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Autore: Jane Ale    20/04/2014    2 recensioni
[Prima storia della serie "Il ciclo di Caterina", ma può essere letta indipendentemente dalle altre storie.]
Caterina e Alessandro sono migliori amici, eppure non riescono ad andare d'accordo per più di qualche minuto. Ma poi Caterina capisce di essere innamorata di Alessandro e tutto si complica. Perché lui è stronzo, ma non ne è consapevole; lei, invece, è isterica, ma non sa come smettere.
Il solito vecchio cliché? Probabilmente (no).
Dalla storia:
-L'avevo capito. Di piacerti, intendo.-
Annuii. -Era piuttosto evidente.-
Si passò le mani sul viso, poi mi fissò di nuovo. -Cate, io mi sento molto attratto da te, non posso negarlo..-
A quelle parole avvampai, ma cercai di restare distaccata. -Ma?- gli chiesi.
-Ma al tempo stesso non riesco a provare quei sentimenti che vorrei. Ti voglio un mondo di bene, ma..-
Ma non sei innamorato di me, conlusi per lui nella mia mente.
Raccolsi tutto il coraggio che avevo e sorrisi. -Non preoccuparti, Ale, non importa. Non è successo niente.-
-Cate, ascoltami.-
-No, va bene così, nessuno si è fatto male.- Sorrisi ancora.
-Tu sì.- disse con semplicità. Ed era vero, io mi ero fatta molto male, più di quello che credevo.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il ciclo di Caterina'
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Capitolo 19
Verso la resa dei conti
 
 

 
 
 
 
 
 
 
Era il giorno del mio diciottesimo compleanno. Finalmente, dopo mesi, avevo raggiunto quel traguardo tanto agognato. Ero in ansia, preoccupata di come le cose sarebbero potute andare quella sera. “Hai affrontato di peggio!”, pensai per infondermi coraggio. Sì, avevo assolutamente affrontato di peggio, soprattutto nei mesi precedenti, ma la mia festa sarebbe stato il momento della resa dei conti. Il momento della verità.
 
Ero tornata due settimane prima da Bruxelles, luogo che avevo scelto per stare un po’ lontana da casa. Mia zia abitava lì, così avevo chiesto a mia madre di poter studiare in quella città per qualche mese; lei, pur di non vedere più la maschera di depressione che indossavo ogni giorno, aveva accettato la mia proposta. Ero partita all’alba di un fresco giovedì per cominciare una nuova avventura lontana da casa; avevo passato i mesi estivi ad aiutare mia zia in casa, a fare da babysitter ai vicini di casa e a visitare la città come una turista. Poi era arrivato settembre e, come promesso a mia madre, avevo cominciato il mio ultimo anno scolastico in un liceo di Bruxelles, dopo aver ricevuto il permesso dalla mia scuola italiana. Avrei dovuto sostenere i compiti in classe e le interrogazioni in inglese e in francese, poiché quei voti sarebbero stati importanti per la mia ammissione alla maturità in Italia, ma non avevo paura, studiare non sarebbe stato un problema. E, in effetti, non lo era stato: mi ero impegnata, avevo acquisito ottime conoscenze delle due lingue e avevo conseguito buone valutazioni. Le settimane erano volate e mi ero ritrovata a vivere una nuova realtà lontana da casa, ma circondata da persone nuove che mi avevano fatta sentire una di loro fin dall’inizio. Nonostante tutto dovetti ammettere a me stessa che tre mesi non sarebbero serviti a dimenticare, né a creare nuovi legami, ma a me andava bene così, non cercavo stabilità, bensì allegria e amicizia. Dunque avevo passato i sei mesi precedenti in Belgio, lontana da tutto e da tutti, ma soprattutto senza che nessuno sapesse niente: era stata una delle peggiori decisioni che avessi mai preso, la più sbagliata in tutti i sensi, ma non me ne ero mai pentita. Almeno fino a quando non avevo ricevuto il suo primo messaggio.
“Dimmi che non l’hai fatto veramente. È tutto uno scherzo, vero? Dimmelo, altrimenti farò di tutto per sapere dove sei e verrò a prenderti.”
A quello ne erano seguiti altri più arrabbiati, delusi, deliranti, affettuosi, ma io non avevo mai risposto. Fino a quando non ne avevo ricevuto uno da Roberta.
“Io ho sbagliato tutto, ma tu stai cercando di imitarmi. Almeno rispondi gli, è a pezzi. E Giovanni non fa altro che dargli contro. Ragiona, Cate.”
A quel punto avevo risposto a Roberta, le avevo detto che non dovevo giustificare le mie scelte e che ero felice così, che non si preoccupasse della mia vita e che ci saremmo riviste dopo qualche mese; poi avevo scritto a Giovanni, con il quale ero sempre in contatto, e gli avevo chiesto di non litigare con Alessandro per colpa mia. Infine, mettendo da parte il mio spirito da protagonista di fiction sui teenagers, avevo risposto anche a lui.
“Non ce la facevo a risponderti. Mi dispiace, tornerò presto. Smettila di comportarti da immaturo, lascia perdere dove mi trovo, non è importante. Usa questo tempo per pensare a te stesso e a quello che vuoi, Ale, non ha senso che continui a dannarti perché sono partita, non è dipeso da te. Lo sai che ho l’animo tragico. ;) Quindi vai avanti, in fin dei conti è come se fossi in vacanza. Ti voglio bene.”
Non l’avevo più sentito, se non di rado per scambiarci gentili convenevoli come due normali amici. Sì, anch’io mi sarei messa a ridere se avessi sentito qualcuno definirci così, ma, alla fine, era ciò che eravamo diventati.
 
Poi novembre era arrivato e con lui il mio compleanno. Così, quindici giorni prima dell’evento, avevo salutato i miei nuovi amici stranieri, avevo ringraziato mia zia per l’ospitalità e, silenziosa come sempre, avevo preso l’aereo che mi avrebbe riportata a casa. Mia madre era stata felicissima di riavermi a casa, non smetteva più di abbracciarmi e sorridere. Un po’ mi ero pentita di essere stata lontana per così tanto tempo, ma non importava, ero tornata. Nei giorni successivi avevo incontrato Giovanni, il quale mi aveva raccontato cosa fosse successo durante quei mesi e mi aveva assicurato che niente era cambiato. Ci eravamo abbracciati, coccolati, avevamo riso e io non avevo avuto più dubbi sul fatto che lui non mi vedesse solo come un’amica. Pensiero egocentrico, lo ammetto, ma chi meglio di me avrebbe potuto riconoscere i sintomi di quella malattia? Avevo rivisto la me stessa di qualche tempo prima nei suoi gesti, nelle sue parole, nei suoi sguardi. Avevo rivisto me stessa in lui, ma non avevo avuto il coraggio di dirgli niente: non volevo illuderlo, né ferirlo, ma non mi sarei mai permessa di perderlo. In fin dei conti era tutto ciò che avevo, il mio unico amico, il mio unico confidente, la mia ancora. Ero sicura, però, che sarei riuscita a stabilire un limite se ce ne fosse stato bisogno, perché io non sarei mai stata “il suo Alessandro”, non lo avrei mai trascinato a fondo. Ma, forse, mi stavo facendo troppi film mentali.
 
Poi, un pomeriggio di qualche giorno prima, qualcuno aveva suonato il campanello e mi ero ritrovata davanti a quella che un tempo era stata la mia migliore amica.
-Ho incontrato tua mamma, mi ha detto del tuo ritorno.-
-Già.- avevo confermato. –Vuoi entrare?-
Per i dieci minuti successivi ci eravamo scambiate a stento cinque parole, poi Roberta aveva parlato.
-Non avrei mai voluto mentirti, non sapevo come gestire la situazione, era tutto nuovo per me: ero così presa da Emanuele, non volevo rovinare quello che avevamo cominciato insieme e, sinceramente, speravo che Ale te l’avrebbe detto prima di partire. Ma ho sbagliato, su questo non c’è dubbio. Ti chiedo solo di perdonarmi, mi manchi e ho bisogno di te.- mi aveva detto con gli occhi lucidi.
Io, ormai, mi ero arresa da tempo e avevo lasciato che le mie arrabbiature scivolassero via. –Non sono arrabbiata con te, Roby. Non lo sono da un pezzo, solo che non riesco più a fidarmi completamente.- avevo ammesso guardandola negli occhi. Lei aveva avuto un sussulto.
-Però potrei lavorarci.- le avevo detto prima di abbracciarla.
Mi ci era voluto un po’ di tempo per capire che le arrabbiature non portavano a niente e che solo perdonando si poteva sperare di cambiare qualcosa; certo, non ero Madre Teresa di Calcutta e non aspiravo ad esserlo, ma non volevo passare la vita tra stupidi teatrini tragici e litigi adolescenziali. Volevo di più, volevo essere di più.
-Cate, posso dirti una cosa?- mi aveva chiesto poco dopo.
-Dimmi.-
-Perché sei partita?-
Avevo sbuffato piano, ma poi avevo deciso che era giusto che sapesse la verità. –Perché non volevo stare qui, ero arrabbiata, delusa e non volevo vedere nessuno. Mia zia mi aveva già invita da lei per l’estate, ma poi mi è venuto in mente che in alcuni paesi è possibile frequentare l’ultimo anno a metà, insomma un po’ lì e un po’ a casa.-
-Non potevi salutarlo?- mi aveva chiesto senza bisogno di rendere esplicito il soggetto.
-No, l’ho fatto di proposito, non volevo essere qui al suo ritorno, anzi non volevo nemmeno sapere se sarebbe partito.- le avevo detto.
-Quando è tornato ha perso la testa. Un giorno mi ha persino urlato contro, pensava che fossimo in contatto e voleva che ti ricordassi della borsa di studio. Non ho capito cosa significasse, ma credo fosse solo sconvolto.-
No, non era solo sconvolto. Avevo capito subito a cosa si era riferito: era gennaio e la scuola aveva appena indetto un concorso per vincere una borsa di studio e frequentare l’ultimo anno a Boston. Sfortunatamente soltanto una persona per classe poteva fare domanda e lui era stato scelto tra i dieci che si erano proposti nella nostra classe. Alcuni si erano arrabbiati per la scelta fatta dai professori e ne era venuta fuori una forte discussione, soprattutto tra due ragazzi ed Alessandro. Alla fine lui, privo di un qualsiasi sostegno, era uscito dall’aula gridando che non c’era nessuno lì dentro a cui tenesse davvero e che potevamo andare tutti a quel paese. Io, però, l’avevo seguito urlandogli parole poco sensate.
-Cate, adesso smettila! Sei isterica!- mi aveva urlato poco gentilmente.
-Come faccio a non esserlo? Hai appena detto che non te ne frega niente, niente di niente. Cazzo, ma sei davvero così egoista?- Era delusa, ferita, stanca. Le lacrime erano vicine, ma cercai di ricacciarle indietro.
-Non ho detto questo, stupida!-
-Non darmi della stupida!-
Mi ero fatta forza e lo avevo guardato in faccia. Mi stava fissando, la fronte contratta e i pugni stretti lungo i fianchi.
Avevo respirato, cercando di chiamare a me un briciolo di razionalità.
-Va bene, ammettiamo che tu non intendessi dire ciò che hai detto..allora, cosa volevi dire?-
Mantenere la calma e la lucidità richiedeva uno sforzo enorme. Stavo perdendo anche la capacità linguistica.
-Dicevo che non importa quello che dicono, va bene? Se voglio comportarmi in un certo modo, nessuno può impedirmelo; se voglio dire qualcosa, nessuno mi fermerà, è chiaro?-
-Appunto. Anch'io penso quelle cose, quelle che ti hanno detto, e non riesco a cambiare idea. Mi dispiace, ma è così.- Avevo abbassato gli occhi, presa dai sensi di colpa.
-Vorresti dire che nemmeno tu vuoi che sia io a vincere quest'anno?- mi aveva chiesto con gli occhi spalancati dalla sorpresa.
-No, non credo sarebbe giusto...- Che stronza che ero!
-Va bene.- fu tutto ciò che disse.
-Cosa? Cosa va bene, Alessandro? Ti sembra che ci sia qualcosa che va bene?- avevo urlato.
-Sto dicendo che va bene, non ci proverò nemmeno. Se devi pensare che non mi importa della tua opinione, allora lascio perdere.-
Lo avevo fissato incredula. Aveva davvero detto che sceglieva me alla competizione. Avrei voluto sorridere, ma non lo avevo fatto.
-Grazie.-
Lui si limitò a scuotere le spalle e sorridere debolmente.
C’erano stati tanti momenti in cui i sensi di colpa per come mi ero comportata quel giorno erano tornati a farsi sentire e, in tutti quei mesi, non mi ero mai perdonata il fatto di avergli detto quelle cose solo per non vederlo partire: sapevo che lui era l’unico a meritarsi di vincere quella borsa di studio e non pensavo che i miei compagni avessero ragione ad essere arrabbiati, ma avrei fatto di tutto per impedire che partisse. A mesi di distanza, però, la stronza che era partita ero stata io. E lui aveva avuto ragione ad arrabbiarsi, perché per me aveva deciso di restare.
 
Dopo quella piccola parentesi che avevo prontamente rinchiuso in uno dei tanti cassetti della mente, io e Roberta avevamo passato il pomeriggio a mangiare gelato ed aggiornarci sulle rispettive vite, poi lei era dovuta tornare a casa. Prima di andarsene, però, mi aveva detto quello che ancora non sapevo, quello che neppure Giovanni, con tutta la sua buona volontà, era riuscito a dirmi.
-Cate, non so se lo sai già e non voglio assolutamente crearti problemi, lo faccio solo a titolo informativo: Alessandro sta uscendo con una ragazza.-
Io avevo annuito, le avevo sorriso e l’avevo salutata come se la notizia non mi avesse toccata.
-Okay, grazie Roby. Allora ci vediamo venerdì al mio compleanno.-
Avevo chiuso la porta e, per la prima volta in sei mesi, avevo rimpianto la decisione di essere partita per Bruxelles.
Avevo passato tre giorni d’inferno, combattuta tra l’idea di cercarlo, ricordi vorticanti e sentimenti confusi, poi mi ero decisa a calmarmi. Non avevo alcun diritto nei suoi confronti, lo avevo lasciato andare e lui si era rifatto una vita, non c’era niente da dire. Era inutile che continuassi a far finta di essere intoccabile, ero gelosa perché ero ancora innamorata di lui, ma avevo capito da sola che quello era il prezzo da pagare per la decisione che avevo preso sei mesi prima.
Così avevo atteso il giorno del mio compleanno con la speranza che lui si presentasse alla mia festa da solo. O che non si presentasse per niente.
Tutto o niente, mi ero detta.
Quella sarebbe stata davvero la resa dei conti.
 
 
 







 
Note dell’autrice:
 
Salve!
 
Eccomi qui, stranamente, con poco ritardo. Avevo deciso di pubblicare un ultimo capitolo e l’epilogo, ma all’ultimo momento ho deciso di spezzare il capitolo e lasciare la festa di Caterina alla prossima volta.
Sono consapevole di aver scritto una lagna, ma era necessario che spiegassi, almeno brevemente, la decisione di Caterina e tutto ciò che ne è conseguito. Ci sono parecchi balzi temporali, forse troppi, ma era importante che capiste come si sono evolute le cose durante la sua assenza, nonostante non sia successo niente di particolare. Diciamo che Caterina si è divertita, è stata lontana da casa e dai problemi, ma, intanto, il mondo è andato avanti senza di lei.
 
Il flashback di Caterina, quello riferito alla borsa di studio, è lo stesso evento narrato nel secondo capitolo “Sensi di colpa”: all’epoca non era molto chiaro il perché quell’evento fosse importante, ma adesso il cerchio si sta chiudendo.
 
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito “Frammenti” tra le seguite, ricordate e preferite, coloro che hanno dedicato un minuto del loro tempo alla recensione di questa storia e coloro che si limitano a leggere in silenzio.
Grazie davvero.
 
A presto!
Baci,
Jane

 
  
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