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Autore: Francine    11/04/2014    4 recensioni
Saori aspetta. Perché sa che oramai è questione di tempo. Oramai ci siamo. La Guerra Sacra di questo secolo è al culmine, e lei può solo attendere. Attendere che il suo fato si compia. Forse, una volta per tutte.
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cancer DeathMask, Gemini Saga, Saori Kido, Sasha, Virgo Shaka
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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Camus


che dura tenerezza c'era 
al rientro di periferia 
dentro un ragazzo di pianura 
a caccia della sua poesia 

 
 


In una notte di Maggio come questa, Rémy l’aveva portato a fare una passeggiata.
«Vado a comprare le sigarette», aveva detto alla porta della cucina. Maman aveva mormorato qualcosa da dietro la tenda di perline avana e marroni, ma Rémy non era rimasto con la maniglia dell’uscio in mano per quello che aveva sentito, ma per lui. Che gli si era avvicinato, afferrandogli i calzoni e guardandolo da sotto in su. Negli occhi, una muta richiesta. Lo sguardo del cagnolino che vede il padrone andare via. Lo sguardo adorante del bambino che vuol stare con suo padre. Anche se all’epoca non esistevano concetti come madre e padre. All’epoca c’erano solo loro, Maman e Rémy.
Rémy gli aveva sorriso – una di quelle smorfie sghembe che riuscivano solo lui e che affascinavano tanto la tabaccaia giù all’angolo quanto mandavano il sangue alla testa ad Antoine – gli aveva infilato la giacca e l’aveva preso in braccio. «Andiamo a comprare le sigarette», si era corretto, prima di imboccare la porta di casa e chiudersela alle spalle.
Il cielo era freddo. Sembrava così immenso e profondo da fargli venire le vertigini. Come vedere il mare all’incontrario. Pulito, con la Via Lattea che assomigliava ad un fiume di luce abbagliante. Vicino, come se qualcuno avesse scambiato il mantello della notte per una torta e si fosse preso la briga di spargere la granella di zucchero a manciate generose.
Rémy se l’era sistemato sulle spalle, tenendolo per le caviglie, mentre lui gli aveva abbracciato la testa. I suoi capelli, rossi e scarmigliati, odoravano di tabacco e cuoio. Aromi forti. Come l’abbraccio solido di Rémy. Che gli dava sicurezza. Quando Antoine bussava alla porta col manico del suo bastone, con quell’odiosa testa di cavallo in avorio. Quando sognava che Antoine arrivava per portargli via Maman. Quando cadeva. Quando era stanco e non ne poteva più di tutto quel freddo. Rémy c’era. E una parte di lui sapeva che ci sarebbe stato sempre, che ogni volta in cui Etienne avesse pianto, o gridato o chiamato il suo nome, Rémy sarebbe apparso. Ma c’era anche qualcos'altro, dentro di lui. Qualcosa che serpeggiava, viscido e freddo, e s’ingigantiva nutrendosi delle sue paure di bambino. La consapevolezza che Rémy se ne sarebbe andato. Sarebbe uscito dalla sua vita per non fare più ritorno.
«Avanti, giovanotto», gli aveva detto accendendosi una sigaretta. «Dov’è Arturo?»
«Nella Costellazione del Pastore», aveva risposto fissando i capelli di Rémy.
«E dov’è il Pastore?»
Il suo ditino era salito ad indicare il disegno di un aquilone nel cielo mentre il fumo grigio azzurro si alzava come a voler raggiungere le stelle anche lui. Rémy si era fermato, la sigaretta stretta tra i denti e aveva annuito.  «Bene. E adesso trovami gli altri vertici del Triangolo di Primavera.»
Aveva tentennato. Non gli interessava di mostrargli Spica e Denebola. Doveva dirgli una cosa importante.
«Rémy… dov’eri, ieri?»
«Fuori per lavoro. Te l’ho detto, no? Ti ho anche portato un regalino.» Altra boccata. «È successo qualcosa?»
«Ieri è venuto Antoine.» Si era aggrappato ai suoi capelli e aveva stretto le gambe attorno al collo di Rémy. «Ha detto… ha detto…»
«Delle cose brutte a Maman?»
Etienne aveva annuito e aveva ispirato forte l’odore dei capelli di Rémy. Per darsi coraggio.
«Maman ha detto di non dirtelo, ma…»
«Hai fatto bene. Ad Antoine piace scherzare. Piace fare la voce grossa. E sai perché?»
«Perché?»
«Perché è basso. Basso, calvo e zoppo. Allora lui crede che se alza la voce, gli altri pensano che lui sia più grosso. Più pericoloso. Ma dai retta al vecchio Rémy. Antoine è una mezza calzetta…»
«Sì, ma ha detto quelle cose a Maman!!» Perché Rémy avrà avuto ragione – come sempre – ma Maman non si era spaventata quando Antoine le aveva detto – le aveva promesso – che l’avrebbe sbattuta in strada a continuare la tradizione di famiglia, ma quando Antoine aveva minacciato lui. Spingendogli sotto il mento quell’odiosa testa di cavallo, fredda e scivolosa.
«Lo so», gli aveva ribattuto Rémy. Continuando a camminare come se niente fosse. Come se stessero andando a passeggio in una mite serata di Maggio. Lui si era sporto, cercando di decifrare l’espressione di Rémy. Per capire cosa stesse pensando. Aveva capito che aveva qualcosa in mente. Un’idea. Un pensiero. Uno dei suoi tanti assi pronti a saltar fuori dalla manica all’occorrenza. Al momento giusto.
«Il tabaccaio è chiuso», gli aveva detto. Julie aveva tirato giù la saracinesca alle sette in punto. L’unica era svoltare a destra e andare da Jean, in fondo a rue du Paradis. Ma i piedi di Rémy avevano preso tutt’altra direzione. «Jean è dall’altra parte», gli aveva ricordato, voltandosi verso la stradina tra le case che scompariva in una svolta capricciosa.
Rémy aveva sollevato la sigaretta, in modo che anche lui la vedesse, tutta storta e lunga la metà, la punta rosso fiamma che sembrava una stella tascabile.
«Ti svelo un segreto. Non stiamo andando a compare le sigarette.»
«E dove stiamo andando?»
Il sorriso a mezzaluna non era la smorfia sghemba che gli piaceva – e che piaceva tanto a Julie; era quell’altro sorriso. Quello da faina, quello che assomigliava ad una tagliola, quello che scintillava freddo. Quello che Rémy metteva su quando qualcuno faceva qualcosa che non avrebbe dovuto fare. Come minacciare la sua famiglia, ad esempio.
«A casa di Antoine. Ovvio.»
Un misto di eccitazione e paura gli aveva fritto la spina dorsale. «Davvero? Ma Maman sa…»
«Shhh…», e Rémy aveva tirato un’altra boccata di fumo. «Sarà il nostro piccolo segreto. Una cosa tra uomini. Intesi?»
«E io che devo fare?»
«Stai accanto a me. Se Antoine ha un briciolo di cervello, risolviamo la questione in tre minuti. Altrimenti…»
«Altrimenti?»
«Gli mostrerò perché mi chiamano Il Bifolco. E credimi, non è perché vengo dalle montagne…»
Aveva visto una luce rossastra sfrigolare sulla punta delle dita di Rémy, come fossero le lucine che appendevano all’albero ogni Natale e che Maman riponeva in una grossa scatola rossa dopo l’Epifania. Sapeva che Rémy era diverso. Sapeva che era capace di cose che i padri degli altri bambini non erano in grado di fare, e non si trattava di cambiare una lampadina, aggiustare un rubinetto che perde o attaccare un quadro al muro. In quello, Rémy era negato. Ma c’era qualcosa che solo lui sapeva fare. Qualcosa che gli aveva mostrato per gioco prima, per tranquillizzarlo quando fuori infuriava la burrasca, e per insegnamento poi. Qualcosa chiamata Cosmo. Qualcosa che doveva avere anche lui. Rémy ne era certissimo. Diceva che l’aveva visto. Che era diverso dal suo, rosso scuro e caldo. Era freddo. Era dorato. E lui non riusciva a capire come mai ogni volta che si parlava del colore del suo cosmo, Rémy sfoderava il terzo sorriso - quello che avrebbe conosciuto in seguito, quando un suo allievo avrebbe risvegliato dal sonno dei Ghiacci Perenni l’armatura del Cigno - quello colorato dalla soddisfazione e dall’orgoglio paterno. Anche se la sua vita sarebbe stata una costellazione di battaglie, sangue e morti. Ma lo sarebbe stata per Athena, e non per bagattelle come chi avrebbe dovuto spartirsi il quartiere o gestire lo spaccio in zona.
«Ti attende un grande futuro, Etienne», gli ripeteva Rémy. Quando lo vedeva scoraggiato. Stanco. Quando non riusciva a convogliare il proprio cosmo sulla punta dell’indice, non importa quanto si sforzasse, fin quasi a farsi schizzare il cervello dalle orecchie. E glielo aveva detto anche quella sera, tornando da casa di Antoine.
Rémy lo portava a cavalluccio. Era contento. Aveva un labbro spaccato e un occhio socchiuso che sarebbe diventato livido a breve, ma un sorriso mai visto prima gli incurvava le belle labbra all’insù. Era soddisfatto. Oh, Maman si sarebbe infuriata a vederseli tornare pesti e malconci – cosa che era davvero successa – ma adesso importava solo che Antoine aveva capito. E che per un bel pezzo se ne sarebbe stato buono e tranquillo. Fino alla prossima volta, certo. Perché certi tipi sono troppo stupidi, e hanno bisogno di ripetizioni. E ancora e ancora e ancora.
Camminavano di buon passo, l’odore dei gelsomini che riempiva l’aria. Le stelle erano una manciata di diamanti sparsi a pioggia sul fondo nero della notte, mentre Rémy gli raccontava di un posto lontano. Dove non c’era bisogno di illuminare le strade con torce e fiaccole quando il sole scivola oltre l’orizzonte, perché a quello pensa la luce della luna. E le stelle vegliano sul sonno degli uomini come farebbe una madre alla culla del suo bambino. «Ti piacerebbe andarci, Etienne? Ti piacerebbe guardare quel cielo?»
«Ho paura del cielo, se non ci sei tu», aveva pigolato lui, i capelli di Rémy stretti nei pugni, chiusi con l’ostinazione di un bambino di cinque anni.
Rémy aveva riso, un suono forte e profondo e argentino, come quello delle campane che riempiono l’aria della domenica mattina. Aveva riso e gli aveva detto che solo i ladri e gli assassini hanno paura del cielo e non riescono a guardare la sua purezza. «Il firmamento è la luce di Dio. E solo i peccatori non riescono a sopportarla, chouchou
Poco convinto, aveva alzato la testa, le mani di Rémy strette attorno alle caviglie, a dirgli: «Stai tranquillo. Io sono con te.». E l’aveva visto. Il fiume delle stelle. Il mare capovolto, e scuro e profondo. E aveva sentito che lo stavano chiamando. Aveva visto qualcosa brillare, lontano lontano. Qualcosa di giallo. Come il suo cosmo.
«Quella è Sadalmelik, la Fortuna del Re», gli aveva detto Rémy, mentre i suoi occhi si perdevano a contemplare quel puntino. «La stella più brillante della tua Costellazione, Etienne.»
«L’Acquario?» La testa di Rémy aveva fatto un movimento impercettibile. Era come se stesse trattenendo il fiato. «È bellissima», aveva risposto, e la tensione nei muscoli di Rémy si era sciolta. Come faceva Julie quando lui le sorrideva per avere un piccolo sconto. Lontano dagli occhi belli di Maman.
«Avanti, giovanotto», aveva detto Rémy dopo un periodo incalcolabile di tempo – una decina di minuti come un istante congelato – «Torniamo a casa…». E si erano diretti da Maman passeggiando sull’acciottolato della città vecchia, stretti l’uno all’altro, canticchiando filastrocche e motivetti lui e fumando un’altra sigaretta Rémy, fino a quando non avevano visto la luce gialla della lanterna della loro casetta.

Ainsi font, font, font,
Les petites marionnettes,
Ainsi font, font, font,
Trois p'tits tours et puis s'en vont.

 
Il cielo del Santuario è uno splendido mare capovolto. Ti sembra quasi di scivolarci dentro, se non stai attento. Se ti sporgi troppo, per guardare quel fiume di stelle, cadi. E se cadi, non sai dove finirai. In qualche ammasso stellare. Sulla scia calda e luminosa di una cometa. Tra gli asteroidi. O in qualche buco nero. Come quello da cui è appena emerso lui.
Le Dodici Case spiccano bianchissime contro il nero della notte. L’aria profuma di gelsomino, ma non di cuoio, non di tabacco. Profuma dell’odore dolciastro dei fiori nei vasi, davanti alle tombe. E di quello del sangue. Il Kerameikos è squartato dall'interno. Come se fosse esplosa una bomba. Come se qualcuno vi avesse passato il vomere. Per dissodare la terra. E seminare nuove piante. Anche se non è più stagione. Un ben macabro raccolto, pensa, mentre le mani di Milo si serrano attorno al suo collo. Non si può uccidere un uomo già morto, ma quelle dita d’acciaio fanno male. E per un istante, mentre il fiato sembra volerlo abbandonare di nuovo, Camus si dice che non può finire lì. Non così. Non ancora. Non adesso. È appena iniziata. E deve aiutare Athena.
Athena…
Milo lascia andare la presa. Le sue mani scivolano via dal suo collo, come se fosse un fantoccio, un burattino a cui han tagliato i fili. Una marionetta stanca. Anche se le marionette siamo noi, amico mio.
I suoi occhi salgono al cielo. Anche se non vede più lo splendore delle stelle. Anche se sulle sue mani c’è ancora il sangue di Shaka. E quello di Athena. Ma alza lo stesso lo sguardo a quel firmamento lontano, freddo. E la costellazione del Pastore si ammanta di nuvole, per non vedere quel figlio. Per non trattenerlo sotto di sé. Perché Athena aspetta. E i suoi passi devono raggiungerla.
   
 
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