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Autore: Jay_Bismen    20/04/2014    0 recensioni
La storia di una bambina, che già da piccola è costretta a convivere con una realtà troppo più grande di lei, ma che crescendo e incontrando nuove persone potrebbe iniziare a sentirsi meglio... O peggio.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SEI ANNI DOPO

Avevo sempre pensato che trasferirmi in una città lontana e diversa da quella in cui ero nata sarebbe stato il regalo più brutto che qualunque entità divina avrebbe potuto farmi, ma non avrei mai creduto che i miei incubi sarebbero potuti diventare realtà fin quando mio padre, Andrea Sarci, medico, non era stato chiamato  a trasferirsi per lavorare in un nuovo ospedale con un ingente aumento. Ovviamente non aveva rifiutato, e mia madre Emma non si era nemmeno lamentata di doversi separare dal suo amato giardino e dalla casa che era appartenuta alla sua famiglia per secoli. E la “riunione di famiglia” – come la chiamavano loro – non era servita per decidere, perché loro avevano già fatto i bagagli. No, la riunione era stata una specie di tortura cinese per convincermi a non lamentarmi, sbattere i piedi, incatenarmi al letto o che so io per evitargli di “rendere la nostra vita migliore”. Come se non avessimo già tutto quello che sarebbe potuto servire a tre famiglie messe insieme. 
Loro dicevano di farlo soprattutto per me, per il mio bene. La mia risposta?
Mi sono incatenata al letto.

Non avevo cercato di evitare la nostra partenza a tutti i costi, avevo solo messo fuori uso l’auto e inviato una falsa lettera ai miei genitori dicendogli che la casa che avremmo dovuto abitare era –purtroppo – già stata acquistata, e che ci sarebbe stato presto un provvedimento, ma non ero riuscita a fare granché, forse perché in fondo già sapevo che non avrei risolto proprio un bel niente, ma ancora non mi capacitavo del fatto di essere davanti ad un gran cartello verde che recitava “SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO GIOVANNI PASCOLI” scritto in giallo, ed aveva tutto l’aspetto di essere lì da secoli, quando gli uomini ancora scolpivano la pietra.
- Cosa? – mi voltai verso l’auto di mio padre, dalla quale ero appena scesa – Mi prendi in giro?
- Cos’ha che non va? – rispose sporgendosi un po’ fuori dal finestrino. Io indicai il cartello e alzai tutte e due le sopracciglia – Il cartello la dice lunga. Sai, potresti anche non farmi andare a scuola visto che sono depressa perché non posso stare con i miei cari compagni di infanzia… La vecchia scuola mi manca già… Tutti quei professori così comprensivi non si trovano dappertutto e io oggi vorrei davvero restare a casa….
- Samantha.
- Eh?
- Ti sei sempre lamentata della vecchia scuola – sorrise – Ascolta, lo so che è difficile, okay? Cerca solo di essere te stessa e vedrai che tutto andrà per il meglio.
Fissai il suo viso. Quel sorriso gli dava l’aria di un bambino, che si nascondeva dietro qualche capello bianco tra quelli neri, e la pelle con qualche ruga vicino agli occhi scuri e la bocca sottile.
Il cercapersone squillò e smisi di fissarlo, mentre lui armeggiava nell’auto – Ci vediamo dopo, va bene? Ora dovrei proprio correre… - disse con l’aria di una papera che lottava per non essere strozzata. Alzò il finestrino e ripartì mentre prendeva il cellulare.
- Certo, vai – risposi al vuoto. Alzai gli occhi al cielo cercando di raccogliere la forza per non darmela a gambe levate. Non che avessi paura, non era da me. Era più il fatto di dover ricominciare da capo a darmi fastidio. Nella vecchia città avevo degli amici, o come vogliamo chiamarli. Insomma, gente con cui uscivo qualche volta, ma almeno sapevano già il mio nome. Là avrei dovuto ripeterlo almeno per un mese affinché almeno la mia classe se lo fosse ricordato. Prospettiva interessante. Forse il mio problema era la pigrizia. O l’assoluta assenza di voglia di farmi una vita sociale. Non so. Rivolsi lo sguardo al di là del cartello, all’edificio arancione acceso, con le finestre gialle e le porte rosse, e pensai che una qualche specie di disagiato aveva dovuto scegliere i colori per quella scuola, o che i miei avevano deciso di rinchiudermi in un manicomio con l’inganno, e che da un momento all’altro sarebbe arrivata una psicologa dicendomi di apprezzare la vita e sorridere per sempre, anche se la suddetta psicologa probabilmente avrebbe già saputo che ovviamente non avevo alcuna voglia di sorridere e non l’avrei fatto solo perché me l’aveva detto lei. Quindi rimasi un po’ ferma lì, sul marciapiede, aspettando e dondolandomi su un piede, a riflettere sul da farsi quando suonò una specie di sirena. Credetti che fosse l’allarme antincendio, poi mi resi conto che in effetti era la campanella, e pensai che quel posto era davvero molto peggio di come me l’ero immaginato. Guardai la pila di fogli che mio padre mi aveva consegnato prima che scendessi dall’auto, cercando quale fosse la mia classe, e iniziai a camminare per i corridoi guardando sulle porte delle aule in cerca della 2A, e la trovai, dopo circa dieci minuti e un giro turistico completo della mia nuova scuola.
Controllai sul foglio che materia avessi, ed era matematica.
-Il buongiorno si vede dal mattino – mormorai, poi bussai alla porta, incurante del mio colossale ritardo, ed entrai. Era ottobre, ed un timido raggio di sole entrava dalla finestra, sbattendomi dritto in faccia. Dovetti spostarmi prima di poter parlare senza sembrare ridicola… Cioè, più ridicola di quanto non fossi già.
- Ehm… Salve… Sono Samantha Sarci…. – tutti mi fissavano e io fissavo l’uomo robusto e canuto che era seduto alla cattedra. Lui mi guardò strizzando i piccoli occhi, poi prese un paio di occhiali che erano poggiati sul suo registro e se li mise sul lungo naso. Mi fissò più ardentemente, si grattò la testa e poi annuì, come se finalmente tutto gli fosse chiaro – Ah, sì, quella nuova?
- Ehm sì… Quella nuova – dissi enfatizzando la parola “quella”. Sembrava che non stesse parlando con una persona, con quell’aria da superiore che aveva, ma di un oggetto della classe, come se gli avessi detto “Signore, mi scusi, è arrivata la lavagna” “Quale? Ah sì, quella nuova?”
Non aveva fatto niente di così terribile, ma la prima sensazione che ebbi di lui era come se il mio vecchio professore di matematica, il signor De Silvestri, fosse stato da sempre il mio migliore amico ed io non me ne fossi mai resa conto.
Qualcuno dai banchi rise: la mia faccia doveva avere un’espressione abbastanza divertente, anche se di divertente non c’era granché.
- Bene, signorina… - cercò il mio nome su un foglio – Sarci. Io sono il professore Mattei, insegno matematica. Spero che la sua permanenza qui le sia gradita,e sono certo che andremo molto d’accordo insieme – disse guardandomi da sotto gli occhiali. Quello che probabilmente in mente sua era un incoraggiamento, alle mie orecchie suonava più come una minaccia. O forse mi aveva minacciato di proposito – Vuole presentarsi alla classe, per favore? – continuò. Lo guardai come se mi avesse infilato l’asta degli occhiali in gola e da quel momento capii che lo avrei odiato per sempre. Quello fu il momento più disastroso della giornata. Dopo aver ripetuto il mio nome, detto di avere sedici anni, di essermi appena trasferita, che amavo leggere ed ascoltare musica, non seppi più di cosa parlare e rimasi zitta. Le presentazioni erano la cosa più odiosa al mondo, a mio parere. Stavo obbligando almeno la metà della classe a sentire due cretinate di me che probabilmente non gli importavano niente, e che avrebbero dimenticato entro due secondi. Era uno spreco di parole e nient’altro. No, anzi, era anche un modo perfetto per farmi sentire in imbarazzo, anche se fissavo le facce dei miei nuovi compagni cercando di mostrarmi spavalda e senza paura.
-Bene - disse il signor Mattei dopo avermi fissata per qualche secondo dopo la mia ultima parola, credendo che avrei aggiunto qualcos’altro – Può andare a sedersi.. Ci sono due banchi vuoti là davanti – disse indicando una coppia di banchi proprio di fronte alla cattedra – e uno lì dietro, di fianco alla signorina – cercò il cognome sul registro – Dias. Può scegliere. Nel frattempo io continuerò a spiegare, spero che riuscirà a rimettersi al passo presto.
Il professore cercò di richiamare l’attenzione della classe dicendo la pagina da prendere ed andando alla lavagna per spiegare. Il posto vicino alla “signorina Dias” era quello in fondo alla classe, vicino alla finestra. La ragazza mi guardò con uno sguardo tipo “Ti prego non venire qua” e poi abbassò lo sguardo. Io guardai prima i banchi davanti e poi di nuovo la ragazza e ricordai quello che mio padre mi aveva detto il giorno prima : “Cerca di fare bella figura da subito, okay? Siediti avanti e stai attenta e il gioco è fatto” , poi gli occhi azzurri della ragazza mi pregarono di nuovo di sedermi avanti.
Fu per la ragazza, e anche per mio padre, credo, o forse perché in fondo ero una grande stronza, che attraversai la classe e mi sedetti in fondo, vicino alla finestra, vicino alla signorina Dias.

  
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