Fanfic su artisti musicali > 30 Seconds to Mars
Segui la storia  |       
Autore: Efestiandro_    26/04/2014    1 recensioni
Vorrei liberarmi di questo fardello che porto sul cuore, di questo dolce fardello che costituisce il mio sorriso e il mio dolore, che da' voce al mio respiro e agli incubi la notte. E se sei disposto ad ascoltare, la mia musa saprà narrarti le vicende che riposano sul fondo del mio animo.
«[...] Quel ragazzo che portava il mio nome.
Quel ragazzo che ero io, e non c'era altro modo per descriverlo.
Avrei potuto essere un fantasma per loro, e in effetti mi trattavano come se fossi qualcosa di sovrannaturale.
Ero un bel ragazzo, questo lo sapevo, la dea Venere mi aveva modellato con le sue stesse mani, con la passione e la lussuria con cui due amanti fanno l'amore.
Non era questo, però, a stupire chiunque e spingerlo a guardarmi con curiosità crescente ad ogni movimento. »
{Tratto dal capitolo 1.}
Genere: Horror, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Jared Leto, Shannon Leto
Note: Cross-over, Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

{ Heeey ... No? Okay. Vorrei scusarmi per tutto il tempo che ci ho messo ad aggiornare, so che sono imperdonabile. Sarò breve e vi lascerò a questo... Scempio letterario. Buona lettura! }





Il mese seguente passò in un attimo, o almeno così mi era sembrato, dati gli interi pomeriggi passati sui libri in vista degli esami per la fine del trimestre. In generale non avevo avuto contatti umani con nessuno, se non Perrie e Frank, che mi avevano aiutato molto con lo studio. A volte li guardavo sconsolato snocciolare tutte quelle formule di matematica e fisica o interi paragrafi di biologia e mi sarebbe piaciuto avere il loro genio. Ma il mio cervello si impuntava, correva a rievocare la sensazione delle dita sulle corde della chitarra, o sui tasti lisci del pianoforte, ribellandosi a tutte quelle informazioni e quei numeri.
D'altronde l'obbiettivo dei miei amici era New York, in qualche università di medicina, economia o legge: l'avevano ripetuto tante volte. 
I toni caldi del tramonto avevano presto lasciato spazio al blu scuro e al nero della sera, mentre le prime gocce di pioggia avevano iniziato a scendere lievi, nel silenzio della città che si era come soffermata ad ammirare. Chiusi il libro di letteratura e mi guardai attorno nella biblioteca quasi vuota, a quell'ora: a parte Perrie, che sonnecchiava oramai da qualche decina di minuti, e Frank, che era più o meno nelle stesse condizioni, qualche altro studente si aggirava in punta di piedi tra gli scaffali, sfogliando pagine e riponendo volumi.

Rimisi tutte le mie cose sparse per il tavolo nella tracolla e mi avviai all'uscita, lanciando un'ultima occhiata ai miei amici: non me la sentivo per nulla di svegliarli, non dopo averli tenuti in piedi fino a tardi per quasi tutta la settimana: testimoni di ciò le borse sotto agli occhi che accompagnavano tutti noi. E, talvolta, un bicchiere di caffè vuoto.

spinsi la pesante porta d’uscita, sulla quale troneggiava la scritta “Public Library”, non prima di aver salutato l'anziana signora Miller, come sempre nascosta dietro al bancone in legno, l'aria truce e gli occhiali calati sul naso. 
Il freddo e l'acqua mi investirono ancor prima di posare piede sull'asfalto bagnato.
Mi strinsi nella felpa, come a difendermi da quell'improvviso maltempo che sembrava essere arrivato in anticipo. Avevo bisogno di sgranchirmi le gambe, così, così iniziai a camminare, camminare e basta, senza una meta precisa, fino a che la punta del naso non si tinse di rosso e le dita non iniziarono ad intorpidirsi, costringendomi a portarle a coppa sulle labbra, soffiando per scaldarle. Un’improvvisa raffica di vento mi tolse il cappuccio: solo allora mi accorsi di essere arrivato in un quartiere di villette a schiera e che la pioggia era aumentata d’intensità, circondandomi da ogni lato, come una spessa tenda di velluto.

Fu in quel momento che lo vidi, appoggiato al muro di una casa, perfettamente asciutto: l’acqua sembrava non aver intenzione neanche di sfiorarlo. Mi guardai attorno, sperando di intravedere qualche anima viva che mi assicurasse che non ero pazzo, ma, strizzando gli occhi per cercare di scorgere attraverso le gocce d’acqua, nono vidi nessuno, eccetto un pastore tedesco che dormiva beato sotto ad una tettoia.

Chiusi gli occhi, voltandomi lentamente e pregando che se ne andasse.

-  Se non lo vedo non c’è –

Mi ripetevo poco convinto, del tutto scoraggiato all’idea di diventare come Melinda Gordon di Ghost Whisperer.

Affrettandomi sui miei passi, feci l’enorme errore di aprire un secondo gli occhi: allora lo vidi, a qualche paio di metri da me, con un ghigno soddisfatto sul viso. Per degli occhi estranei doveva essere piuttosto strano un esile ragazzo nel mezzo della strada, sferzato dall’acqua e dal vento, mentre si strofinava gli occhi e poi li riapriva, come riemerso da un sogno. Per tutta risposta lui incrociò le braccia, con i capelli rossi perfettamente in ordine. Non uno di essi, non un solo filo della sua maglia, era fuori posto; mentre i miei, di capelli, venivano totalmente scompigliati dal vento e sparati in tutte le direzioni.

“Come diavolo fai a tenere i capelli così … così …”
“Così …?” chiede reclinando leggermente il capo di lato.

Così in ordine !” sbottai infastidito. “Anzi, non voglio saperlo. Cosa vuoi da me, piuttosto?”.
Avanzò di qualche passo, ma, vedendo che per quanti lui ne compiesse in avanti io ne facevo all’indietro, si fermò, visibilmente divertito.

“Dove sono i tuoi amici?” la sua voce non era più roca, ma pur sempre strana, come se arrivasse da lontano, molto lontano, ma allo stesso tempo vicina, come se mi stesse bisbigliando direttamente all’orecchio.

“Sono …”

Non riuscivo a credere di star parlando con Gerard. Ricordavo ancora il giorno in cui lo venni a sapere, pochi anni prima, una ferita mai guarita del tutto.
Era giugno. Una tiepida serata d’inizio estate, ero appena rientrato con Perrie da un drive-in all’aperto. Poi arrivò la telefonata e dovetti appoggiarmi al divano per non cadere. Quella notte nessuno dei due chiuse occhio: lei proteggendomi dai miei demoni, che oramai non potevo più annegare perché avevano appena imparato a nuotare.

“ … A casa. O in biblioteca.”

Controllai velocemente l’ora sul cellulare e mi accorsi che era passata poco più di un’ora da quando ero uscito dall’edificio.

“Devono essere per forza a casa” dissi alzando lo sguardo. Una piccola parte di me aveva sperato di mettere a fuoco nient’altro che pioggia, ma rimase delusa.

Scosse la testa, facendo qualche altro passo avanti e io, esattamente come nella stanza, rimasi pietrificato, incapace di muovere un passo. Appena fu più vicino, la luce del lampione ebbe modo di illuminarlo e meglio e mi si strinse il cuore: era proprio come lo ricordavo, dall’ultima volta in cui l’avevo visto.
Da vivo, precisiamolo.

Mi morsi con forza il labbro inferiore, cercando di frenare i ricordi.

“Vieni con me” disse solo, e fu come se le mie gambe si muovessero da sole.

Arrivammo poi nei pressi della biblioteca e la pioggia iniziò a diminuire sempre più, come tutte le antiche civiltà che dopo aver raggiunto il culmine della potenza e dello splendore si lasciando andare e decadono. In questo caso il culmine era giunto con l’arrivo di Gerard, e mi chiesi se tutto non fosse stato “colpa” sua. I jeans oramai fradici si erano appiccicati alla pelle e rendevano incredibilmente fastidioso ogni passo; inoltre, di quando in quando, una goccia di pioggia centrava perfettamente la zona scoperta tra la mia schiena e il piumino. Infine, ma non per importanza, cercando di star dietro al pass svelto di Gee, che camminava come se avessimo avuto tutti i diavoli dell’inferno alle calcagna (Non avrei giurato che non fosse vero, almeno per lui), avevo preso in pieno una pozzanghera.
Tutte le luci erano spente e il pesante portone da cui ero uscito, chiuso; segno che la bibliotecaria era tornata nel suo appartamento pieno di gatti. La sua espressione si fece seria, se fino a quel momento era stata divertita, mentre la mia doveva essere piuttosto stranita. Allora fece qualcosa che non faceva da molto, moltissimo tempo: mi prese per mano, delicato e brusco allo stesso tempo, e fece per tirarmi via con lui, ma dovette accorgersi che io ero alquanto riluttante e applicavo, seppur poca, resistenza; così si girò e mi guardò perplesso.

La sua mano era fredda, ma non come la mia, quel tipo di freddo sovrannaturale, che viene da dentro; perché dentro non hai più sangue che scorra nelle vene o un cuore che batta; perché dentro sei come un appartamento vuoto, abbandonato, dopo che colui che abitava prima traslocasse; leggero come l’ultimo respiro che doveva aver esalato.

“ Tu non immagini neanche – cominciai – quanto sia stato difficile per me lasciarti ansare: ho messo in dubbio ciò di cui ero sicuro e … Magari sembrerò patetico, ma tu … non puoi tornare come se nulla fosse! In più sei morto! “

Mi accorsi di non aver preso fiato neanche una volta e mi costrinsi a riempire d’aria ghiacciata i polmoni, mentre lui continuava a stringere la mia mano, guardandomi inespressivo.
Forse con una punta di stupore.
Aprì e richiuse la bocca un paio di volte, senza che ne uscisse alcun suono, come un pesce in una boccia.

“Dimmi che non sono pazzo” ripresi.

“Oh, sì che lo sei, lo sei sempre stato” rispose riprendendo a tirarmi verso il retro dell’edificio.

Appoggiai i palmi delle mani sull’ampia vetrata che dava sul tavolo centrale della biblioteca e strinsi gli occhi cercando di vedere meglio: eccoli lì, a dormire beati come se nulla fosse stato. Dio, che situazione assurda!
Le labbra di Frank erano leggermente schiuse e il suo petto si alzava e abbassava ritmicamente; Perrie aveva il viso seppellito nelle braccia, appoggiate sul tavolo.
Bussai un paio di volte sul vetro, prima delicatamente, poi sempre più forte. Gerard era appoggiato al muro, con le braccia incrociate e un sorrisetto beffardo stampato sulle labbra.

“Non capisco dove tu voglia arrivare” dissi.

“Cosa intendi?”
“Mi hai portato qui e ora te ne stai lì a ridere sotto i baffi”
“Non ho i baffi, sai che la barba mi sta male”
“E’ un modo di … Dio, come sei squallido. – mi lasciai sfuggire un grugnito- Non importa”
A quel punto iniziò a sghignazzare soddisfatto e io ripresi a bussare contro il vetro finché i pugni non mi fecero male.
Alla fine, Frank si stiracchiò, per poi aprire gli occhi, e mi chiesi quanto ci avrebbe messo per lasciarsi prendere dal panico. Mentre allungava lentamente la mano per scuotere Perrie, estrassi di tasca il cellulare e composi velocemente il suo numero.

Mentre squillava, feci per girarmi verso Gerard, ma lui era sparito.
“Jared?”
“Frank, ciao. Perrie è sveglia?”

“Puoi vederlo da te”
“Ora vi tiro fuori, okay?”
Ricordandomi della piccola “Bacheca degli avvisi”, tornai sui miei passi al portone d’entrata. Scorsi con lo sguardo la moltitudine di foglietti attaccati con delle puntine: da un certo Mark che cercava un coinquilino per un appartamento vicino alla facoltà di belle arti a qualche mistersioso individuo che dava lezioni di chitarra o spagnolo.
"Frank, ci sei ancora?" dopo vari sbadigli e qualche imprecazione, mi rispose. "Bene, ora di' a Perrie di comporre questo numero". Con il palmo della mano libera appoggiato al vetro, dettai più chiaramente possibile il numero della signora Miller; poi mi appoggiai al muro, quasi a voler riprendere fiato.
"Jared?" ora era la voce di Perrie ad uscire dal cellulare.
"Dimmi,"
"Solo ... non te ne andare, okay?" sentii Frank borbottare qualcosa, che penso sia stata "Mi farete venire il diabete". Sorrisi tra me e me.
"No, rimango qui. O chissaà cosa potreste fare da soli in una stanza buia".
Imprecazioni soffocate e qualche insulto erano l'unico rumore che infrangeva la quiete di quella serata, dove l'dore di asfalto bagnato aleggiava nell'aria e le luci al neon squarciavano l'oscurità del dopo tramonto.
Passò mezz'ora prima che la bibliotecaria, abbastanza stizzita per essere stata svegliata e costretta a recarsi in quella che sembrava una vestaglia sul luogo di lavoro, si facesse vedere. Aprì la porta lamentandosi di come noi giovani al giorno d'oggi siamo così distratti e ignorandomi completamente, seduto contro il massiccio stipite della porta. Sembrò non notarmi nemmeno quando mi alzai in piedi, con i jeans bagnati e lo sguardo ansioso.
La prima cosa che fece Perrie, dopo essere emersa dall'oscurità, fu correre ad abbracciarmi.
"Tubate senza di me?" Frank si finse per un attimo indignato, prima di scoppiare a ridere.
"Stupidi ragazzini" aggiunse la signora Miller mentre si allontanava ciabattando.



{Ringrazio i miei "due lettori" (Citando Manzoni) che sono giunti fin qui. Per insulti, minacce e chiarificazioni varie, vi lascio il mio Twitter: https://twitter.com/heycryingjoy  }

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 30 Seconds to Mars / Vai alla pagina dell'autore: Efestiandro_