Non se ne parla di rimanere a casa e deludere Caroline, essere
un peso
per lei e blablabla. Sono adulta,
posso farcela.
Devo
farcela.
Il
campanello trilla improvvisamente e sobbalzo, prima di
alzarmi con un po’ di fatica ed aprire la porta
d’ingresso.
“Ciao”
“Ehi”
mormorano le voci dei due contemporaneamente.
Aggrotto le
sopracciglia. Ecco…
“Credo
che abbiate sbagliato pianerottolo, i Lockwood sono
al piano inferiore, si sono trasferiti poco tempo fa”
L’espressione
di quelli muta improvvisamente.
“Oh,
no… no! Ehm, Katherine?”
Mi blocco
immediatamente. “Dovrei sapere chi voi… siate?”
Un uomo ed
una donna mi scrutano ma il loro sguardo è
perso, quasi vacuo, come se potessero legger oltre il mio corpo. Lui ha
una
giacca di pelle nera e capelli chiari, le labbra strette mentre
lei… oh, lei
sembra sull’orlo di una crisi, sembra stia per scoppiare in
un pianto isterico.
Deglutisco.
“Mi
dispiace, insomma… credo sappiate, no?
Posso… aiutarvi? Aiutarvi in qualche
modo?”
“Kate, siamo…”
“John
ed Isobel Petrova, è permesso?” l’uomo
prende coraggio
e mi spiazza con quelle parole.
Sbatto le
palpebre un paio di volta prima di aprire la
porta per facilitare il loro ingresso, con un “accomodatevi”
al seguito.
E’
mezzogiorno e a Londra ha piovuto, le strade sono
bagnate e Caroline è bloccata nel traffico, imbottigliata
assieme ad altre
decine di automobili che non le consentono di esser qui. Mi ha inviato
un sms
scusandosi dell’assenza e come avrei potuto dirle di loro qui? Non l’ho fatto,
semplice. Siamo seduti in soggiorno da
una dozzina di minuti, interrotti da qualche rumore del piano superiore
e dai
mezzi di trasporto in movimento a Trafalgar Square.
Definire
tutto questo strano ed imbarazzante è un
eufemismo.
“Si
sta… bene qui? L’appartamento
è… confortevole?” Isobel
tira su con il naso, osservandomi senza soffermarsi troppo sui miei
occhi,
vagando poi, di continuo, sul resto della casa.
“Si,
niente di speciale”
“Mi
fa piacere” afferma allora, un mezzo sorriso sulle
labbra, “Ci fa
piacere”
“Sei
tornata a lavoro dopo l’accaduto? I medici lo hanno
sconsigliato” Adesso John pone una domanda, stringendo le
mani e poggiando i
gomiti sulle ginocchia.
Arriccio le
labbra: “Ci sono stati dei miglioramenti, per
cui io e Caroline pensavamo di andarci, giusto per osservare un
po’ di sana
vecchia vita”
“Hai
parlato con qualche dottore?”
Scuoto la
testa.
“Ne
sei sicura? Sarai al
sicuro?”
Scrollo le
spalle. “Caroline sarà con me. E anche se
è il
primo approccio con tanti apparenti sconosciuti, penso sia ora di
uscire di
casa e inoltrarmi nella mia vita, se voglio riprendere le redini di
questa. E’
il primo passo, è difficile, ma… non
sarò sola”
“D’accordo”
“D’accordo”
ripeto io, sussurrandolo, con alcune ciocche di capelli fra le dita.
Cala
nuovamente il silenzio fra noi, e, stranamente, le
loro domande quasi invasive non mi hanno recato alcun fastidio, non
sono sotto
pressione per questa loro presenza e ciò mi calma.
In fondo
sono i miei genitori.
“E
quell’uomo,” chiede Isobel qualche minuto
più tardi
“quel tuo amico, uhm… ti è
d’aiuto?”
“Damon?”
“Non
ricordo il nome… solitamente lo chiamavamo amico,
tesoro. Ti sta aiutando?”
Deglutisco,
aggrottando la fronte. “Certo, certo!
E’
un amico, no? Perché non dovrebbe?”
“Già,
hai ragione”
Sono in
allerta, adesso, con il nome di Damon accennato ed
inserito nella conversazione. Sono più agitata ed i miei
ormoni – ne sono certa
– sono in fibrillazione, in continuo movimento.
Eppure non
c’è nessun altra loro domanda, solo un nuovo
silenzio e qualche sguardo a me indirizzato, mi osservano di tanto in
tanto
quasi per capire come io stia realmente senza chiederlo. E gliene sono
grata.
I respiri
di John si fanno lievemente più rumorosi, lei si
inumidisce le labbra e sembra voglia parlare ma non sa come e da dove
iniziare.
E questo continua per un po’, io che li osservo con la coda
dell’occhio e loro
di sfuggita.
“Penso di parlare
anche a nome della mamma – di Isobel, volevo dire
Isobel… quando dico che
speriamo davvero che tu stia bene, Katherine.” Sorrido
intenerita a quelle
parole, allora annuisco con il capo, stringo la coperta in plaid con
una mano.
“Lo
so” alzo le spalle “e vi ringrazio, so quanto debba
essere difficile per voi altri”. Isobel si alza,
all’improvviso, lo sguardo un
po’ perso ed uno strano fare materno che
l’accompagna nei passi. Si blocca,
poi, a un metro di distanza da me.
“Sei
nostra figlia, noi non vogliamo perderti”
“So
anche questo, perché io non voglio perdere voi”
E allora si
fa ancora più vicina, e, titubante, accarezza
lentamente una mia guancia, ed io mi lascio cullare da quel tocco che
sembra
mancarmi, quel tocco familiare ma così estraneo e
così lontano da me.
Un rumore
di chiavi fa aprire la porta, e poi una folta
chioma bionda inonda tutto.
“Scusami
tanto, Kate, ma come ti ho detto c’era traffico
e--- oh, uhm, ciao” si gratta il collo con una mano, per poi
rivolgermi
un’occhiata quasi accusatoria.
“Scusate!
Davvero! Cioè… Io non volevo
affatto disturbarvi… intendo che, insomma, se
avessi saputo che
voi foste--”
John
sorride e la interrompe: “Non preoccuparti, stavamo
giusto andando via” Poi si alza e inizia ad avvicinarsi al
confine che è
l’ingresso dell’appartamento. Osservo di sfuggita
Care: la mia amica ha le
guance rosse per l’affanno e la corsa, forse anche per un
po’ di rabbia –giusto
un po’- in corpo che adesso scatenerà contro di
me. Ne sono quasi certa.
“E’
stato un piacere, allora” dico, tossendo e
schiarendomi la voce.
“Anche
per noi” Isobel sorride, “A presto,
Katherine”
E
spariscono dalla mia visuale, richiudendo la porta alle
loro spalle. Caroline attende qualche secondo poi sbraita,
“Ma sei impazzita?”
Inclino il
capo, confusa.
“Sconosciuti,
familiari, tu, postumi della sbronza, io
lontana, John, Isobel?!”
Rido. Ed ecco che lo tsunami inonda tutto.
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Hola mishamigos (chi vede/ha visto supernatural capirà:) )
perdonate il ritardo nell'aggiornare! ho avuto problemi di connessione ed in più poco tempo per scrivere, e tra l'altro l'ho impiegato per la stesura di una minilong che ho in mente da davvero un sacco di tempo (in realtà ne sto scrivendo due, una di 7 e l'altra di 10 capitoli). Ma non ho intenzione di pubblicarle, almeno per ora -- facciamo per un bel po'.
Forse il capitolo è un po' più lungo degli altri, forse la parte inziale può sembrare "stupida", banale, scritta senza una reale ragione: è davvero necessaria, in più il percorso delle due, qui, è piuttosto simmetrico perchè ci sono i genitori come punto fisso.
Nel POV di Elena ci sono degli spazi qua e là, dovuti principalmente al fatto che non si trova in uno stato di salute stabile, è ubriaca-in post sbronza, motivo per cui ho cercato di riprendere il suo pensiero, poichè, a mio parere, sarebbe sembrato totalmente inopportuno lasciarla ragionare benissimo, compiendo azioni e pronunciando frasi di reale senso compiuto.
Katherine completa pian piano la sua lista: cosa ne pensate? nel prossimo capitolo posterò un'immagine del suo nuovo taglio! :)
grazie per tutto l'amore che ricevo con le vostre parole, con i lettori silenziosi! è davvero importante e molto ma molto bello per me, non immaginate quanto!
spero che questo capitolo vi piaccia e interessi! a voi l'ultima parola:)
vi lascio con uno spoiler, a presto!
“Katherine…
come sei vestita?”
“Ciao
anche a te, Care”
Si
appoggia alla scrivania come me, imitandomi e controllando
l’orario.
“No,
sul
serio… non ti ho mai vista con qualcosa di bianco, prima non
ho fatto neanche
caso”
Annuisco,
“E’ stata l’unica cosa chiara che ho
trovato nel guardaroba! C’erano solo capi
neri e vestiti da prostituta”
C’è qualcosa nel suo modo di fare, quello di vestire e atteggiarsi, così come quello di camminare che mi destabilizza: sto cercando di capirne il perché, i risvolti, le cause; ma tutto questo invano, tutto questo porta inevitabilmente ad un vicolo cieco impossibile da evitare.