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Autore: Letterenascoste    19/04/2014    2 recensioni
«Dove andiamo?» chiese Faith, seduta sul sedile centrale posteriore, avvicinandosi ai posti anteriori.
«A casa mia» le rispose Hannibal, guardandola dallo specchietto retrovisore.
Faith deglutì e un piccolo brivido di orrore la percosse, mentre le mani cominciarono a sudarle.
Non ci pensare, andrà tutto bene.
La casa era imponente, proprio come il dottore.
Per lo meno non è isolata, pensò lei varcandone la soglia.
«Va tutto bene?» le chiese Hannibal chiedendole, con un gesto della mano destra, il giubbotto.
Faith, lentamente e scrutando le intenzioni dell'uomo, si tolse il giubbotto «Tutto bene» rispose lei.
«Mi sembrava un po'... terrorizzata, a dire il vero» asserì lui sorridendole.
Lo sono.
Attenzione: riprende esplicitamente alcune scene degli episodi.
Genere: Commedia, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hannibal Lecter, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Will Graham
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Faith.

Capitolo primo.

 

Quella mattina Faith si era dovuta svegliare terribilmente presto. Will l’aveva avvertita che, durante la notte, era stato ritrovato un corpo  in un campo sperduto del Minnesota. Per questo si trovava, alle dieci del mattino, in quel grande campo dorato in compagnia di diversi agenti dell’FBI.
Via via che si avvicinavano al campo, una sagoma cominciava a delinearsi: uomo e animale, uniti in connubio fatale.
Faith restava dietro Will, come se potesse farle da scudo contro quell’orrore che le si presentava davanti. Inconsciamente gli strinse un lembo del giubbino, mentre con l’altra mano aveva strappato mezza pagina del suo taccuino. La penna le era caduta tra le sterpaglie ingiallite dall’autunno.
Dovette deglutire più volte per evitare di vomitare, cosa che non sarebbe stata sicuramente gradita a Jack.
I corvi volarono via veloci, lontani da quel corpo ormai esanime, quando Brian Zeller li cacciò via scuotendo animatamente le braccia.
La testa le girava e sembrava che il sole diventasse prima più caldo e poi repentinamente più freddo.
Forse è troppo per me, pensò.
Forse è meglio tornare a noiose autobiografie.
Si risvegliò dai suoi pensieri solo quando sentì Jack Crawford annunciare che il killer era stato denominato come ‘Averla del Minnesota’.
«L’averla è un passeriforme» disse Price «Impala le sue prede,  topi e lucertole, sulle spine dei rami. Strappa gli organi dai cadaveri, li mette in una specie di dispensa e… li mangia dopo»
«Voleva che la trovassimo così» commentò Will avvicinandosi al corpo.
Faith lo seguì, ancora stringendogli il lembo del giubbino, come una bambina che segue il padre a malincuore, consapevole di star andando incontro al dentista.
«Questa ragazza» disse Faith con un tono disgustato «Sembra che sia stata trasformata in un trofeo. C’è dell’arte, della raffinatezza, del sarcasmo in tutto ciò»
«Sento quasi che la prende in giro» confermò Will «O prende in giro noi»
«Dov’è finito tutto il suo amore?» chiese pensieroso Jack.
«Chi ha messo Elise Nichols a letto, non è l’autore di questo tabù» rispose Will scrutando il corpo della vittima e guardando i punti esatti in cui le corna si insinuavano prepotentemente e violentemente nel corpo della giovane donna «Le ha estratto i polmoni: quando l’ha uccisa credeva che fosse un maiale»
«Pensi che sia un emulatore?» chiese di rimando Jack.
«Un altro cannibale, forse?» propose Faith.
Raccolse la penna e cominciò a scrivere. Cominciò appena in tempo, perché da lì a pochi secondi Will espose un profilo dettagliato sull’Averla: aveva una figlia, un amore troppo sviscerato nei suoi confronti e uno strano modo di accettare la sua imminente lontananza.
«Credi che ucciderà la figlia, così come ha ucciso le altre?» chiese Faith mentre continuava a scrivere.
Jack le si avvicinò annuendo «Me lo stavo chiedendo anch’io»
«Lei è il suo biglietto d’oro» rispose Will.
Faith annuì e annotò.
I suoi occhi erano vispi ma spenti: si sposavano veloci dal corpo, al cervo, a Will, a Jack, alla terra sotto di lei che cominciò a sembrarle instabile. Dondolò leggermente e si dovette aggrappare a Jack per evitare di cadere.
L’agente Crawford la sorresse.
«Se la scena del crimine la disturba tanto» le disse «Dovrebbe evitarci la sua presenza. Non abbiamo tempo o voglia di badare anche a lei»
Faith dovette sbattere le palpebre diverse volte per riacquistare una vista limpida.
«E’ colpa mia. Non ho fatto colazione» mentì sorridendo «Non si libererà di me tanto facilmente» aggiunse poi facendogli un occhiolino ed estraendo la macchina fotografica così da immortalare quella scena dell’orrore.
Will le andò vicino, cingendola e sorreggendola.
«Ci penso io» disse allontanandola da Jack.
«No, Will» protestò lei allontanandosi «Sono io che devo occuparmi di te… E poi sto già meglio, molto meglio»
Jack le si avvicinò di un passo.
«Non mi contamini la scena del crimine» le intimò prima di allontanarsi.

Faith per un attimo ancora riguardò il corpo della vittima: piccoli pezzetti di carne erano stati portati via dal beccare dei corvi, la pelle era bianca come la carta sulla quale scriveva e i rivoli di sangue, ormai asciutto, marcavano la sua pelle come se fosse inchiostro. Per un attimo le venne l’impulso di accarezzarla, consolarla, dirle che d’ora in poi non avrebbe più dovuto soffrire… ormai aveva lasciato l’inferno alle spalle.
D’un tratto una leggera brezza accarezzò la sua pelle, portando con sé l’odore mortifero di quel corpo che sentiva tanto vicino.
D’un tratto si risentì a casa.
D’un tratto la terra sotto di lei ricominciò a girare vorticosamente.

Quella notte si fermarono a Duluth, in un piccolo e squallido motel.
Faith non riuscì a dormire: lì, da sola, nel buio, con quell’odore che ancora sentiva nell’aria, che ancora si sentiva addosso.
Faceva piccoli sonnellini che si concludevano in incubi di corna e sangue.
Si rigirava nel letto nervosa.
Accendeva e spegneva nevroticamente la televisione.
Si infilò in doccia diverse volte per togliersi quell’odore, inesistente, di dosso, strofinando con forza la sua pelle che man mano si arrossava sempre più.
Quando chiuse il getto d’acqua della sua terza doccia, continuò a sentire lo scrosciare dell’acqua della stanza affianco. Si avvicinò alle piastrelle verdi fino ad aderirvi completamente. Pose il suo orecchio in ascolto: anche Will, come lei, non riusciva a dormire.

La mattina seguente si vestì lentamente, assonnata e stanca.
Raccolse i capelli in una lunga coda, indossò dei comodi leggins e una strana maglia da cinque dollari comprata il giorno prima, degli anfibi neri, bassi e comodi.
Prese i vestiti indossati il giorno prima, li chiuse in un sacchetto e li gettò nella pattumiera che sostava fuori,  vicino la porta della sua camera.
Inspirò profondamente quell’aria fresca che sapeva di umidità.
Indossò degli occhiali da sole per nascondere le occhiaie livide.
Si accese una sigaretta, che l’accompagnò nel tragitto che la separava dalla caffetteria.

Bussò alla porta di Will con in mano due caffè da portar via e qualche ciambella.
Si trovò sorpresa nel vedersi di fronte il dottor Lecter.
«Buongiorno» la salutò lui, invitandola a entrare.
Lei lo guardò da dietro i grandi occhiali scuri e dovette alzare il volto per incrociare lo sguardo dell’uomo.
«Buongiorno» gli rispose poi di rimando.
La stanza era in penombra e disordinata.
Un tavolino, proprio sotto la finestra, riportava due piatti e dei contenitori, qualche avanzo.
«Questa» disse sollevando la busta con la colazione a portar via «Suppongo che non serva più» aggiunse poi gettando, offesa, la colazione nel secchio dell’immondizia.
Hannibal la guardò nel suo fare nevrotico.
«Mi dispiace, non avevo pensato a una sua eventuale presenza, altrimenti avrei…» le disse composto, ritornando a sedersi.
«Will?» chiese lei interrompendolo bruscamente.
Hannibal Lecter si irrigidì.
«Si sta preparando» disse con un filo di voce che nascondeva irritazione.
Faith si avvicinò alla finestra, scostò la tendina impolverata e guardò fuori.
Fissò l’uomo che ora le dava le spalle.
Era infastidita da lui, si sentiva messa da parte, abbandonata
Inspirò profondamente quell’aria stantia e capì di stare esagerando.
«Mi scusi se l’ho interrotta» disse Faith rompendo quel silenzio pregno di irritazione reciproca che si era creato «Ho avuto una brutta nottata e mi sento solo un po’… frustrata. Ma non è giusto prendersela con lei, penso»
Lo psichiatra si alzò, si sistemò i pantaloni e con calma si rivolse di nuovo alla donna che lo fissava.
«Riconosce i proprio peccati, è una dote che pochi possiedono»
«Le capita spesso di essere frustrata?» le chiese dopo un attimo di silenzio.
Faith si strinse il petto tra le braccia, in segno di chiusura.
«Non ha bisogno di essere psicanalizzata» si intromise Will, uscendo dal bagno e afferrando il giubbotto.
«Possiamo andare»

Più tardi, quella stessa mattina, si recarono in un cantiere edile. Una scheggia di metallo li aveva condotti lì.
La terra era umida e fangosa, il cielo plumbeo in contrasto con gli occhiali scuri e pesanti di Faith.
Entrarono nell’ufficio rialzato del cantiere.
Bastò dire che erano dell’FBI e la segretaria li fece rovistare tra le varie schede dei dipendenti.
«Hai detto che dobbiamo cercare dei particolari, giusto?» chiese Faith sfogliando annoiata dei fogli, ma non ricevette risposta da Will.
«Oh guarda» disse sorridente sventolando il primo foglio che le capitò «Questo tizio ha allegato una sua foto… Strano, sembra che stia addentando un pezzo di braccio»
«Ti prego di evitare certe battute» l’ammonì Will.
«Probabilmente è solo una bistecca» aggiunse poi mentre il suo sorriso si spegneva.
«Magari è entrambe le cose» commentò, con un mezzo sorriso, lo psichiatra mentre continuava a rovistare tra le numero identità.
Faith sorrise, facendo cadere quel muro d’irritazione che si era creato.

Pochi minuti dopo, Will si ridestò analizzando la scheda di un dipendete: Garret Jacob Hobbs.
«Ha lasciato il numero di telefono ma nessun indirizzo» dichiarò Will, indicando l’uomo come probabile indiziato.
Presero degli scatoloni ricolmi di schede sui dipendenti e li trasportarono in macchina.
Vi fu un momento, poi, in cui il dottor Lecter, che porgeva gli scatoli dalla cime delle scale, fece sbadatamente scivolare dei fogli per terra.
Will e la segretaria si chinarono per raccogliere le numerose schede cadute ed evitare che venissero sporcate dal fango; Faith preferì portare lo scatolone in macchina.
Quando si voltò vide, dallo scorcio lasciato dalla porta semi chiusa, lo psichiatra digitare un numero dal telefono del cantiere. Dovette stringere gli occhi per vedere meglio il fazzoletto di carta tra la mano dell’uomo e la cornetta.
Rimase pensierosa e dubbiosa vicino alla macchina.
«Non ci resta che andare da Hobbs» disse Will, avvicinandosi e distogliendole l’attenzione.

Dopo una mezz’ora di viaggio in macchina, si ritrovarono nei pressi di una villetta immersa nel bosco rado del luogo.
Will scese per primo, seguito a ruota da Hannibal.
Faith rimase ancora qualche secondo sulla vettura, sfortunatamente  fu qualche secondo di troppo: un attimo dopo i suoi occhi registrarono la presenza di un uomo, il suo gettare una donna sgozzata sul portico, Will prendere la pistola per poi, veloce, scomparire dentro quella casa.
Faith sentì un pugno allo stomaco che la paralizzò.
Voleva correre dietro Will, ma era immobile.
Voleva in qualche modo proteggerlo, ma non ne era capace.
Voleva gridargli di non andare, ma dalla sua gola asciutta non uscì una sillaba.
Rimase in auto.
Fissava il sangue della donna che scivolava via troppo velocemente da quel corpo e impregnare la pietra sopra cui giaceva.
Sentì ancora quell’odore di morte ferrosa avvolgerla e soffocarla.
L’unica cosa che seppe fare fu spostare lo sguardo un po’ più a destra e notare l’attenta e precisa impassibilità con cui il dottor Lecter guardava quel corpo, sembrava quasi che stesse analizzando la scena con freddo raziocinio e vivida impazienza.
Poi il buio.
Immobile.
Piccola.
Con gli occhi pieni di lacrime che non scendevano.
Imprigionata da quell’odore di morte che solo lei percepiva.
Di nuovo la terra sotto di lei ricominciò a girare.
---

Passò qualche giorno da sola, chiusa in una sola camera della piccola casa di famiglia.
Sentiva freddo, dentro e fuori.
Sentiva male a ogni parte del corpo, muscoli e organi.
Quando fu riportata a casa da un agente, si fece una lunga doccia fredda.
Restò accovacciata per delle ore, sotto il getto d’acqua rumoroso e violento, su quel marmo ingiallito dal tempo.
Quando finalmente decise di uscire, si gettò a peso morto sul letto che, sotto il suo corpo bagnato, diventò prima zuppo, poi umido, poi asciutto.
L’unica cosa che fece fu telefonare a Will: sostava in ospedale per vegliare sulla salute di Abigail, la vittima del padre, il biglietto d’oro.
A distanza di diverse ore raccoglieva le forze e, ancora nuda e fredda, si gettava su un vecchio scatolone che teneva sotto il letto, in caso di ‘emergenza’: era ricolmo di ogni cosa le piacesse, piena di zuccheri, grassi, soffice o croccante non aveva importanza, doveva essere nocivo.
Mangiò quanto più riuscì a ingurgitare, senza gustarne un solo boccone.
Veloce e in silenzio, fissando il vuoto della sua mente e udendo il silenzioso urlo della sua anima.
Placando quella fame che si portava dietro, quella fame di affetto e di cibo, quella fame che la rendeva nervosa.
Non appena si sentì sufficientemente sazia e appagata ritornò in bagno, dove bevve l’acqua che fuoriusciva dal rubinetto e che sapeva di ferro e ruggine, a causa di vecchie e difettose condutture di cui nessuno si era mai interessato.
Bevve tanta acqua.
Poi, quasi con naturalezza, in un gesto che emanava sicurezza, liberazione, consuetudine e peccato, si infilò due dita in bocca, giù per la gola, ripetutamente, graffiandosi la pelle in un luogo in cui nessuno avrebbe potuto vedere le sue ferite e diagnosticare il suo disagio.
Lo fece quel giorno, quello dopo e il giorno dopo ancora. Fin quando non si sentì paga. Fin quando la frustrazione l’abbandonò, lasciando in lei solo un senso di vuoto, mentale e corporeo, e una testa che, stanca, le girava facendole vedere il mondo capovolto.
Si accasciò ancora sul letto, ancora nuda, ancora fredda.
Si accasciò appena in tempo.
Si accasciò per poi svenire e dimenticare ogni cosa.

Si ridestò solo il giorno seguente, per colpa del trillo del cellulare che, da lei, era stato gettato per terra in un gesto di rabbiosa violenza e inquietudine.
La testa le girava ancora e un senso di nausea la percorreva, facendola sentire a casa.
«Will» rispose lei, camuffando la voce.
«Ti ho svegliata?»
«Si, ma non ti preoccupare»
«Ti disturbo?»
«No»
«Jack vuole che il dottor Lecter rediga un profilo psicologico su di me. Devono accertare che io sia sano… psicologicamente»
Faith sembrò rispondere a quelle affermazioni con un mugugno.
«Il dottor Lecter, però, mi ha chiesto di portare anche te. Dice che ne avevate già parlato»
«Si, è vero»
«Allora più tardi ti passo a prendere»
Faith notò che Will non le riferì l’ora in cui sarebbe passato, ma non disse nulla e chiuse lì la conversazione.
Entrò di nuovo in doccia, questa volta sotto un getto d’acqua calda.
Si preparò, come se nulla fosse mai accaduto, come era accaduto tante volte.
Ogni tanto mandava giù grandi sorsi di caffè dolcissimo, per tenersi in piedi.

Non appena fu pronta, uscì di casa e si sedette sul marciapiede ad aspettare Will… proprio come quando lo aspettava per andare al cinema, il venerdì pomeriggio, quando la paghetta mensile glielo permetteva.

 

   
 
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