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Autore: Raya_Cap_Fee    23/04/2014    10 recensioni
Mi chiamo Sarah Jane Donough e nell’Agosto del 1980 sono morta in un incidente a soli vent’anni. Trovate che sia triste? Non datevene pena. Non sono andata verso la luce, sono stata trattenuta qui sulla terra nelle vesti invisibili della Morte. Beh, una delle tante Morti in realtà. Ho il compito di prelevare le anime da questo mondo e guidarle verso la luce. Ora è giunto il momento di passare la falce, simbolicamente parlando, al mio successore. Daniel Duroy. Finalmente potrò essere libera.
Mi chiamo Sarah Jane e sono la Morte.
Genere: Comico, Dark, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Jason fece un passo avanti,  un nuovo sorriso gli balenò sulle labbra. Tese un braccio e mi porse una mano “Volevo solo ringraziarti” disse.

 
Inarcai le sopracciglia, sorpreso “Ringraziarmi?” domandai. Non ero sicuro di aver sentito bene. Perché uno dei seguaci di Huey avrebbe dovuto ringraziarmi per la sua morte? Jason allargò il sorriso e ritirò la mano stringendosi appena nelle spalle.

“Non vedo perché dovresti ringraziarmi, Jason” ripetei aprendo uno degli sportelli posteriori della macchina, per posarvi il borsone “Io non c’entro nulla con la morte di Huey”. Sam, dietro il fratello, ridacchiò “Lo ripete fin troppo spesso eh, Jason?”.

Ispirai profondamente e lanciai un’occhiata in direzione di casa mia “Allora, perché sei così contento della morte di Huey? Non siete tutti amiconi da quelle parti?”

Probabilmente quelli non erano affari miei. Per niente. Poi mi lamentavo di cacciarmi nei guai.

“Huey stava diventando un po’ troppo…fastidioso per i nostri affari. Le sue percentuali sulle riscossioni e le scommesse era notevolmente e scomodamente aumentate” rispose Sam con un mezzo sorriso.

Guardai entrambi “Beh, allora buon per voi. Un vero colpo di fortuna. Ora se permettete…” mormorai, impaziente. Aprii  lo sportello della macchina, pronto a prendere posto al lato del guidatore, quando la voce di Jason mi bloccò nuovamente “Ci rivedremo, Daniel”. Gli lanciai un’occhiata di sfuggita “Spero proprio di no, Jason. Ho chiuso con queste cose”.
Forse.
 


Sarah Jane’s PoV

Quando mi ritrovai nel luogo esatto in cui avevo visto il mio corpo riverso a terra, capii di averlo fatto davvero. Infine, ero ritornata dove tutto era cominciato più di trent’anni prima. Dove avevo scoperto che c’erano due Sarah Jane: il contenitore vuoto, sepolto,  e l’essenza, ancora viva, e uguale in tutto e per tutto al contenitore.

L’essenza, o l’anima,  non moriva mai. Ispirai profondamente l’aria fredda della mia vecchia città e poi soffermai lo sguardo su quella che era stata la mia casa. Non sapevo cosa o chi fosse rimasto della mia vecchia vita. I miei genitori dovevano essere degli ultra settantenni e mio fratello Jamie doveva avere…quarantatre anni.

Mi spostai dal centro della strada e salii sul marciapiede, passando sopra a un piccolo cumulo di neve spalata dalla strada. Strinsi tra le dita il tessuto della tunica nera e alzai il capo per osservare l’abitazione. Era abitata, di questo ero certa.

Il piccolo giardino sul davanti era ordinato e sulla porta bianca dell’ingresso vi era una ghirlanda circolare con delle lucine colorate, visto l’avvicinarsi del Natale. Come casa non era nulla di speciale, due piani, dipinta di un giallo tenue, esattamente come tutte le altre case a schiera del quartiere Nord. Era solo più vecchia,  più vissuta.

Mossi un passo verso il vialetto, accuratamente spalato, e mi chinai sul portalettere ben piantato nel terreno e coperto appena da uno strato di neve: Jamie Donough.

Mi bastò leggere quel nome, il primo di altri sconosciuti, per trattenere il respiro. Non mi ero mai sentita così fortunata come il quel momento. Jamie viveva ancora in quella che era stata la mia casa, e io non ero lì per portarlo via. Avrei potuto vederlo e basta.

Sorrisi mestamente e socchiusi di nuovo gli occhi grigi. In quel momento sentii di poter affrontare qualunque punizione di Uriele.


 
Non entrai in casa Donough. Sapevo che la mia presenza tra quelle mura domestiche avrebbe turbato gli inquilini. Era così, me ne ero accorta col tempo. C’era qualcosa che scattava negli essere umani, come una sensazione di essere osservati. Molte volte mi era capitato di fissare qualcuno e quello si voltava, a disagio, come se avesse avvertito la mia presenza alle sue spalle.  

A volte, per noia, l’avevo fatto per strapparmi un sorriso ma non l’avrei mai ripetuto con mio fratello. Attesi, in piedi e invisibile, al centro del vialetto di casa. D’altronde, avevo tutto –o quasi- il tempo del mondo per pensare,  o per aspettare.


 
Daniel aveva letto il mio biglietto? Era nel mio appartamento?

 E Johnse? Il mio Johnse. Non avrei permesso ad Ezechiele di vincere. Avevo detestato quella Morte petulante per la metà del tempo che ci avevo trascorso, dieci anni prima, poi però le cose erano cambiate. Avevo capito chi era davvero Johnson Fields.

Non un figlio di buona donnna tagliato per farmi saltare i nervi ma un ragazzo legato ad un’idea di giustizia troppo umana e istintiva. I cattivi dovevano morire e i buoni dovevano essere vendicati. Ecco come funzionava la mente di quel texano. Ce ne avevo messo di tempo per convincerlo a non cacciarsi nei guai e attenersi alle regole.

Nessuno, anch’io, poteva davvero credere di fare la cosa giusta prendendo l’anima di un vecchio ucciso in casa durante una rapina oppure prendere l’anima di una ragazza seviziata da un gruppo e poi ammazzata. Nessuno, eppure…

C’era qualcosa di sbagliato nel mondo, i vivi stessi lo dicevano, eppure da quest’altra parte…sembrava non essere poi così diverso. E potevo affermare che Johnse ci era arrivato brillantemente vent’anni prima di me.


 
Trasalii quando vidi la porta d’ingresso aprirsi di scatto, non ero preparata a rivedere mio fratello così all’improvviso. Non era stato  lui ad aprire la porta però.

“Andiamo! Papà!” urlò la bambina guardando fuori. Non potevo vederla bene, imbacuccata com’era nel piumino nero e con un cappello di lana. Dall’altezza doveva avere sette o otto anni, con un viso lentigginoso e gli occhi scuri dal taglio uguale a quelli di mio fratello.

“Faremo tardi!” gridò di nuovo incrociando le braccia al petto. Sorrisi d’istinto ricordando quando Jamie si comportava esattamente in quel modo, quando era impaziente di andare da qualche parte. Mi morsi un labbro e ispirai profondamente.

Faceva male, all’improvviso faceva male ricordare.

“Mamma!”

“Un attimo, Marlene” rispose una voce femminile prima di apparire sull’uscio. In braccio teneva un bambino di due anni al massimo, i capelli castani e gli occhi vispi  e che balbettò qualcosa che non riuscii a capire “Per favore, Seth. Non cominciare anche tu umh?” parlò la donna voltandosi verso l’ingresso.
Doveva essere di qualche anno più giovane rispetto a Jamie, il viso rotondo incorniciato da voluminosi e mossi capelli castani.  Scoccò un bacio frettoloso sulla testa di Seth e poi si guardò intorno soffermandosi, almeno così mi parve, un attimo in più del dovuto sulla mia figura.
“Arrivo, arrivo…sempre di fretta, eh, Marlene? Le patatine non scappano mica dal Mc Donald’s, sai?”

Eccolo lì. Jamie.

Apparve sulla soglia, composto, una camicia azzurra e dei jeans sotto il giubotto sbottonato. Era esattamente come lo ricordavo, solo più vecchio e appesantito. Era alto, dalle spalle larghe e con un accenno di pancia sull’addome. I capelli tagliati corti erano ancora dello stesso colore di quello della mamma, la fossetta sul mento era ancora lì, quella per cui lo prendevo in giro quando era piccolo.

“Jamie?” mormorai, senza accorgermene mi ero avvicinata al piccolo portico antistante l’ingresso.

 “Cosa c’è?” rispose Jamie.

Sgranai gli occhi e mi feci indietro spaventata dall’idea che in qualche modo potesse vedermi “Cosa?” rispose la donna voltandosi verso il marito.

“Hai detto qualcosa?” rispose Jamie chiudendo il portone e girando la chiave nella toppa.

“N..”

“Andiamo?” li interruppe Marlene. Mi spostai al centro del giardino, per evitare che, nel raggiungere la macchina parcheggiata poco più in là davanti al garage, mi attraversassero. Mio fratello era sposato e aveva una famiglia.

Jamie prese dalle braccia della donna il piccolo Seth e gli sistemò la sciarpa intorno al collo “Farai il bravo, Seth?” domandò verso il bambino che annuì prima di mollargli una manata sulla testa.

“Direi che comincia proprio bene” replicò con un mezzo sorriso la donna. La guardai meglio per capire che tipo di donna condivideva la vita con mio fratello. Era magra, e a giudicare dal modo disinvolto in cui si muoveva sui tacchi era abituata a portali, le mani erano liscie e perfettamente curate come le unghie. Forse era donna d’ufficio oppure una donna di casa moderna, di quelle che riuscivano a fare tutto in casa e fuori senza sembrare delle disperate.

Jamie emise una risatina divertita e insieme si mossero tutti verso l’auto, in testa, Marlene.

Avrei voluto seguirli, conoscere meglio Marlene e la madre, avvicinarmi a mio fratello e conoscere l’uomo che era diventato invece, li osservai allontanarsi in auto. Una morsa a stringermi lo stomaco.


Tornai a guardare la casa e visto che non avrei rischiato di turbare nessuno, decisi di entrare.

L’interno era cambiato, visibilmente ristrutturato al contrario dell’esterno. La cucina non aveva più i mobiletti bianchi e le piastrelle paraspruzzi colorate ma una di quelle moderne, simile a quella della mia dimora a Caldwell con la penisola e tutto il resto. Alle finestre con c’erano più le tende a strisce e per terra la moquette grigia era stata sostituita da un parquet di legno scuro.

Tutto sommato, era molto meglio, eppure non c’era nulla che mi ricordasse casa. A parte una cosa sul camino spento.

La scorsi con la coda dell’occhio mentre passavo per salire al piano superiore. Mi voltai piano e vidi la foto. Un sospiro mi sfuggii dalle labbra e poi una risatina nervosa e muta risuonò nell’ambiente.

Qualcosa di me c’era.

Mi avvicinai e mi chinai per poter guardare bene la foto. Ricordavo bene il giorno in cui era stata scattata. Avevo diciotto anni e durante la primavera e un weekend libero di mio padre eravano andati a fare un pic nic fuori città. Uno dei pochi che avevamo fatto, in verità.

La mamma con un abito scuro, a fiori, era inginocchiata sulla tovaglia a scacchi e teneva un braccio intorno alle spalle di Jamie, nel tentativo di attirarlo a se. Io ero seduta a gambe incrociate, leggermente inclinata verso Jamie, con indosso una delle larghissime T-shirt di mio padre e i capelli scompigliati da una folata di vento. Alla mia sinistra, mio padre sorrideva all’obiettivo, il mento poggiato alla mia spalla.

Se solo avessero saputo quello che sarebbe successo. Se solo avessero saputo cos’ero diventata.

Allungai le dita per sfiorare il contorno della foto e accennai un sorriso mesto. Avevo deciso ormai, avrei trascorso il tempo che mi rimaneva al fianco della mia famiglia.
 
 

Angolo Autrice
*Distrutta e  terribilmente insoddisfatta* Il capitolo trentaquattro è arrivato e non so sinceramente se sia come volevo che fosse :/ Sarà il troppo cibo di Pasqua a compromettere la scrittura? xD Vabbè spero che voi troviate qualcosa che vi piaccia anche in questo capitolo o nel caso contrario, sentitevi liberi di farmelo notare. Volevo ringraziare jortinijorgito01 (preferite); Traum e juliez jewel (seguite) e in generale tutti voi lettori che seguite/preferite/ricordate questa storia.
Detto questo, spero anche l’immagine vi piaccia. Io e Photoshop ci stiamo conoscendo un po’ meglio…anche se siamo ancora lontani dallo stabilire una relazione seria (da notare le condizioni le Daniel xD) ops...

Volevo invitarvi a passare dalla mia nuova storia Eins, Zwei, Polizei! (non ho idea di come inserisca il collegamento diretto)
. Non è la nuova soprannaturale ma qualcosa di “leggero” cominciata pochi giorni fa.
Un bacione,

Raya_Cap_Fee

 
   
 
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