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Autore: AnnabethJackson    15/04/2014    16 recensioni
| Percabeth | Thaluke | AU |
Annabeth ha una bella vita, con due genitori e un fratellino cui vuole un bene infinito, tre migliori amiche e un ragazzo che la ama. Almeno, questo è quello che crede lei finché, una tranquilla sera di fine estate, muore.
Si ritrova, all'improvviso, in un altra dimensione. Annabeth è un fantasma che vaga nello spazio tra la terra e la pace.
Non può passare oltre finché non elabora le cinque fasi del lutto: negazione, rabbia, patteggiamento, tristezza e accettazione.
Ma non ce la può fare da sola. Con l'aiuto di Percy, Anima Persa e compagno di avventure, Annabeth capisce finalmente un sacco di cose.
Che il matrimonio dei suoi genitori sta andando a rotoli.
Che suo fratello non riesce a perdonarle di essere morta.
Che la sua migliore amica l'ha tradita.
E che l'amore, come lei l'ha conosciuto, non esiste.
________
Dal Testo:
"Il momento prima ero viva. Quello dopo ero morta. Di crepacuore. Già, proprio così, il cuore mi si era spezzato in due. Letteralmente. Bella sfiga, penserete. E avete ragione.
Beh, almeno non sono morta di Domenica, o Natale, o Pasqua. Ho fatto un favore a tutti morendo di Mercoledì.
Genere: Comico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Percy Jackson, Talia Grace
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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May the love be always with you







2. Ho sempre detto che i dottori sono dei dongiovanni








In sedici anni di vita -quasi diciassette- non ho mai pensato alla morte. Insomma ero una ragazza nel pieno dell'adolescenza, della crescita e della maturazione. Non c'era alcun motivo per cui mi dovessi porre delle domande sull'argomento.
Certo, con Thalia, Piper e Rachel una volta ci eravamo domandate cosa succedesse dopo che sei passato a miglior vita, ma lo avevamo fatto solo perché non sapevamo che fare.
Capiteci, erano passate appena le 3 di notte e gli argomenti a nostra disposizione erano terminati da un bel po', così Rachel, la più fantasiosa del nostro gruppo, era saltata fuori con quella domanda, all'improvviso. Thalia era seduta sul divanetto rosa, posto sotto la finestra della camera di Piper, e io avevo il capo poggiato sul suo grembo, mentre lei mi faceva le treccine. Rachel era sdraiata sul letto a doppia piazza, con la testa a penzoloni e giocava con il braccialetto di perline colorate che portava al polso. Piper, invece, era seduta alla toeletta intenta a passarsi la spazzola tra i capelli castani per quella che, a me, era sembrata la milionesima volta in un ora.
Avevamo appena finito di stilare un piano su come Piper poteva attirare l'attenzione di Jason, il quarterback appena ritornato single dopo una breve relazione con Reyna, la rappresentate d'Istituto.
Il tutto prevedeva cinque fasi.
1. Inciampare casualmente in corridoio, rovinandogli addosso;
2. Cadere a terra, reggendosi la caviglia ed emettendo esclamazioni di dolore;
3. A questo punto si presumeva che lui si chinasse e l'aiutasse ad andare in infermeria, mentre lei lo lodava di ringraziamenti e di scuse;
4. Dopo essersi seduta sul lettino dell'infermeria, Piper avrebbe incrociato lo sguardo di Jason comunicandogli, a detta di lei, un “amore passionale”;
5. Infine lui si sarebbe accordo di provare un'attrazione fatale nei suoi confronti e tutti sarebbero vissuti in pace e amore per sempre.
Sì, avete indovinato. Piper era la romantica per eccellenza del nostro gruppo, quella che sognava il principe azzurro in sella ad un cavallo bianco.
Quel principe azzurro che credevo di aver incontrato anch'io.
Comunque, dopo due minuti di silenzio, durante i quali Thalia aveva completato la sua opera d'arte con i miei capelli, Rachel se n'era uscita con quella domanda.
-Cosa pensate ci sia dopo la morte?-
-L'unicorno rosa che volevo tanto da piccola ma che papà non mi ha mai comprato.- aveva risposto Piper, scoppiando subito poi a ridere.
Avevamo bevuto? Ma no! Che credete?
Okay, sì, lo ammetto.
Ma solo un goccettino, piccino picciò, giuro!
Thalia mi aveva accarezzato i capelli con una mano mentre rispondeva.
-Non ne ho idea, ma qualsiasi cosa ci sia, spero sia meglio di questo schifo di mondo.- detto in questo modo, sembra la risposta di un depresso con problemi di alcol e droga, vero? Ma Thalia era fatta così; guardava in faccia alla realtà che la circondava, non lasciandosi influenzare da niente e nessuno. Direi che l'aggettivo “dura” non è abbastanza per caratterizzare ciò che era. In quinta elementare, aveva avuto le palle di tenere testa al bullo della scuola, arrivando persino a dargli un pungo che lo aveva steso per un bel po'. Da allora tutti la chiamavano per cognome che era la forma di rispetto più elevato.
Lei era stata il mio pilastro sin dal nostro primo incontro, quando non eravamo altro che due marmocchie pidocchiose, con il moccio sempre sulla punta del naso. Viste da fuori nessuno avrebbe potuto elencare una sola caratteristica in comune, ma chi ci conosceva a fondo sapeva. Sapeva tutto ciò che avevamo passato assieme; la partenza improvvisa di sua madre quando avevamo undici anni, le prime mestruazioni, il primo bacio, la prima cotta, il primo reggiseno, il primo brutto voto... io c'ero per lei, e lei c'era per me.
Se Thalia era la “dura”, io ero la “secchiona”, quella sempre attenta in classe e con il massimo dei voti in quasi tutte le materie. Questo non vuol dire che fossi una sfigata; insomma, c'è una netta differenza tra “secchiona-socievole” e “secchiona-sfigata.”
La prima, in questo caso io, è brava a scuola ma non trascura affatto la vita sociale, quella che ti permette di avere amici e un fidanzato.
Nel secondo caso, invece, si ha il tipico topo da biblioteca, quella che passa più di ventiquattr'ore al giorno con il naso in un libro perché la sua vita sociale è così inutile che fa piangere anche la madre. Solitamente, quest'ultimo tipo, porta l'apparecchio ai denti e/o occhiali e/o presenta una malattia della pelle ad evoluzione benigna, in termini medici acne. I babbani li chiamano, volgarmente, brufoli.
Eh, sì. Ho letto anch'io Harry Potter. Credetemi ragazzi, è una gran bella saga.
Comunque, torniamo al dunque. Stavamo parlando della fatidica domanda, giusto?
Tutte le mie amiche avevano risposto, chi seriamente, chi no. Restavo solo io.
Il silenzio era calato nella stanza, in attesa che io lo riempissi con delle parole. In verità non sapevo cosa rispondere perché non mi ero mai posta il problema.
Come dicevo prima ero troppo giovane per pensarci. E infatti...
-Oh, insomma, ragazze. Che se queste domande macabre? Abbiamo sedici anni e tutta la vita davanti per pensarci! Sorridete, scherzate e vivete prima che sia troppo tardi.- avevo detto guardando, da sotto, Thalia. Mi aveva sorriso annuendo.
E la questione si era chiusa lì.
Buffo che fossi stata proprio io a sviare il discorso, usando come scusa la nostra adolescenza non ancora vissuta.
Io che ero morta cinque mesi dopo.


Ora che ci penso non vi ho ancora spiegato precisamente come sono morta.
Avevo detto che il cuore mi si era spezzato letteralmente in due, giusto? Ma ora starete pesando che è impossibile. Beh, avete ragione. Ma solo teoricamente perché in pratica è successo proprio così.
Il mio cuore si era diviso in due parti, destra e sinistra. Come il cuoricino rosso frantumato che disegnavate all'asilo pensando ad un amore finito.
Sembra tanto una storia della Disney. La principessa con l'abito bianco, all'appuntamento con il principe azzurro, dai capelli biondi e gli occhi azzurri.
-Non ti amo.-
Già, peccato che le storie principesche della Disney finiscano sempre un bel “e vissero per sempre felici e contenti”. Insomma, se la principessa morisse vedendo il principe innamorato di qualcun'altra, che insegnamento ci trarrebbero i bambini? Che l'amore vero non esiste? Visto che ci sono potrebbero anche evitare di raccontarla, allora.
In quella stanza dell'obitorio, priva di finestre e colori, al di fuori del bianco sterile, accadde quello che mio padre chiamava “studio della morte” e che si era ostinatamente opposto nel dal dare il permesso.
Il lettino su cui poggiava il mio corpo venne spostato in un'altra stanza, sempre bianca e sempre spenta, tra un carello di ferro e un grande obiettivo che irradiava una luce accecante.
Un dottore, in camice bianco e guanti verdi, si avvicinò al telo stereotipato dell'ospedale, con in mano una protuberanza tagliente di metallo e la mascherina bucherellata alla bocca.
Da dietro ad un grande vetro potevo vedere benissimo i miei genitori. Mamma, con i capelli biondi legati in un chignon stretto e severo, e l'abituale tailleur nero dal taglio formale, se ne stava a braccia incrociate e le spalle rientranti, come se cercasse di ripararsi da un vento burrascoso. Il suo viso era pulito come sempre, ma le occhiaie scure che perimetravano quegli occhi grigi come un mare in tempesta, la tradivano.
Papà, invece, era al lato opposto del vetro, e si vedeva a stento, tanto che era lontano dal riflesso. A differenza della mamma, indossava un lungo cappotto scuro, che nascondeva la sua figura snella e slanciata; la stessa che avevo ereditato io. Sembrava invecchiato di dieci anni in una sola notte, con la barba mattutina non fatta e le zampe di gallina più marcate del solito, caratteristica che suggeriva quante volte avesse sorriso in passato.
Lì, in piedi accanto al mio corpo nudo, avevo assistito tacitamente.
Un lungo taglio che partiva dall'esofago, giù fino al bacino, apriva il mio busto a metà. Vidi tutto quello che non volevo vedere.
E poi, eccola lì. La prova di quello che sapevo già.
Il mio cuore.
Diviso in due parti perfettamente uguali.
Spezzato.
Le lastre che mi avevano fatto al corpo, non erano bastate a mia madre, la dottoressa della famiglia, colei che aveva bisogno di una risposta scientifica e razionale per accettare la dura realtà.
«Sei contenta, ora, mamma?»
Il mio corpo era stato profanato.
Okay, avete ragione, sto esagerando. Ma ho sempre desiderato usare questa parola in un contesto pertinente. Profanare... suona come qualcosa di macabro e, allo stesso tempo, sacro.
Comunque, parlando seriamente, vi farebbe piacere sapere che il vostro corpo è stato aperto in due per uno stupido capriccio di vostra madre? Perché, vi posso garantire, che il suo fu solo un capriccio, frutto della mentalità troppo chiusa per accettare l'evidenza.
Per di più non è carino assistere all'operazione, anche se sei passato a migliore vita e, quindi, è impossibile sentire dolore fisico.
Sotto strati e strati di organi e tessuto muscolare, alla fine anche lei lo vide, mentre veniva estratto.
Alzai lo sguardo, puntandolo sulla vetrata per osservare la reazione della donna che mi aveva partorito.
Non vidi altro che sgomento e perplessità.
Si portò una mano a coprire il mento, con l'indice che andava avanti e indietro. Sulla curva elegante del naso, tra le due sopracciglia, si formò una piega profonda, la stessa che si formava sul mio davanti ad un'equazione particolarmente complessa.
«No, non è possibile!»
Come mio padre, che le si era avvicinato, conoscevo benissimo quell'espressione. Quella di chi è concentrato a trovare una soluzione ad un rompicapo.
In quel caso, il rompicapo della mia vita.
Lei non era soddisfatta. Non ancora.
Ma io avevo visto abbastanza.
Mi voltai, dando le spalle alla scena, e tornai nella stanza dell'obitorio.


Lunedì 18 Agosto, fu, in assoluto, la giornata più merdosa di tutta l'estate.
Capita almeno una volta all'anno, ve lo assicuro, sopratutto quando la stagione presenta un sole afoso e splendente per quasi tutta la sua durata. Certo, a San Francisco, la maggior parte del tempo, si sta bene. Ma d'estate si muore, letteralmente, di caldo.
Okay, basta, la smetto. Ma non lo faccio apposta. Le battute mi escono naturali!
Comunque, stavo parlando dell'estate a San Francisco che è abbastanza permissiva da poter indossare solo un costume. E, nella maggior parte dei casi, non è un bello spettacolo.
Però, sebbene il mio armadio non abbia mai visto un cappotto di pelliccia, c'è sempre un giorno d'estate in cui i vestiti invernali devono essere adoperati. Per questo tenevo sempre una maglietta rosa, a maniche lunghe e un jeans lungo, nel cassetto più in basso.
Per essere chiari, quando parlo di vestiti invernali intendo cotone, non lana.
La giornata cominciò con dei nuvoloni grigi sopra il cielo di Island Coast, ma nessuno sembrò preoccuparsene. Evidentemente credevano tutti che la perturbazione se ne sarebbe andata nel pomeriggio.
Beh, in verità, ero io che ci speravo.
Insomma non poteva piovere proprio quel giorno!
Dopo l'operazione di Giovedì, avevo deciso di tornare nell'obitorio e aspettare il mio corpo. Non volevo più vedere nessuno, in particolare i miei genitori.
Avevo passato i giorni seguenti ad ascoltare le infermiere di turno parlare di chi, tra i dottori, fosse il più carino. La notte tra Sabato e Domenica, verso le tre circa, stavo canticchiando la melodia della Primavera di Vivaldi, quando le porte di quella stanza fredda si erano aperte.
Il dottor Ross, un neurologo che deteneva il record dei maggiori interventi riusciti dell'anno, e che aveva un certo ascendente nei confronti del personale femminile dell'ospedale, entrò assieme ad un infermiera dai capelli rossi. I due erano, evidentemente, in atteggiamenti intimi.
Avevo sentito dire dalle varie infermiere dell'oritorio, che il dottore era anche un giovanotto assai attivo in campo seduttivo, ma che, si diceva in giro, avesse preso un impegno fisso con la caporeparto di rianimazione.
Alla faccia dell'impegno fisso.
Sicuramente i due pensavano che non ci fosse nessuno e, pensandoci bene, avevano ragione. Non c'era anima viva.
Non ero una tipa cui piacevano i pettegolezzi. Anzi, preferivo stare alla larga da tutto quel mare di informazioni che erano le chiacchiere da corridoio, ma se fossi stata viva, avrei sicuramente spifferato qualche piccolo particolare compromettente nei confronti del dottore il giorno dopo, quando le infermiere ciarlone sarebbero arrivate per il loro turno di lavoro.
Per il resto del fine settimana, purtroppo, non accadde niente degno di nota. Non venne più nessuno a far visita al mio corpo finché, la mattina del Lunedì, da quella porta a doppio battente, entrarono due signori vestiti di scuro, assieme a due infermiere e ad un dottore.
Aprirono la cella frigorifera dove era conservato il mio corpo e lo estrassero.
Sapevo benissimo chi erano. Becchini, venuti a prepararmi per la cerimonia.
Il mio funerale.
Uno di loro aveva in mano un paio di sandali bianchi con il tacco basso e il vestito, lo stesso con cui ero morta; il mio preferito.
Mia madre aveva seriamente deciso di seppellirmi con quello addosso? Era forse un brutto scherzo di addio, o cosa? E, sopratutto, mio padre l'aveva lasciata fare?
Mentre lavavano e asciugavano il mio corpo per un ultima volta, distolsi lo sguardo. Solo alla fine, quando il becchino più basso disse che ero pronta, mi avvicinai.
I capelli biondi erano stati spazzolati, e ora erano adagiati sul cuscinetto bianco della bara, a formare un'aureola celestiale che mi dava un'aspetto quasi sovrannaturale.
Beh, in effetti ero un fantasma. Più sovrannaturale di così...
Sembravo... diversa. Non più magra, né più bella. Solo diversa.
Non riuscivo a riconoscere i lineamenti del mio viso; non riuscivo a trovare qualcosa di famigliare né nella curva leggermente sporgente della scapole né nelle labbra piene. Non riconoscevo più il mio corpo.
Non ricordo nulla del tragitto verso il cimitero. Non so come, ma ad un certo punto mi ritrovai lì accanto alla bara aperta.
Davanti a tutta quella gente.
Davvero, nell'unica volta in cui mi ero ritrovata a pensare alla morte, avevo creduto che, ormai vecchia, quasi nessuno sarebbe venuto al mio funerale. Giusto i due o tre amici del bingo e gli eventuali figli che avessi avuto. Mio marito, magari Luke, sarebbe morto già da tempo (come era accaduto a mio nonno), e nelle sedie verdi avrebbero assistito solo qualche nipote e la mia prole.
Ancora una volta, non avevo previsto di morire così presto.
Erano venuti tutti anche chi non conoscevo. Il che mi lasciò sorpresa per un bel po'.
Ero lì in piedi accanto al prete, sopra la piattaforma rialzata del piccolo balconcino addebito alle cerimonie dei funerali. Il prete teneva in mano un piccolo libricino nero, la bibbia, e ne leggeva alcuni passi che, personalmente, trovai poco consoni alla situazione.
Chi diavolo aveva scelto quelle citazioni?
Se avessi avuto il tempo di scegliere, o almeno di lasciarne parola, avrei voluto sentire brano tratto dalla Divina Commedia, precisamente quando Dante arriva alle porte dell'Inferno. Ho sempre amato quel passo. E poi, al banchetto post cerimonia, tipico in America, avrei dato ordine di far ascoltare i Queen e i Beatles agli invitati, finché non se ne sarebbero andati.
Se ne avessi avuto il tempo.
Ma, purtroppo, non era stato così e della parte organizzativa se ne erano occupati i miei genitori.
Per tutta la durata della funzione mi guardai attorno, e vidi alcune persone che non avrei mai pensato potessero venire.
Proprio in mezzo al gruppo di persone c'era Stacy Jones, la “figa” della scuola. In verità, nei bagni, girava voce che avesse scritto il suo numero sulla porta dei gabinetti dei maschi e che avesse già ricevuto molte richieste di, ehm, intrattenimento. Il che la classificava direttamente come la puttana della scuola. Quel giorno indossava una minigonna nera di pelle e un top, che più corto di così non poteva essere. A malapena le copriva l'ombelico.
Dalla parte opposta c'era David Turner, il campione di nuoto della scuola. Per cinque anni avevo avuto una cotta stratosferica per lui, ma poi si era fidanzato e i miei sogni idilliaci erano andati tutti in fumo. Con un braccio, cingeva le spalle di Amanda Poilis, la fidanzata sopracitata. Tutto sommato, quando la mia invidia era sfumata e anche io avevo trovato un ragazzo, mi ero accorta che erano una coppia fantastica e che si amavano veramente. Lei si stava tamponando gli occhi con un fazzoletto succinto.
E poi, davanti, nella fila di destra, erano schierate tutte le mie migliori amiche, come se dovessero andare in guerra. Thalia, Piper e Rachel si sostenevano a vicenda. Delle tre solo Piper piangeva a dirotto, mentre Rachel doveva aver smesso da poco perché, in quel momento, i suoi occhi erano rossi.
Thalia, invece, era una roccia. La mia roccia.
Con i suoi abituali vestiti neri, sembrava la solita di sempre. Ma io la conoscevo troppo bene per crederci. C'era qualcosa che la consumava dentro, lo si vedeva dalla postura delle spalle e dalle occhiaie sotto gli occhi.
Stetti ad osservarle per un po', mentre la luce del sole, nascosto dietro i nuvoloni grigi, calava lentamente all'orizzonte, e le prime gocce cominciavano a cadere.
Grazie al cielo, qualcuno aveva dovuto prevedere quella opzione, perché gli invitati erano tutti sotto un grande gazebo bianco.
In prima fila, ma dalla parte opposta, come se fossero gli ospiti d'onore, c'erano loro. La mia famiglia. Papà, mamma e Malcolm, il mio fratellino di dieci anni.
I miei genitori erano abbracciati, con la testa di mia madre appoggiata alla spalla di mio padre. Nessuno di loro piangeva, ma si poteva scorgere quel dolore profondo, quello di chi ha perso un caro, semplicemente guardandoli in faccia. Sembravano entrambi invecchiati di dieci anni.
Mi intenerii nel guardare Malcolm indossare la giacca e cravatta, quel completo che aveva comprato in occasione della prima comunione e che odiava tanto. Un paio di anni fa, aveva pure cercato di farlo mangiare al cane, ma senza risultati concreti. La signora O'Leary aveva guardato la stoffa con il muso piegato, poi si era girata ed era corsa via, verso i suoi amati croccantini, una spuntino assai più invitante ai suoi occhi di cane. Mio fratello si era rassegnato e lo aveva riposto nelle profondità dell'armadio. Sembrava un piccolo ometto.
Il mio piccolo ometto.
Poi vidi la sua espressione, così decisi di avvicinarmi. Piangeva in silenzio. Le lacrime solcavano il suo volto, dagli occhi giù fino alla mascella dai lineamenti infantili. I suoi occhi grigi, così simili ai miei, erano colmi di lacrime non piante. Ma qualcosa lo tratteneva e io non sapevo cosa.
Avrei voluto così tanto aiutarlo che non poterlo fare mi fece male dove, una volta, il mio cuore batteva.
Un movimento scuro catturò la mia attenzione. Thalia stava salendo sul piccolo basamento rialzato, dritta e con il mento alto.
Prese posto davanti al leggio che aveva usato il prete, lanciò una strana un'occhiata alla mia bara, dove il mio corpo gelido posava immobile, e poi prese a parlare.
-Credo che Annabeth sia stata la migliore amica che potessi incontrare nell'arco della mia vita, tanto breve tanto quanto lo è stata la sua. Avevamo molti progetti per il nostro futuro, uno dei quali era tatuarci a vicenda il nome dell'altra, non appena avessimo avuto l'età legale, come segno della nostra eterna amicizia. Ma non ho bisogno di compiere 18 anni per sapere che non troverò mai una ragazza come lei.- catturata dal suono melodioso della sua voce, mi avvicinai.
-Annabeth era una ragazza solare, gentile, altruista, intelligente... ci sono così tanti aggettivi per descriverla che ci terrei ore ad elencarli tutti. Certo, era senza dubbio la persona più disordinata che conoscevo, e non potevi assaggiare la sua frittata alle verdure senza incombere in un'intossicazione alimentare.- qualcuno, tra la folla, sorrise. -Ma i pregi erano maggiore dei difetti. Questo perché era umana, come tutti noi. Così umana e testarda da rimanere sotto la pioggia per ben due ore quando trovò un gattino abbandonato sulla statale, di ritorno da un pomeriggio in spiaggia. Mi ricordo che rimase sotto la pioggia, con il gattino in mano e il rischio di ammalarsi, finché non acconsentii a portare l'animaletto da un veterinario. E io sono allergica ai gatti.- una lacrima solitaria scese lentamente lungo la sua guancia.
-Se ci fossero più Annabeth su questa terra il mondo sarebbe, di certo, migliore. Mi ha insegnato cos'è la vera amicizia. Mi ha insegnato a non mollare, a cogliere il lato positivo delle cose, a voler bene.-
Io non ero affatto così e avrei tanto voluto ribattere, ma un nodo mi bloccava la gola, così rimasi ad ascoltare.
-Non ho molto altro da dire... solo, grazie Annabeth. Grazie di avermi trovato e di aver creduto in me. Ti voglio bene.- Thalia... la mia amica, la mia migliore amica. Il suo discorso mi aveva lasciato completamente senza parole. Non che ne esistessero per poter anche solo ringraziarla.
Ero io a dover ringraziare lei, non lei me. Lo dimostravano tutte le volte in cui mi aveva sostenuto, aiutandomi.
Mentre Thalia tornava al suo posto, accolta con un sorriso appena accennato da Piper e Rachel, spostai lo sguardo verso quell'orizzonte grigio come i miei occhi.
Fu allora che lo vidi.
Luke. Da solo.
Era in fondo, quasi fuori dal gazebo, coperto da un ombrello nero come la pece.
Nello stesso momento il prete aveva ripreso la parola, per celebrale gli ultimi atti.
Luke guardava la mia tomba.
-Polvere alla polvere...-
Luke piangeva.
-Cenere alla cenere...-
Tutto sparì.









Annabeth's Corner:
Holele(?)! Come state bella gente? Visto che alla fine ho aggiornato? Non ho idea di dove sia uscito questo capitolo ma spero vi piaccia e che comincia a chiarire alcuni punti...
Non ho molto da dire, tranne che ringraziare le 11 persone (RIPETO: 11!!!) che hanno recensito il primo capitolo (o.o). Siete la mia linfa vitale.
Okay, basta, ora vado per cercare di concludere una giornata schifosa almeno con una nota positiva... 
Un bacione, come sempre
Annie





EDIT:
Sotto suggerimento di qualcuno, ho creato una pagina Facebook per chi mi volesse conoscermi meglio, dove pubblicherò spoiler, curiosità e qualche momento della mia vita dietro allo schermo <3 Basta cliccare sul seguente link: La vita di AnnabethJackson-sconsigliato ai deboli di cuore














 
  
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