Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Carlos Olivera    10/04/2014    2 recensioni
Storia partecipante ai contest Le Metamorfosi di darllenwr
La visione scientifica dell'esistenza è poetica fino quasi a risultare trascendentale. Siamo incredibilmente fortunati ad avere avuto il privilegio di vivere per alcuni decenni su questa terra, prima di morire per sempre. E noi che viviamo oggi siamo ancora più fortunati, perché possiamo comprendere, apprezzare e godere l'universo come nessuna delle generazioni precedenti ha potuto fare. Abbiamo il beneficio di secoli di scoperte e progressi scientifici alle spalle. Ecco cosa dà significato alla vita. Ed il fatto che questa vita abbia un limite, e sia l'unica vita che abbiamo, ci rende ancora più determinati ad alzarci ogni mattina e cercare di partecipare al meraviglioso ciclo della natura.
L'anima aiuta il corpo e in certi momenti lo solleva. È l'unico uccello che sostenga la sua gabbia. (Victor Hugo)
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

VI

 

 

Da piccolo, prima che quel sogno di creare la vita si facesse strada dentro di lui, come tanti altri bambini Benjamin aveva sognato di essere tante cose: un calciatore, un pilota di aeronavi, un avventuriero.

Più in generale, qualcuno.

Ora, invece, non era nessuno, svuotato sia dentro che fuori, solo in una casa deserta nei suoi ultimi anni di vita, inchiodato su di una sedia a rotelle che sarebbe stata allo stesso tempo una prigione ed un monito.

Avrebbe trascorso l’ultima parte della sua vita nel modo più degno per una persona come lui, e solo ora, a prescindere dal peso di aver ucciso la sua famiglia, iniziava a comprendere appieno la vastità e la proporzione dei peccati che aveva commesso, e dell’arroganza dimostrata.

Non era mai stato un credente, ma nonostante ciò si era voluto sostituire a Dio. Peggio, aveva voluto diventarlo; nella sua tracotanza di scienziato, si era messo in testo di poter dare e togliere la vita a suo piacimento, e alla fine ci era riuscito.

Ma la sua era una creazione imperfetta, poiché egli non era Dio, e guardarsi nello stato in cui era ridotto era il modo più chiaro possibile per ricordarsene.

Una cosa era certa, non ce la faceva a sopportare gli sguardi e i giudizi silenziosi di chi lo conosceva, e voleva solo sparire.

In un primo momento pensò semplicemente di farla finita, un pensiero che si sarebbe ripresentato più volte negli anni a venire, ma poi decise che infondo vivere con tutto quel dolore e quel corpo malridotto era il modo migliore in cui poteva espiare a tutte le sue colpe.

Così vendette tutto, o quel poco che la sua ricerca forsennata gli aveva lasciato, trasferendosi in silenzio dalla caotica Kyrador alla più tranquilla Midgral, dove sperava di poter concludere degnamente la propria esistenza nel proprio dolore, divorato dal rimorso.

Per un tempo imprecisato rimase così, solo e senza contatti, trascinandosi stancamente da una parte all’altro di quella specie di prigione aspettando solamente che arrivasse quel momento, ma di tanto in tanto il pensiero di quella ricerca mai portata a termine tornava a fargli visita.

E allora ci ripensava, ripensava alle sue teorie, e all’aiuto che il suo vecchio amico Isaac avrebbe potuto dargli, se solo fosse stato ancora vivo.

Era rimasto da solo.

Isaac, Adam, Luna. Tutti se n’erano andati.

Doveva essere quella la punizione che il cielo aveva deciso per lui. Lui che aveva avuto l’arroganza di voler creare la vita, era condannato a veder morire tutti coloro che aveva attorno, desiderando ogni volta una liberazione che non sarebbe arrivata.

Ma se davvero era così arrogante come il cielo lo riteneva, si disse un giorno, allora doveva mettere in atto la sfida suprema. Doveva battere Dio sul suo stesso campo.

I famigli che avevano creato avevano una parvenza di vita, ma nella loro imperfezione non erano neppure paragonabili ad egli esseri viventi veri e proprio, come Adam era arrivato a capire ben prima del suo stesso creatore.

Visto che era stato condannato dal cielo per aver voluto creare la vita, solo riuscendoci veramente poteva dare un senso al suo tormento e alla pena che gli era stata inflitta.

Per un motivo che non gli riusciva di spiegarsi, nel momento di lasciare Kyrador aveva voluto portare Kaya con sé; quella gatta rossa pigra ma gentile era l’unico essere vivente che aveva avuto il privilegio di potergli stare vicino, e ora sarebbe diventata lo strumento della sua riscossa.

Con lei, avrebbe avuto la sua vendetta contro Dio, e dato un senso alla propria esistenza.

«Ti sei preso tutto quello che avevo.» disse un giorno, pieno d’odio, rivolto alla chiesa della Santa Croce che si intravedeva in lontananza dalla finestra della sua camera «Ora sarò io a prendermi qualcosa da te».

 

Così, il professore si rigettò nei suoi studi, riprendendo in mano quella ricerca a lungo sotterrata, quasi maledetta per come aveva contribuito a privarlo di tutti gli affetti che gli erano rimasti.

Andò a rileggersi tutto ciò che poteva servirgli, anche i libri e le vecchie pubblicazioni del suo amico Isaac, cercando di dare un senso a quella sua teoria che, oggi come allora, sapeva essere giusto, ma che necessitava indubbiamente di essere perfezionata.

Gli ci vollero molte settimane, molti mesi di studio, ma alla fine credette di aver trovato la risposta che cercava.

Ebbe un’illuminazione, e pensandoci bene si diede dello sciocco per non averci pensato prima.

Era una questione di capacità di imparare.

Il fulcro era tutto lì. Ed era legato al rapporto che si creava tra un padrone e il suo famiglio.

Un famiglio era pur sempre un animale, al quale venivano dati un genoma, una mente ed un corpo umani partendo da quelli del suo padrone, questo grazie al sangue, che era allo stesso tempo un patto di sudditanza ed un patrimonio di informazioni genetiche.

Il sangue obbligava il famiglio ad obbedire al suo creatore, e al tempo stesso era assieme alla scintilla di magia lo scheletro attorno a cui un famiglio creava la propria identità.

Ma insieme alle informazioni genetiche, il sangue probabilmente trasmetteva anche i ricordi, le sensazioni, e più in generale la personalità di un padrone ad un famiglio, e forse era anche per questo che molti famigli ricordavano, sia per carattere che per aspetto fisico, coloro che li avevano evocati.

Dando per buono questo concetto, probabilmente, anzi, senza dubbio era da tutto ciò che derivava la capacità dei famigli di pensare ed agire in modo autonomo, basandosi sulle scelte e sulla personalità dei propri padroni per crearne di proprie, anche nel caso in cui esse andassero a toccare tematiche e pratiche diverse da ciò che il loro condizionamento stabiliva come linea di condotta e di apprendimento. Benjamin da bambino aveva amato particolarmente la poesia, e quindi, di riflesso, tale passione doveva essersi manifestata anche in Adam.

Ciò però non risolveva, a prima vista, il problema fondamentale, poiché se davvero i famigli erano comunque condizionati nella loro personalità da quella dei loro creatori significava che anche così in qualche modo non disponevano del libero arbitrio, ma ancora una volta Benjamin arrivò ad ipotizzare una soluzione.

Era così semplice in fin dei conti.

Gli evocatori erano delle età più diverse, ma di contro i famigli dovevano sempre e comunque essere relativamente giovani, quantomeno in rapporto alle età umane, il che finiva, allo stato delle cose, per far entrare nella mente di un bambino i concetti e la personalità proprie, il più delle volte, di un adulto; un po’ come inserire una scheda di memoria vecchia e strapiena in un computer nuovo di zecca.

Ora era chiaro.

Un adulto aveva un bagaglio culturale già fatto e finito, e una mente geneticamente meno predisposta ad assimilare, cose che come tutto quanto il resto si riflettevano nel famiglio.

Ecco perché i famigli creati dal professore si erano rivelati dei vegetali; privandoli di nozioni, senza volerlo gli aveva tolto anche della naturale propensione e volontà di apprendere. Il fulcro del comportamento e della personalità, era risaputo, si forma nei primi anni di vita, sfruttando il bagaglio genetico di esperienze che un bambino eredita dai propri genitori a livello genetico tramite i cromosomi.

Ci voleva il DNA di un bambino, meglio ancora se appena nato.

Restava un problema di stipulazione del contratto, poiché così facendo il famiglio così nato si sarebbe legato al niente, ma Benjamin pensò di ovviare usando due differenti DNA, uno per la sottomissione e uno per la costruzione vera e propria dell’incantesimo.

Ora restava da trovare un DNA compatibile.

Quando Julia era nata la sua mamma, seguendo una tradizione diffusa nella sua famiglia, ne aveva fatto conservare parte del cordone ombelicale, che ancora custodito all’interno di una teca immerso nella formaldeide rappresentava per Benjamin l’unico lascito della sua adorata nipote.

Non gli serviva altro.

La sua vendetta contro Dio e il mondo poteva iniziare.

 

La prima cosa che Kaya riuscì a concepire, e che negli anni a venire avrebbe ricordato come il suo primo impero nazionale, era una luce; una luce calda e bellissima che, rischiarando l’oscurità, sembrava richiamarla a sé incitandola a proseguire.

Delle parole giungevano alle sue orecchie, dapprima indistinguibili, ma via via sempre più nitide.

«Ti dono queste viscere per darti la vita, ed il mio sangue per legarti a me. Anima e corpo, spirito e mente. Da questo momento, io e te saremo una cosa sola.

Quindi, ora, destati, e inginocchiati a me».

La luce la abbagliò, accecandola, e quando riaprì agli occhi si vide al centro di una piccola stanza, probabilmente uno scantinato, circondata da uno strano simbolo da cui giungeva un tiepido tepore, simile a quello che l’aveva guidata fin lì.

Davanti a lei c’era un uomo, anziano, consumato, la pelle raggrinzita e la barba bianca, che la fissava severamente prigioniero di una curiosa sedia con le ruote.

Aveva un’espressione molto triste.

Eppure, ciò nonostante, Kaya sentì con lui un legame indissolubile, come se lo avesse sempre conosciuto, e una parola in particolare si stampò con forza nella sua mente.

«Salute, Maestro.» disse guardandolo dritto negl’occhi con la voce di bambina.

Anche lui la guardò, scrutandola severamente, e in quell’istante Kaya notò una punta di orgoglio nella sua espressione.

«Il tuo nome è Kaya, e da oggi ubbidirai a me.» quindi alzò alcune dita della mano destra «Quante dita sono queste?».

Lei restò un momento in silenzio, più che altro per contemplare il tremore leggero della mano dell’uomo, quindi rispose senza esitazioni.

«Tre».

L’uomo sorrise, così come sorrise quando chiese a Kaya di dirgli come si chiamasse il capo d’abbigliamento che ne copriva il busto e le braccia, senza che tuttavia la ragazza potesse rispondere.

«Tu ora sei un corpo vuoto, Kaya. Ma tutte le informazioni, tutte le conoscenze di cui hai bisogno sono dentro di te. Dovrai solo tirarle fuori».

 

Ed era vero.

Con il passare dei giorni, proprio come un bambino che muove i suoi primi passi nella vita, Kaya iniziò ad imparare.

All’inizio si trattava di piccole cose, come i nomi degli oggetti che riempivano la casa, i numeri e le lettere, ma con il tempo un sempre maggior numero di informazioni presero a venire archiviate nella sua mente.

Il professore, come amava farsi chiamare il suo maestro, diceva che non stava scoprendo quelle cose, ma semplicemente ricordandole, estrapolandole dal bagaglio genetico che formava la sua essenza di essere senziente.

Nel giro di pochi mesi la ragazza era in grado di leggere, scrivere e fare di conto, e poté affacciarsi per la prima volta al mondo esterno. Il suo padrone dopotutto era molto vecchio e debole, e necessitava di molto aiuto per poter vivere una esistenza decorosa, ma Kaya era felice di aiutarlo. Non era solo una questione di sudditanza nei suoi confronti. Quell’uomo, in fin dei conti, le aveva dato la vita, insegnandole un sacco di cose, e quindi essergli di aiuto era, secondo lei, il modo migliore per ripagare la sua bontà.

La prima volta che uscì all’esterno fu così strano, e allo stesso tempo così meraviglioso.

Le strade erano piene di gente, e in un certo senso fu stupita quando si avvide che molte persone, pur dopo un momento come di indecisione, la trattavano con cordialità e gentilezza, diversamente da quanto erano solite fare con gli altri suoi simili; forse era perché il suo marchio era nascosto, ben protetto dal folto dei capelli rossi come la sua vecchia pelliccia di gatto, o forse per il suo essere così strana, così… umana.

Effettivamente fin dal primo sguardo sentì un che si strano negli altri famigli, come se lei fosse stata diversa. A volte arrivavano a spaventarla, con quella loro aria perennemente assente, quasi fossero stati delle bambole, e ringraziava ogni volta il destino per averle dato un padrone così illuminato e generoso.

Spesso parlavano.

Di tante cose. Parlavano della vita, della morte, dell’importanza di non essere soli, affrontando però anche argomenti più leggeri e meno importanti; così, senza uno scopo apparente, tranne quello di far passare il tempo e scambiarsi opinioni.

Il professor Blake non parlava volentieri della sua vita privata, e Kaya per correttezza ed educazione non volle mai indagare in tal senso, anche se l’empatia che provava nei suoi confronti le faceva intendere che nel passato di quell’uomo dovesse esservi tanto dolore.

Ma era una persona così triste.

Nei pochi anni che passò con lui, non ricordò di averlo mai visto sorridere. Avrebbe voluto fare qualcosa in questo senso, allietare un po’ quella sua malinconica tristezza fatta di dolore e rimpianti, ma non sapeva in che modo.

Poi, un giorno, mentre tornava dalla spesa, nel silenzio di una via secondaria sentì l’aria ed il silenzio tutto attorno caricarsi di una melodia struggente ed armoniosa.

Era bellissima e suadente, tanto che passò diversi minuti ad assaporarla, e seguendone la scia giunse nel giardino di una casetta, dove i suoi occhi si posarono su di una giovane donna, forse sulla quarantina, intenta a suonare il violino elegantemente seduta su di una poltroncina di vimini.

Quando la musica finì, non riuscì a non applaudire.

«È molto brava.»

«Ti ringrazio.» rispose gentilmente la donna.

Forse, si disse Kaya, se quella musica era stata in grado di sollevarle l’anima, forse ci sarebbe riuscita anche con il suo maestro. Tuttavia, ben sapendo quanto il professore detestasse avere gente in casa, non c’era che una cosa da fare.

«Potrebbe insegnarmi a suonare?».

 

La donna, una signora di nome Moya, rimasta vedova da pochi anni, accettò con piacere di istruirla, senza pretendere nulla in cambio se non qualcuna di quelle ottime torte di mirtilli che Kaya aveva imparato a cucinare leggendo un libro in biblioteca.

Gli insegnamenti durarono diversi mesi, anche se la stessa Moya si mostrò stupita della rapidità e della scioltezza con cui la sua giovane allieva riusciva ad imparare, tanto la prospettiva di imparare a suonare la entusiasmava.

Nel giro di un anno Kaya divenne così brava che Moya, ad un certo punto, sentì di non avere già più niente da insegnarle, e nel giorno in cui si separarono, almeno come maestro ed allieva, lei le regalò il suo violino, facendosi promettere che avrebbe continuato ad amare la musica per tutta la sua vita.

Dal canto suo il professore non aveva idea di che cosa il suo famiglio facesse tutti i martedì e i venerdì dalle tre del pomeriggio fin quasi all’ora di cena, quindi restò un momento basito vedendo Kaya tornare a casa con la cassetta del violino tra le mani e l’espressione a metà tra il sereno ed il triste.

«Ho una cosa da farle sentire, maestro».

Si spostarono in salotto. Kaya trasse fuori lo strumento, poggiandolo delicatamente sulla spalla, quindi, tratto un respiro leggero, iniziò a suonare, lasciando che le note scorressero attraverso di lei come Moya le aveva insegnato.

Benjamin si sentì morire; non in senso cattivo, al contrario. Per un istante, di fronte a quella ragazza che suonava per lui, sembrò la persona più felice del mondo.

Ce l’aveva fatta.

«Questo è il mio dono per voi, maestro.» disse al termine dell’esibizione «Per ringraziarvi di quanto avete fatto per me».

A quel punto, il professore non riuscì a non piangere, un pianto liberatorio al termine del quale provò un grande senso di pace.

 

Tutto sembrava destinato ad andare per il verso giusto, ma dopo la visita di quella giornalista il professore non era più stato lo stesso, e quella malattia silenziosa che già da tempo lo tormentava sembrò acquistare nuovo vigore iniziando a consumarlo.

Kaya dapprincipio prese ad odiare quella donna, che come un batterio era entrata nella vita del suo maestro rovinandogli quel poco di salute che aveva, e così non le riusciva di spiegarsi come mai, all’opposto, il professore da quel giorno avesse iniziato ad apparire molto più sollevato, quasi felice.

Poi, venne il giorno.

Quel maledetto giorno.

Kaya voleva fare una sorpresa al suo maestro ed era andata a comprare dei turian, frutti molto dolci e succosi dei quali entrambi erano ghiotti, ma rientrando trovò il professore riverso a terra, immobile, la carrozzina ribaltata accanto a lui e il tappeto tutto stropicciato nel vano tentativo di rimettersi in piedi.

«Maestro!» gridò cercando di soccorrerlo.

Era cianotico.

Chiamata un’ambulanza, lo portò immediatamente a letto in attesa che arrivassero i soccorsi, ma una parte di lei sapeva che non sarebbe servito a niente.

Il professore stava morendo.

Eppure, ancora una volta, sembrava felice.

«Finalmente. Finalmente è arrivato anche il mio momento.»

«Maestro, dovete resistere. L’ambulanza sarà presto qui. Vi cureranno.»

«Lascia stare, figlia mia».

Kaya rimase immobile. Prima d’ora il professore non l’aveva mai chiamata in quel modo.

«Ormai la mia anima è talmente nera che è impossibile per me sperare nella redenzione.»

«Non dovete dire così, maestro. Voi siete un uomo buono».

Il professore sorrise.

«Non ho mai creduto in Dio, se non quando ho scelto di sfidarlo. Di sfidare la condanna che aveva voluto gettarmi addosso.

Eppure, non ho mai desiderato come in questo momento di avere una seconda opportunità. Una seconda vita in cui cercare di poter espiare quanto fatto in questa».

Tossì violentemente, sputando anche un po’ di sangue.

«Ho sempre sognato di cambiare il mondo. Ma ho visto morire tutti quanti attorno a me. Tutto ciò che amavo disfarsi nelle mie mani come fosse sabbia. Credevo che non me ne importasse più niente di nessuno. Tutto era inutile. Forse, tutto è stato davvero inutile.

Ma quando guardo te, ancora una volta, vedo tutto finire in pezzi. E allora, in questo mio cuore nero, si accende una piccola luce.»

«Maestro…» mormorò Kaya trattenendo a stento le lacrime

«Perché piangi per me? Dovresti essere triste per te stessa. Quando morirò, tornerai ad essere un animale. Niente intelligenza, nessun ricordo. Tutto finirà in pezzi.»

«Non me ne importa niente, maestro. Io voglio solo che restiate con me. Non mi importa in che forma, io voglio starvi vicino. Voi siete la mia famiglia.»

«Famiglia. Semmai un giorno avrai una famiglia tutta tua, cerca di non gettarla via come ho fatto io.»

«Cosa?».

Accadde in un istante.

Raccolte le poche forze che aveva, il professore si alzò violentemente dal letto, poggiando il palmo della mano sul petto di Kaya, all’altezza del cuore. Li avvolse una luce fortissima, ed un vortice di vento mandò all’aria tutti i suppellettili ed i mobili della stanza; Kaya cercò di divincolarsi, ma era come paralizzata, e intanto sentiva quel legame con il professore farsi sempre più esile, fino a venire completamente tranciato.

Quando tutto tacque, però, era ancora lei stessa, con il suo corpo di giovane ragazza ed i pensieri di un essere umano, ma lo stupore più grande fu quando, passandosi una mano dietro il collo, non sentì la presenza di quei segni sulla pelle che come un marchio le ricordavano sempre chi era, e da dove veniva.

«Maestro, che cosa…»

«Questo è l’unico lascito che posso offrirti, Kaya. L’unico. Voglia il cielo che tu impari ad usarlo.»

«Perché, maestro? Perché l’avete fatto?»

«Una volta, molti anni fa, ho assistito ad una scena simile, ma dal tuo punto di vista. Allora, un grande amico mi fece una domanda. Mi chiese che cosa significasse realmente vivere. Solo adesso comincio a capire. In fin dei conti, che si tratti di umani o famigli, tutti noi esistiamo, ma solo pochi di noi in realtà possono dire di aver realmente vissuto.

Eppure, non vi è un solo essere vivente che non si batta quotidianamente per la propria vita».

Il professore allungò la mano tremante ed ossuta verso Kaya, che la prese stringendola forte.

«Ho dato a te tutto quello che possedevo. Sacrificando una parte della mia scintilla, ho reso autonoma la tua. Ora sei libera, Kaya.

Fai buon uso… della tua libertà».

Nel delirio dell’ultimo respiro, il professore ebbe come l’impressione di vedere una luce comparire dinnanzi a lui inondando tutta la stanza, dalla quale uscirono, camminando lentamente, tre figure a lui note, che lo guardavano sorridendo con occhi pieni d’amore.

Un vecchio amico di tante battaglie; un figlio a suo tempo amato e poi lasciato a sé stesso; una nipotina la cui fiamma si era spenta troppo presto, ma che, in un modo o nell’altro, era tornata a vivere.

«Siete venuti…» disse sorridendo.

Ora, sentiva di non avere più niente da temere.

Chiusi gli occhi, si lasciò andare.

Il suo tormento era finito.

«Maestro! Maestro!».

 

Fiocchi di neve si addensarono sopra il cimitero di Midgral, calando placidamente a terra e coprendo tutto di una soffice coltre bianca.

Le lacrime di Kaya, gelide, le tagliavano il viso, ma era niente in confronto al dolore che aveva nel cuore.

Anche Jeanne piangeva.

«Perché lo ha fatto? Ora sono rimasta sola. Che senso ha essere rimasta in questa forma, se non ho nessuno? Che cosa mi resta?».

Chiuse gli occhi, nascondendo ancora di più il volto tra le ginocchia, fino a che non sentì la neve fredda smettere di bagnarle i capelli, e un’ombra gentile protendersi su di lei come a volerle infondere calore.

Jeanne aveva aperto il proprio ombrello ponendolo sopra di lei, e la osservava con un sorriso così gentile e puro da sembrare quello di un angelo.

«Non credi che il tuo maestro volesse semplicemente insegnarti cosa significa realmente vivere?».

Kaya spalancò i suoi grandi e umidi occhi gialli, riempiendoli di stupore.

«Cosa!?»

«L’ha detto lui stesso. Esistere e vivere sono due cose diverse. La maggior parte dei famigli si limita ad esistere fino al giorno in cui cessa il proprio compito. Ma tu, tu sei diversa. Tu hai vissuto. Tu vivi ancora. E il fatto che tu sia qui, che sia viva, è la prova che il professore aveva ragione.

Su tutto.

I famigli non sono oggetti, né giocattoli nelle mani degli uomini. Sono esseri viventi. Né più né meno di quanto lo erano nella loro vera forma.

E visto che siamo stati noi a rendervi coscienti di ciò è nostro dovere insegnarvi a vivere, così come è nostro dovere lasciarvi andare quando ve lo avremo insegnato».

Le due donne si guardarono, scambiandosi emozioni diverse ma ugualmente potenti, mentre tutto attorno a loro la neve seguitava a cadere.

Per un attimo, Kaya ebbe l’impressione di rivedere in quegli occhi l’espressione del suo maestro, così come l’aveva vista nell’istante in cui era venuta al mondo nella sua seconda nascita.

E allora, tutto ciò che si era tenuta dentro esplose violentemente, spingendola a cercare un abbraccio pieno di calore lasciandosi andare ad un pianto liberatorio.

«Forse non sarà una cosa breve.» disse Jeanne stringendola a sé come una madre «Né facile. Ma, me lo sento, verrà il giorno in cui tutto questo avrà fine. Il giorno in cui gli uomini smetteranno di avere paura, e guarderanno davvero alle loro creazioni come a dei compagni di vita, degli amici fidati, e non come a delle creature aliene di cui diffidare o da comandare a piacimento, come non fossero altro che giocattoli».

Quindi, stringendosi l’un l’altra, se ne andarono insieme.







Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

Bene o male, siamo arrivati alla fine anche di questa seconda storia breve.

Spero sia stata di vostro gradimento, perché personalmente scriverla mi è piaciuto molto, tanto più che trattava un argomento che mi interessava ma che non mi decidevo mai ad inserire nella storia principale.

Attualmente sto già lavorando ad un’altra storia breve, che potete già trovare sulla mia pagina, inoltre ho iniziato a lavorare al prossimo capitolo dell’originale Tales.

Che altro dire… aspetto di conoscere il vostro parere (e i risultati del contest cui questa storia partecipa)

A presto!^_^

Carlos Olivera

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Carlos Olivera