Per
continuare(?)
Sono tornata! Lo so, mi sono presa le ferie di Pasqua
senza avvisare ma ehi, concedetemelo P:
Prometto di non sparire più così, sì <3
Dunque, che dire di questo capitolo? Botole, morti e amore fraterno a secchiate. (Credeteci finché potete)
Nel prossimo, vi prometto il Papa!
Bacini baciotti,
Lechatvert
Saremi morte già dolce paruta
la botola
https://www.youtube.com/watch?v=qs3gnk1dq60
No, non ero io sulle scale della
chiesa.
Il vento nei miei capelli soffiava nell'aria della notte.
Beriut – Guymas Sonora
Roma, ventisette agosto 1475. 1888 anni dopo l'assedio di Siracusa.
Giunsero in prossimità della vecchia taverna dove loro padre
aveva lasciato i suoi cimeli che un improvviso temporale li aveva
inzuppati fino all’osso.
Guardando i suoi capelli zuppi gocciolare nelle pozzanghere per strada,
Orso sospirò, stringendosi nella vecchia giacca che aveva
aperta sulle spalle. Di certo quel bagno fuori programma gli sarebbe
bastato per almeno un mese.
«Non vedo l’ora di buttarmi su un letto»,
dichiarò, allegro, coprendosi i capelli con il berretto
giallo che sua sorella gli stava porgendo. «Sono talmente
stanco che potrei addormentarmi anche qui.»
Porpora sospirò, legandosi la treccia dietro la nuca con un
fazzoletto dello stesso colore del berretto.
«Abituati all’idea di dormire per strada,
allora», rispose, guardando verso la taverna.
«Questo non è un bel posto dove lasciare i soldi e
chiudere gli occhi. Molto meglio far finta di essere morti di
fame.»
Orso non rispose, continuando a camminare per la strada costellata di
pozzanghere. Non aveva voglia di mettersi a discutere e, in
realtà, era molto più interessato da quel luogo
che da una banale chiacchierata. Erano anni che non metteva piede nel
ghetto, eppure niente era cambiato. La gente continuava a muoversi in
silenzio, schiva, guardandosi attorno con circospezione e i toni di
voce erano bassi, lievi, quasi impercettibili. Tutto attorno alle
abitazioni vi erano squadre della guardia cittadina che tenevano
l’ordine, se di ordine si poteva parlare. Rispetto al resto
della città, il quartiere ebraico era di gran lunga il
più sporco, condannato a marcire sotto la grandezza di Roma.
Scosse il capo, sforzandosi di focalizzarsi sui pochi ricordi che aveva
di quel luogo. Sarebbe riuscito a ritrovare la botola? Non ne era tanto
sicuro.
Guardò sua sorella sparire dietro la porta della taverna e,
quasi senza accorgersene, si ritrovò a pensare a quella
notte in cui tutto era in fiamme e sua madre lo aveva preceduto
all’interno, lasciando troppo presto quella porta che gli
aveva fratturato la mano.
Solo in quell’istante notò quanto Porpora le
somigliasse. Aveva i capelli più scuri e gli occhi
più chiari, ma il viso, tanto tondo da apparire perennemente
imbronciato, era lo stesso.
Si affrettò a seguirla all’interno della taverna e
subito fu investito dal calore di almeno venti corpi umani ammassati in
un quadrato di terra palesemente troppo piccolo per contenerli. Tra
tutti quei berretti, il fazzoletto giallo che Porpora aveva intrecciato
nei capelli era facilmente individuabile.
Si sbrigò a raggiungerla al banco, dove aveva già
preso a parlare con l’uomo che ripuliva le pinte.
«Siamo Orso e Porpora di Vallesanta», disse, quando
Orso fu abbastanza vicino da udire la sua voce ferma tra gli schiamazzi
della taverna. «I figli di Giovanni.»
L’uomo li scrutò a lungo, tanto a lungo che Orso
credette che quel discorso non sarebbe mai andato oltre le
presentazioni.
«In giro dicevano di avervi trovati affogati nel
Tevere», rispose d’un tratto l’uomo,
grugnendo mentre posava lo straccio. «Ma non
c’è dubbio che siate i figli di Giovanni. Avete
gli stessi occhi da brutta canaglia.»
Porpora non batté ciglio.
Orso non poté fare a meno di chiedersi quante volte, nei
sette anni che li avevano separati, la gente le aveva affibbiato quel
genere di nomignolo.
La vide sospirare, scostandosi una ciocca di capelli castani dietro
l’orecchio.
«Siamo tornati a riprenderci la cripta», rispose,
seria.
L’uomo scoppiò in una grassa risata.
«Arrivate in ritardo, Vallesanta!»,
esclamò. «Sono tre anni che nessuno si fa vivo a
pagarmi l’affitto! Se la rivolete indietro, avete prima da
saldare prima il conto.»
Porpora si accigliò.
«Laggiù c’è roba che vale ben
più di un misero affitto. Scommetto che vale persino
più di questa vecchia topaia»,
considerò. Guardava l’uomo dritto negli occhi,
senza distogliere l’attenzione dalle sue pupille.
«Ma, anche solo provando a scassinare la serratura, tutto
finirebbe a marcire nelle fogne che scorrono sotto la
città.»
L’uomo alzò le spalle.
«Allora la cosa non mi tocca. Che saldiate o meno il conto,
quella roba è intoccabile. Dio me ne scampi dal dover tirar
su i morti da quel buco!»
Di scatto, Porpora si voltò verso Orso.
«Quanti scudi hai detto di avere?»
Lui deglutì.
«Dodici», balbettò. «Ieri ne
abbiamo spesi due, quindi …»
La ragazza annuì, tornando a guardare il taverniere.
«Abbiamo dieci scudi, che ti bastino!»,
gridò, battendo la mano sul tavolo.
Lui scosse il capo.
«Trenta, e ritenetevi fortunati.»
«Quindici.»
«Venticinque. Pagate o butterò i vostri preziosi
morti in fondo al fiume.»
Porpora si portò una mano alla fronte, mostrandosi
pensierosa. Per un istante, parve sul punto di esplodere, poi si
calmò.
«Venti», disse, decisa. «Dieci ora, dieci
tra tre giorni. Se non ti sta bene, dà pure al Tevere
ciò che ti pare.»
L’uomo ammutolì. Arricciò il naso un
paio di volte, trafficando con un piatto di patate arrosto che
buttò sul bancone in attesa che chi le aveva ordinate
venisse a prendersele. Si accarezzò la barba per qualche
minuto, poi parve acconsentire con un lieve cenno del capo,
così Orso si affrettò a tirare fuori il sacchetto
con gli ultimi dieci scudi che il nonno gli aveva lasciato per campare
e pagò, seppur poco convinto, quell’affitto.
«Stanotte, quando se ne saranno andati via tutti,
lascerò la porta socchiusa», disse il taverniere,
facendo sparire il sacchetto con le monete. «Farete meglio a
essere discreti, Vallesanta. Se le guardie svizzere vi seguiranno anche
una sola volta, con me avete chiuso. Ora via, per carità, ho
abbastanza sventure, in questo posto!»
Alzando le spalle, Porpora diede all’uomo un lieve sorriso e
si allontanò.
Orso la seguì silenzioso, mentre uscivano dalla taverna
così come erano entrati, senza rivolgere la parola a nessuno
degli uomini ai tavoli che li fissavano con sguardo vacuo.
«Siamo senza soldi», le ricordò, una
volta in strada.
Lei annuì con un cenno del capo.
«Già.»
«E senza un posto dove dormire.»
«Lo so. Hai fame?»
Solo in quel momento, Orso si accorse che Porpora teneva le mani
strette lungo i fianchi. Quando aprì i palmi, rivelandone il
contenuto, scoprì due pugni di patate arrosto ancora fumanti.
Orso si accigliò.
«Quando le hai rubate?», chiese, stupito.
«Quando non stava guardando», gli rispose Porpora.
«Ne vuoi? Ho visto un portico, laggiù.»
Improvvisamente, Orso si sentì affamato. Da quando si era
ritrovato sua sorella, non aveva ancora messo in bocca nulla; quindi
annuì, silenzioso, e si tolse la giacca per fare da riparo
alla sorella in quel breve tratto che li separava dal porticato.
La loro cena consistette in due morsi di carne essiccata e delle patate
arrosto che riscaldarono i loro
stomaci più di quanto un qualsiasi caminetto avrebbe potuto
fare.
Rimasero sotto la pioggia battente per quasi quattro ore, dormendo a
turno l’uno sulle spalle dell’altra, contando ogni
uomo che usciva dalla taverna in piedi o strisciante nel suo stesso
vomito.
Quando le ultime luci all’interno della taverna vennero
spente, Porpora si era appena addormentata, raggomitolata su se stessa
nel suo mantello fradicio.
Delicatamente, Orso la scrollò.
«È ora», mormorò, alzandosi
in piedi. «Andiamo.»
Stavolta, fu lui a precedere la sorella nel locale. Era stato colto da
un barlume acceso nei suoi ricordi, quando aveva visto le finestre
oscurarsi. Anni prima, quando si recava lì con suo padre,
quello era il segnale che potevano entrare, percorrere quelle due
tavolate sulla destra e infine aprire la botola.
Sapeva dove andare.
Si trascinò dietro sua sorella per i tavoli e le sedie della
taverna, studiandone bene i particolari. La cripta era sotto la gamba
marcia di una delle bancate.
Non gli ci volle molto per individuarla.
In silenzio, spostò il tavolo alzandolo da terra e
liberò l’entrata della botola alzando la lastra di
granito che la ricopriva. Sotto ai suoi piedi, piccola e scura,
c’era una serratura.
Annuendo, guardò Porpora, la quale stava già
sfilandosi la croce d’osso dal collo.
«Prega che funzioni», commentò,
infilandola nella serratura.
Ruotando la chiave, si udì un lieve sibilo metallico, poi il
coperchio di ferro si abbassò e cadde nel buio con un tonfo
secco.
Immediatamente, un odore di marcio invase la taverna.
Porpora si coprì il naso con un lembo del mantello, mentre
Orso nascose il viso nella giacca.
«Siamo state le ultime due persone a metterci
piede», commentò, sporgendosi per guardare nel
buio. «Mi domando quanto marciume possa essersi accumulato,
in tutti questi anni .»
Porpora aggrottò la fronte, estraendo una candela dalla
borsa.
«Ti lascio il piacere di scoprirlo», rispose,
porgendogliela assieme a dei cerini. «Non ho intenzione di
scendere là sotto.»
Orso sospirò.
Non faceva di certo i salti di gioia all’idea di calarsi in
quel buco, ma d’altronde erano arrivati fin lì e
non poteva certo permettersi di tirarsi indietro.
Afferrò quindi i cerini e vi accese la candela, sedendosi
sul bordo e lasciando che le gambe penzolassero nel buio.
Guardò la sorella.
«E se mi faccio male?»
Lei alzò le spalle.
«Ti arrangi.»
Deglutendo, Orso tornò a guardare verso il buco.
Contò fino a tre, dopodiché si lasciò
cadere.
Il salto fu molto più corto di quanto ricordasse.
Atterrò in piedi, affondando leggermente in uno strato di
qualcosa di morbido e viscido che, a giudicare dall’odore,
poteva essere il vomito o l’escremento di qualche animale.
Mettendo da parte la questione per un istante, Orso decise di avanzare
senza illuminare il pavimento. Procedette un passo dopo
l’altro, mentre gli stivali affondavano sempre più
nel terreno infermo. Sotto di lui, stando ai ricordi che aveva,
scorrevano le fogne della città.
Sapeva che nella stanza c’era un caminetto, una specie di
fornace che suo padre utilizzava per sciogliere la cera, ma non
riuscì a ricordarne l’ubicazione esatta fino a
quando non andò a sbatterci contro.
Una volta illuminata, la cripta assunse tutto un altro aspetto.
Vi era un tavolo di marmo posto al centro della stanza, circondato da
una fessura che doveva fungere da canale di scolo. Sopra il tavolo,
appeso a delle corde, vi era un gran numero di pinze e seghetti
accuratamente ripuliti e disposti in ordine crescente man mano che si
avvicinavano al camino. La corda più vicina, lasciava
pendere un paio di quanti di pelle scura.
Sulle pareti tutte attorno alla stanza, erano disposti gli scheletri e
gli animali impagliati della collezione di famiglia, circondati dalle
fate crudeli, la firma che suo padre dava a ogni lavoro.
Cere e colle erano accatastate dall’altro lato della cripta,
dove una scala di corda scendeva nelle fogne.
Tutto sommato, quello era un ambiente spazioso, ben costruito.
Ora che lo vedeva senza gli occhi della paura, Orso non poteva fare a
meno di scorgere un ricordo a ogni dettaglio che notava. Le incisioni
sulle pareti di legno che aveva lasciato da bambino, le vasche dove suo
padre lasciava alle larve il compito ingrato di rosicchiare la carne,
gli animali impagliati che tanto amava osservare …
Si guardò attorno, in cerca dello scheletro che il prefetto
gli aveva commissionato. Se non si trovava tra quelli appesi alle
pareti, difficilmente era sopravissuto agli anni.
Lo trovò poco più in là, a dare bella
mostra di sé nella collezione accanto alla scala,
già cerato e lavorato con l’asta di ferro che lo
teneva ben dritto sul suo piedistallo.
Lo spostò con cautela, portandolo fino alla botola sul
soffitto con il passo più lento di cui fosse capace.
Lasciarlo cadere a quel punto, gli sarebbe costato la morte.
«Porpora?», chiamò, avvicinandosi il
più possibile all’apertura.
La voce di sua sorella arrivò calma e squillante.
«Sì?»
«Mi serve una mano. Ecco, sta’ attenta.»
Le mani della ragazza scesero prontamente ad afferrare il piedistallo,
trasportando il prezioso artefatto in superficie.
«Dio … che schifo!»,
commentò, una volta che lo scheletro fu interamente fuori.
«E lo vogliono mettere in bella mostra in Vaticano? Che se lo
tengano, dovremmo essere noi a pagare loro perché ci
liberino di questo affare!»
Orso riemerse dalla botola arrampicandosi malamente sul muro.
«Non dirlo neanche per scherzo», tuonò,
afferrando il piedistallo per ammirarlo alla luce che Porpora aveva
acceso nella taverna. «È bellissimo!»
Lo scheletro era quello di un normalissimo infante, forse un
po’ più piccolo del solito, ma da bacino partivano
due spine dorsali che terminavano in un paio di spalle decisamente
troppo larghe e, particolare decisamente più agghiacciante,
due teschi perfettamente formati. Dovevano essere appartenute a un
bambino non neonato, ma di almeno quattro o cinque anni.
Estasiato, Orso lo accarezzò con le dita.
Gli piangeva il cuore a pensare di liberarsene.
Veloce, afferrò il mantello che Porpora aveva abbandonato a
terra, avvolgendoci delicatamente lo scheletro, e lo ripose con cura in
un ulteriore involucro fatto con la sua giacca.
Tornò poi a recuperare il coperchio della botola, e la
chiuse con un giro di chiave, riconsegnando la croce a Porpora.
«Mettiamo a posto e andiamo via», disse lei,
prendendo in custodia lo scheletro. «Prima che qualcuno noti
che la porta è aperta.»
Si avviò verso l’uscita, ma Orso non la
seguì subito.
Col fiato corto a causa di tutte quelle novità, rimase
qualche passo indietro ad aggiustarsi la camicia sul petto. Si diede
una rapida sistemata ai pantaloni e infine passò a
controllare le stringhe degli stivali con qualche colpetto di mani.
Quando si guardò i palmi, li trovò cosparsi di
larve intente a mangiare quello che rimaneva della carne putrefatta di
un animale, forse un topo.
Chiuse la bocca, sforzandosi di non pensare a cosa aveva appena
toccato, e passò le mani sui pantaloni nella vana speranza
di potersi togliere di dosso l’odore di morto.
La notte dopo gli sarebbe di certo toccato sgobbare per ripulire la
cripta dai resti marci delle bestie arrivate lì dentro in
cerca di calore.