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Autore: Francesco Coterpa    25/04/2014    2 recensioni
Finché l'ultimo uomo non sarà salvo, la guerra rimarrà l'unica fonte di salvezza; l'ultimo spiraglio di luce nel mare di tenebre che offuscano la breve e vuota vita; l'unico desiderio al di sopra della propria sopravvivenza, che permette di sacrificare la propria anima perfetta per poter raggiungere una pace temporanea.
Genere: Guerra, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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E così arrivò la sera ad abbracciare il mondo. Quel leggero fazzoletto di terra che galleggiava piatto nell'immenso spazio che volava attorno. Eravamo come statue, freddo marmo impassibile al tempo. Eravamo lì con sguardo impietrito contro l'orizzonte che si avvicinava. Probabilmente qualcuno pensava anche “Perché sono qui? Cosa ci faccio?”. Gli sguardi parlavano da soli. Non vidi mai così tanta paura, incredulità, stupore, e altre mille emozioni insieme come in quel momento, negli occhi dei nostri soldati. Gli sguardi non respiravano, erano divenuti tutti rigidi ed increduli. Quella non poteva essere una armata. Dov'era la fine? Quanti diamine erano? Quante donne avevano partorito per fare quell'esercito? Oh Zeus! Oh Atena! Aiutateci!

Oramai era ora di accendere le fiaccole, i nostri piccoli fuochi che non avrebbero illuminato nemmeno la metà dell'armata a noi di fronte. Mentre l'aquila s'avvicinava a noi, noi come conigli aspettavamo la nostra fine. Le nubi oscuravano il cielo. Sembrava che il Vesuvio avesse eruttato e le sue ceneri avessero coperto tutto ciò che era possibile coprire, come un largo e cupo manto. La luce sparì. Un tuono.

Iniziò intanto il vento a portare qualche gocciolina leggera d'acqua, ma ancora impercettibile, soprattutto perché eravamo tutti rivolti verso quella massa informe di uomini che sia avvicinava. Non sapevo cosa guardare se la paura nei nostri occhi o se la sete di sangue nei loro.

Erano troppi, un numero che nemmeno loro potevano sapere. Sarebbe stato più semplice contare le stelle, vedere gli dei e mangiarci assieme o salire l'Olimpo senza mani. Era sbalorditivo come in così poco tempo fossero riusciti a mettere assieme una armata così vasta, anzi un paese. Gli stendardi nostri erano montati con aste di legno e riportavano il nostre stemma: un'aquila trafitta, ma erano stati rotti talmente tante volte che oramai erano bassi, piegati e quasi a brandelli. I loro erano forniti di aste d'oro ed il loro stemma era alto, talmente alto che potevano vederlo anche i barbari a Nord dalle loro terre steppose e lontane. Le loro armature erano splendide, tutti avevano le stesse corazze montate al meglio, noi avevamo a malapena gli scudi. I loro scudi erano grandi nelle prime file, per assorbire l'impatto nel caso avessimo attaccato per primi, magari con la cavalleria. Previsto. Ma erano talmente grandi e robusti, lo si notava dagli uomini alti almeno due metri che vi erano nelle prime file ed i loro muscoli, che anche con i trabucchi sarebbe stato piuttosto complesso abbattere quel Vallo di Adriano che proteggeva il resto dell'esercito, anch'esso estremamente ben armato e difeso. Mi veniva quasi da ridere al vedere le enormi ed evidenti disparità che vi erano tra i due schieramenti. Era guerra. Era morte certa.

La loro avanzata faceva timore perfino agli alberi che tremavano al loro passo perfettamente coordinato. Non come era stato il nostro. I loro tamburi mettevano una tensione altissima nell'aria, e battevano a ritmo incessante e sempre maggiore la lor marcia, proprio come i nostri cuori, che scalpitavano alla vista della loro avanzata. Non si arrestavano. Non si arrestarono al punto che avevo pensato ma vennero avanti. Sempre più avanti. Sfrontati.

Erano troppo vicini, si stavano avvicinando paurosamente tanto. Cento passi da noi. Noi fissavamo. Cinquanta passi da noi. Venti passi. Dieci...

L'armata si fermò allo squillo di una tromba collocata chissà dove in quella formazione geometricamente perfetta.

Bastardi. Come si permettevano, questa era una sfida aperta, anzi una dichiarazione di vittoria a priori. Erano talmente convinti della loro vittoria che non avevano nemmeno bisogno di pensare dove fermare l'esercito, in un luogo più favorevole o sicuro per loro. Bastardi. La presunzione non era tollerata in guerra, poteva ritorcesi contro, questo era il pensiero che mi frullava per la testa ed era anche l'unico che mi permetteva di mantenere la calma difronte agli altri soldati. Mi voltai verso il nostro esercito, scesi da cavallo e lo spronai ad andar via. Inizia a muovere i miei passi verso il nostro esercito, se così poteva chiamarsi. Mi sciolsi il mantello che mi copriva le spalle inutilmente. Gettai l'elmo per terra. Iniziò a piovere.

Il forte ticchettio della pioggia accompagnava ritmicamente i miei passi verso il Generale. Arrivai di fronte al Generale, lui che come me cercava di mantenere la calma per i suoi uomini e per se stesso, con un cenno deciso e per nulla intimorito del capo mi fece capire che avevo il suo consenso. Sfilai la mia spada dal fodero e gliela consegnai. Era un prezioso regalo di un amico che avevamo perso durante il viaggio e non volevo che la impugnasse uno qualunque di loro. Tornai indietro verso l'armata dell'Inferno, con calma e determinazione. La pioggia aveva già bagnato tutto il mio corpo e dalla fronte ora penzolava una ciocca bagnata di capelli, mentre altre gocce mi cadevano ad ogni passo in avanti dagli occhi. Cercavo di mantenere la compostezza e la serietà, anche se dentro di me non sapevo più cosa fare. Una parte di me già pensava che solo con il loro arrivo avevamo perso, l'altra parte voleva vedere il loro sangue.

Nel terreno si erano già formate pozzanghere piuttosto vaste. Il silenzio avvolgeva entrambe le schiere di uomini, con la differenza che dalla nostra parte i muscoli involontari tremavano, dalla loro invece fremevano. Arrivai dinnanzi alle mura di scudi. Un lampo da sopra il colle illuminò il mio viso, ed i loro occhi che si intravidero dalle fessure degli elmi. Il tempo non passava. Non sapevo da quanto fossi faccia a faccia con quella muraglia. Mi avrebbero potuto eliminare quando volevano, senza rimorsi, ero un avversario in fondo. Sentivo i passi di un uomo che si avvicinava da dietro le file, ma non potevo chiaramente vederlo, la mia statura era più ridotta rispetto alle montagne che si ergevano lì davanti a me. Sentivo gli scudi muoversi, come le acque aperte da Mosè, era lui, ero certo che stava arrivando lui. Lo stronzo che ci aveva inseguiti per tutto questo tempo era qui e finalmente potevo vederlo in faccia. Strinsi i denti dalla foga di uccidere che mi salì in quell'istante. Strinsi i pugni e i muscoli delle gambe per contenermi. Poi i soldati a me difronte si scostarono, e finalmente mi apparve dinnanzi. I suoi occhi davanti ai miei. Il suo elmo difronte alla mia testa, la sua spada difronte al mio fodero vuoto, la sua tenacia contro la mia rabbia.

Dopo tempo di battaglie, finalmente era giunto il momento da me tanto atteso di guardarlo fisso negli occhi e trapassargli l'anima e, perché no, anche ucciderla e gettarla nel Tartaro. Non faceva paura, lui doveva invece averne. Ad un certo punto fece uno scatto con la mano destra e sfilò velocemente la spada. Sentii il sibilo del ferro temperato sul suo federo d'argento. Il gelo, il freddo della sua sua lama che scorreva e che oramai fu estratta in toto. Sentii il suo passo in avanti. Pesante poggiarsi sul terreno morbido senza erba. Sentii il tuono.  

  
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