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Autore: sleepingwithghosts    21/04/2014    1 recensioni
«Perché non ti svegli?», sussurrò dopo un po’, in preda all’ansia. Doveva rivedere quegli occhi, doveva porre loro delle domande, doveva capire. Le sfiorò le vene del braccio, di un colore scuro che bene conosceva, e sentì di nuovo quella morsa allo stomaco. Da quanto tempo si drogava? Avrebbe voluto saperlo. Perché lo faceva? Che cosa era successo nella sua vita di tanto tragico da farla rifugiare in quello schifo? Perché voleva uccidersi? Aveva bisogno di risposte. «Svegliati, ti prego», disse in un sospiro, il naso appoggiato sul suo polso. Aveva un buon profumo, pesca forse.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2008 (qualche mese dopo)

 

“Funny all the broken ones but I’m the only one who needed saving, ‘cause when you never see the lights it’s hard to know which one of us is caving.”

 

 

I capelli gli cadevano sugli occhi, oscurandogli la vista. Se li spostò di lato, e riprese a premere le dita sulle corde della chitarra, l’aria fresca proveniente da fuori che ogni tanto gli causava brividi alla base del collo, quella parte di pelle che il maglione rosso mattone non riusciva a coprire.

«One night of the hunter» respiro, «one day I will get revenge» chiuse gli occhi, «one night to remember» il cuore perse un battito, si fermò, come quando da piccolo soffriva d’asma, non riusciva più a respirare, come quando aveva paura che il cuore non sarebbe più ripartito. «One day it'll all just end», sputò in fine.
Uno.

Due.

Tre.

Cinque secondi. Strinse la mascella, facendo digrignare i denti fra loro. Il cuore non batteva ancora normalmente, lo sentiva arrabattarsi a rallentare la propria corsa, scacciare via l’adrenalina, la rabbia, l’astio da cui ero stato attaccato. Cercava di difendersi bene, ma quell’agglomerato di delusione aveva armi più efficaci.

«Blessed by a bitch from a bastard's seed, pleasure to meet you but prepare to bleed», la voce gli diventava sempre più graffiante, sempre più bassa, «rise, I'll rise, I'll rise», sempre più convinta. «Skinned her alive, ripped her apart, scattered her ashes, buried her heart», un sorriso amaro gli apparve sulle labbra. «rise up above it, high up above and see».

Deglutì. Appoggiò la chitarra a terra, si tolse i capelli dagli occhi con il solito gesto automatico, deglutì di nuovo, un blocco alla gola che non voleva andarsene. Si era svegliato qualche ora prima, un picchiettio alla tempia destra che lo tormentava. Si era alzato, lavato il viso con dell’acqua fredda, strofinando bene gli occhi che, a causa del scarso sonno, si erano arrossati, aveva indossato un paio di pantaloni della tuta e un vecchio maglione che aveva trovato abbandonato su una sedia, e poi era sceso in cucina. Appena aveva fiutato l’odore di cibo avanzato dalla sera prima, però, lo stomaco gli si era chiuso. A passi lenti, stanchi, strascicati, si era spostato in quella piccola sala di incisioni che lui e i ragazzi avevano fatto costruire pochi mesi prima, per incidere il nuovo album. Casa sua era diventata il quartier generale: ogni giorno decine di persone camminavano avanti indietro, utilizzavano il suo bagno degli ospiti, la sua cucina per cibarsi e il suo divano per riposarsi. Tomo e Shannon vivevano lì, praticamente. Ma quel giorno era sabato, e il sabato era il giorno libero, quello per riposarsi, stare con la famiglia, uscire con gli amici, dormire tutto il giorno. Se solo ci riuscissi, pensò amareggiato Jared prendendo in mano la chitarra e facendo quello che sapeva fare meglio: scaricare la frustrazione, l’ansia, la rabbia su delle sottili corde di metallo. Aveva interpretato quel picchiettare lento e continuo nella sua testa come l’ispirazione che in quei giorni sembrava essere generosa. Ad ogni ora del giorno e della notte si ritrovava con un nuovo verso, con una nuova nota, un nuovo accordo scolpito nella mente.
Era stato fermo nella stessa posizione per un tempo che non sapeva quantificare, dato che avevano deciso che non c’era bisogno di un orologio nella sala di registrazione e dato che il telefono lo aveva lasciato in camera, sopra il comodino. Si avvicinò alla parete con la sedia e vi appoggiò la testa, poi chiuse gli occhi. Aveva bisogno di riposare: le dita gli facevano male, a forza di impugnare il plettro, lo stomaco gli bruciava, e il respiro continuava a non dargli nessun tipo di sollievo. Si sentiva un peso sullo stomaco, ed era opprimente. Sapeva anche però che non avrebbe potuto fermarsi, non adesso che tutta la canzone gli si era delineata in testa. I denti sbatterono ferocemente fra di loro. «Night of the hunter», sibilò fra le labbra.

Era lui. Lui era il cacciatore. Vagò con il pensiero, tornando indietro nel tempo. Perché finiva sempre così: rimuginava su quello che era stato, su quello che avrebbe potuto essere, su quello che aveva amato, che aveva sbagliato, che avrebbe desiderato poter fare, su quello che lo aveva ferito, squarciato, devastato. Pensava sempre al passato, invece che guardare al presente, al futuro. Perché c’era una parte di lui che non aveva nessuna intenzione di andare avanti, che lo rendeva pesante, che lo faceva rimanere incollato, fermo, immobile. Che lo stava consumando.

 

«Jared, ti piacciono i mirtilli?»

«Mh-mh», disse lui, un plettro fra le labbra, le dita occupate a stringere la terza corda della chitarra.

Lei gli si avvicinò e gli cinse il busto con le braccia, appoggiando la testa alla sua spalla. Le loro guance si toccavano. «È molto bella».

«Che cosa?»

«La canzone che canticchi da questa mattina. Com’è che fa, aspetta… I will save you from yourself».

Lui sorrise e chiuse gli occhi. «Time will change everything about this hell. Are you… non trovo le parole per continuare», sospirò infine.

«Chiedimelo», sussurrò lei, premendo la guancia contro quella di lui per sentire la sua barba pungere.

Lui aprì gli occhi, che in quel momento le sembravano più azzurri che mai. «Che cosa devo chiederti, Mary?»

«Chiedimi come mi sentivo, prima di tutto questo».

«Tutto questo?»

«Prima dei muffin cucinati alla mattina per te, del tuo balsamo per i capelli, delle tue lenzuola bianche, delle torte fatte per tua mamma, dei girasoli che abbiamo piantato insieme in giardino… chiedimi com’era prima».

Jared esitò. «Dimmi come ti sentivi prima».

«Ero persa, non mi sentivo in nessun luogo». Lui appoggiò la chitarra a terra e la fece sedere sulle sue gambe. «Ero al centro esatto dell’inferno e intorno a me c’erano solo fiamme, solo fumo, i rimasugli di una vita che ormai non lo era nemmeno più. Ero al centro esatto dell’inferno e la cosa peggiore era che ci ero entrata di mia spontanea volontà con la convinzione che avrei potuto andarmene quando ne avrei avuto voglia».

Jared appoggiò la fronte contro quella di lei. «Are you lost, can’t find yourself?» lei tratteneva il respiro, mentre la voce di lui le arrivava sussurrata nell’orecchio «you’re north of heaven, maybe somewhere west of hell».

Rimasero in silenzio per alcuni minuti a guardarsi soltanto, a respirare l’uno l’aria dell’altro. Lei gli baciò un angolo delle labbra. «Hai ancora voglia di quei muffin ai mirtilli, giusto?»

Jared annuì piano. «Ho ancora voglia di quei muffin ai mirtilli».

 

 

Si posò una mano sugli occhi, il sorriso che gli moriva sulle labbra. Si ritrovava spesso a ricordare quei momenti in cui lei gli parlava della vita prima di lui, quella vita fra le fiamme dell’inferno che lui aveva spento, sedato, scacciato via. O almeno così pensava. Si ricordava di come lui avesse sempre pensato che sarebbe stato il balsamo che l’avrebbe guarita, la barzelletta che l’avrebbe fatta ridere fino a che la pancia non le avesse fatto male, la penna con cui avrebbe scritto le parole più belle. Si era illuso di esser diventato il suo sogno. Non il suo sogno infranto, quella era la sua vita prima di lui, era la droga (“mi sentivo in pace con me stessa perché non sentivo più niente”),

era i genitori che l’avevano abbandonata (“mi chiedo spesso com’era mia madre e secondo me era bellissima, non riesco proprio ad immaginarmela come una persona senza cuore; era certamente bellissima, lo so”),

erano i capelli lunghi fino alla base della schiena quando era piccola (“sai, pensavo di essere una principessa, perché tutte le principesse avevano i capelli lunghi come i miei”)

era i pavimenti freddi su cui aveva dormito (“a quindici anni la mia famiglia adottiva non aveva nemmeno un letto per me, me ne stavo con una coperta e un cuscino a terra, il gatto che mi camminava sulla faccia tutta la notte;  ricordo che ogni mattina mi svegliavo con il mal di schiena e di nascosto rubavo dal mobiletto del bagno degli antidolorifici per farlo passare”)

era gli amici che non aveva avuto (“si chiamava Aria, era bellissima, era la mia migliore amica; facevamo tutto insieme, ora sospetto di esserne stata innamorata” “che è successo?” “è successo che un giorno mi ha detto che se ne andava, che in quel buco di merda lei non ci restava” “e poi?” “e poi mi ha baciata sulle labbra, ha battuto le ciglia quattro volte e non l’ho più rivista”)

era l’amore che non aveva mai trovato (“gli volevo bene, lui mi voleva bene, mi voleva così bene che quella prima volta che mi feci me lo disse che sarebbe andata a finire male, mi tolse la siringa e me lo disse che non voleva che morissi anche io, a causa di quello schifo, perché lui se lo sentiva che stava morendo, ieri ho vomitato per ore, mi disse, non avevo una dose da due giorni e ho vomitato per ore, mi disse, mi sono sporcato tutto, mi facevo schifo da solo mi disse e io gli dissi che non faceva schifo, gli baciai le labbra e gli ripetei che non faceva schifo, che avrei solo provato perché lui era bellissimo, poi presi la siringa e me la impiantai nel braccio senza sapere bene cosa fare, ma ricordo che lui scuoteva la testa e mi diceva che faceva schifo, continuava a ripetere che faceva schifo”)

lui sarebbe stato il suo sogno bello, uno di quelli che ti fa svegliare la mattina con il sorriso sulle labbra.

Riprese la chitarra in mano. Si era scordata per la milionesima volta quella mattina. Mentre stringeva la seconda corda sentì freddo ai piedi nudi, quindi chiuse gli occhi.

«Ti piacciono ancora i mirtilli, Jared?», la sua voce era un sussurro roco, come se avesse pianto tutta la notte. Ha pianto tutta la notte, gli ricordò una vocina dentro la sua testa. La sentivi piangere al tuo fianco nel letto mentre, con le spalle rivolte al suo volto, facevi finta di dormire.

«Mi piacciono ancora i mirtilli», sospirò lui, senza girarsi a guardarla.

«Pensavo che potevo fare dei muffin, con quella farina che hai comprato ieri».

«Va bene».

«Hai fame?»

Jared sospirò. «Non molta, no».

«Oh», disse lei piano. «Allora non spreco la farina, li farò un altro giorno». Dentro la stanza calò il silenzio, l’unico rumore era quello delle note che Jared intonava piano, assicurandosi che le corde fosse strette al punto giusto. «Mi dispiace di averti interrotto, ti lascio lavorare». Lui sentì chiudersi la porta alle sue spalle. Buttò fuori l’aria che aveva trattenuto dentro di sé per tutto il tempo. Mostrare indifferenza era la cosa più difficile della giornata, e per quello le parlava poco, la guardava poco, le stava vicino poco, sperando che forse, un giorno, sarebbe riuscito ad amarla un po’ meno. Porto il pollice destro alle labbra e mangiucchiò l’unghia già corta. Lo rifece. Lo fece ancora. Quando abbassò gli occhi, dopo un tempo indefinito, vide che il dito gli sanguinava. Sospirò. «Cazzo».

Quando andò in cucina per sciacquarsi le mani la trovò lì, vicino al bancone, la farina anche sulla faccia. «Che cosa fai?», chiese lui, la curiosità che prese il sopravvento, il tono per nulla disinteressato.

Lei alzò la testa e sorrise timidamente. «Ho fame, spero non ti dispiaccia se faccio dei biscotti».

«No, figurati», rispose lui, cercando di ricomporsi. Si avvicinò al lavello, aprì l’acqua e se la fece scorrere sul dito, stringendo un po’ gli occhi quando esso cominciò a bruciare.

«Ti fa male? Lascia che ti aiuti». Jared non si era accorto che le si era accostata. La lasciò fare, lasciò che le sue mani scivolassero sulle sue, che le sue dita sottili e chiare e lunghe le asciugassero il taglio, lo disinfettassero con il liquido verde che non sapeva di avere in un mobile della cucina «l’avevo comprato io quando…», si fermò lasciando cadere la frase, quando vivevo qui con te ed eravamo felici, voleva dire, ma se ne stette zitta, curando quel dito che non gli faceva già più male.

«Grazie», disse lui quando lei ebbe finito.

Lei sorrise. «Prego». Lo guardò qualche secondo in volta, ma non vide più la dolcezza di una volta, non vide più la meraviglia nei suoi occhi, non vide più amore. Si voltò, prese i mirtilli che avevano già cominciato a macerare sul tavolo, e li unì alla pasta dei biscotti. Lentamente la stese e con il bicchiere cominciò a farne dei piccoli, grossi cerchietti. Chiuse gli occhi, sentendo ancora sotto le dita la pelle liscia delle mani di lui. Le era sempre piaciuta la sua pelle. Era un rifugio, era casa. Profumava di buono. Si immaginò di stringersi a lui come una volta, al suo torace nudo, appoggiare il naso al suo petto e sentire il suo odore: quello di Jared che aveva fatto l’amore con Mary. Quello di Jared che amava Mary per tanti motivi e non riusciva a staccarle le mani, gli occhi (e i pensieri) di dosso. Quel profumo di Jared che adorava Mary e era il suo balsamo, e era il suo sogno più bello, uno di quelli che ti fa svegliare la mattina con un sorriso sulle labbra. Riaprì gli occhi quando sentì che lui stava respirando vicino alla sua nuca, sui suoi capelli; dei respiri pesanti, profondi, stanchi.

«Mi piaceva tanto guardarti suonare la chitarra».

«Perché?»

«Sembravi il padrone del mondo».

«Quale mondo, Eveline?»

Lei rabbrividì sotto il tocco delle sue mani sulla sua schiena, che sentiva bene attraverso la maglia leggera. «Il mio mondo. Il mondo di Mary».

«Mary non esiste», disse lui, allontanandosi.

Eveline si voltò. «Mary sono io».

«Mary è morta».

«Sono qui davanti a te, non mi vedi?»

«Mary mi amava. Dalla prima volta che aveva incrociato i miei occhi, lei mi amava».

«Io ti amo».

«È per quello che piangi la notte, perché mi ami?»

«Piango per troppe cose, Jared».

«Dimmele».

Eveline scosse la testa. «Non cambierebbe niente, se le sapessi».

«Te lo sto chiedendo per favore, dimmi perché piangi».

Lei gli diede le spalle. «Piango per quelle volte che mi abbracciavi sotto le lenzuola e mi dicevi che non avevi mai visto una bocca così bella, per quelle volte mi addormentavo sul divano e tu mi coprivi con la coperta perché avevi paura che prendessi freddo, per quelle volte mi guardavi e sorridevi e non sapevi neppure tu perché. Piango perché mi manca il modo in cui mi amavi».

Jared sbatté un pugno sul tavolo. «Girati». Lei lo fece, lentamente, ma non riusciva a guardarlo negli occhi. «Guardami». Eveline alzò lo sguardo. Lui le si avvicinò, le posò una mano sulla guancia. «Ho solo voglia di parlare con Mary».

«Sono qui», disse lei, in un sussurro.

Jared si avvicinò al suo volto, le loro labbra quasi si sfioravano. «Non ho mai amato nessuno, come ho amato lei», le disse.

«Amami ancora».

«Mary non c’è più».

Eveline prese un respiro. «No», disse, «no», ripetè, «è Jared che non c’è più».

Lui rimase immobile, a guardarla negli occhi. Non sapeva chi aveva davanti, eppure colmò il piccolo spazio fra le loro bocche, posando le labbra su quelle della sconosciuta, saziandosi dei suoi respiri. «Non so se ce la faccio».

«A fare cosa, Jared?»

«Non so se ce la faccio», ripetè lui, alzando gli occhi, le mani ancora posate sulle guance di lei, «ad amare Eveline come ho amato Mary». Fece cadere le braccia lungo i fianchi e senza guardarla si voltò, tornò nella sala registrazione chiudendosi la porta alle spalle e riprese la chitarra in mano. «Honest to God I will break your heart, tear you to pieces and rip you apart». La voce gli uscì in un rantolo, come se dopo quelle parole non avesse potuto pronunciarne altre mai più.

 

 

 

 

 

È successo che a Deborah si è rotto il computer, e quando computer è tornato a casa, Deborah doveva studiare, studiare e studiare ancora. È successo, non succederà mai più.
Non dovrebbero mancare molti capitoli, ma non so dirvelo con certezza. Vi chiedo ancora scusa, probabilmente nessuno di voi leggerà questa cosa perché si sarà dimenticato che cos’era successo nel capitolo precedente, ma va bene così. Si da il caso che io ami troppo i miei due personaggi e che riesca solo a fare lunghe descrizioni di quello che sono stati e di quello che non sono più, che è la stessa cosa. Mi dispiace, spero non vi annoi.
Come avete notato è passato qualche mese e non il solito anno. Ho ipotizzato che Eveline fosse rimasta a casa di Jared, non sapendo dove andare, che si tollerassero a vicenda, che stessero insieme sì, ma non come due persone che si amano. Spero si capisca. Da qui tutto cambia: Mary e Eveline agli occhi di Jared non sono la stessa persona. Lui amava Mary, sarà capace di amare anche Eveline? Lo scoprirete nelle prossime puntate.
Un bacino sul naso e tanta tanta cioccolata avanzata da domenica. Se mi fate sapere che cosa ne pensate del capitolo vi regalo tutto il mio uovo al cioccolato fondente. E quello al latte di mamma. Fatevi sentire anche se sono imperdonabile, daaai. Deb.

  
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