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Autore: Some kind of sociopath    30/04/2014    3 recensioni
Anno 1769: Haytham E. Kenway, dopo il suicidio dell'amico Jim Holden e la morte della sorella Jenny è tornato a Boston alla ricerca di Tiio. Lei è sopravvissuta all'incendio del villaggio, nonostante il figlio non lo sappia, e Haytham ha intenzione di ricucire la sua famiglia, quella che non è riuscito ad avere nella propria gioventù. Ma non ha messo in conto gli altri Templari, il suo vecchio Gran Maestro Reginald Birch e la piccola e fastidiosissima Confraternita degli Assassini...
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Il testo dei primi due capitoli è stato rivisto e modificato. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate al riguardo e quale "versione" preferite, ;)
 
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Altro personaggio, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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Ricordavo fin troppo bene cos’era successo durante il mio primo viaggio in nave verso l’America, prima che le cose si complicassero ulteriormente, così optai per restare nella mia cabina dando nell’occhio il meno possibile e ripensando a quant’era successo in quella casa.
Ero stato veramente stupido. Avevo cercato di uccidere George Washington. Il comandante in capo del dannato Esercito Continentale.
Oh, non sarebbe stato poi tanto male riuscirci. Le parole di Connor – Qualunque cosa possa aiutare George Washington – mi avevano segnato. Non riuscivo a pensare che continuasse ad ignorarmi senza il minimo ritegno, che per quanto insistessi nel ribadire l’inettitudine del nuovo comandante fosse ben deciso ad appoggiarlo. Non mi avrebbe mai ascoltato. E d’altronde, che dovevo aspettarmi? L’avevo trattato male per anni. Non gli avevo mai voluto veramente bene. E lui mi stava tenendo in vita, probabilmente solo perché io stavo facendo la stessa cosa con lui.
Quei pensieri mi stavano torturando, così il secondo giorno di viaggio buttai le gambe giù dalla branda e salii sul ponte della goletta su cui viaggiavo senza la redingote addosso, il vento carico di salsedine che gonfiava le vele. – Signore! Che ci fate qui? – Mi voltai di scatto. Un uomo ben vestito, probabilmente il capitano, con un sorriso sdentato in faccia e una vaporosa barba aggrovigliata scavalcò la balaustra a poppa con un balzo, venendo verso di me a passi rapidi. Aveva le gambe corte e un po’ valghe, una pipa in mano e gli occhi verdi, luminosi. – Siete venuto a respirare un po’ d’aria di mare, eh?
Sospirai, dandomi una grattata alla testa. – Veramente, capitano, volevo chiedervi una cosa.
Rise. – Con tutto quello che pagate potrei anche spogliarmi e ballare davanti all’intera ciurma! – esclamò, mollandomi una pacca sulla schiena. Era più basso di me di tutta la testa e un buon pezzo di braccio. – No, d’accordo, questo non lo farei, ma ritengo che il quartiermastro sarebbe molto contento di danzare per noi, non è così? – Fece un cenno in direzione di un uomo accanto al timone, le braccia incrociate su una camicia color del sangue e i capelli castani legati da un nastro. – Ah, è spagnolo, quello. Preso a Nassau. Hanno ritmo nel sangue, anche se il signor Perez sembra avere un diavolo in corpo quando comincia ad urlare. Dunque, di che stavate parlando?
Presi fiato. Non era facile porre quella richiesta. Insomma, per quell’ometto non ero altro che un riccone sprovveduto, di quelli che hanno sempre avuto la minestra pronta all’ora di cena. Se avevo tanti liquidi da potermi permettere un posto all’ultimo momento su una goletta di Sua Maestà, be’, non dovevo mai aver mosso un dito in vita mia.
Non era vero, ma le parole suonarono comunque bizzarre quando uscirono dalle mie labbra. – Vorrei lavorare sulla nave.
Mi guardò con tanto d’occhi, scoppiando improvvisamente a ridere con una mano sul ventre gonfio. – Lavorare? Santo cielo! – Continuò a ridere rauco e feci un sorrisetto tirato, nonostante dentro di me desiderassi trafiggerlo per la sua insolenza. Ce l’hai nel sangue, aveva detto Bob. Nel tuo fottuto cognome! – Credete basti lasciare il cappotto nella stiva per diventare un marinaio? Tornate a…
– Ho pagato – sibilai afferrando l’uomo per una spalla. – E non accetterò un no come risposta, sono stato chiaro?
Quello sbiancò. – Signore, la merce va portata a Philadelphia a quattro giorni da oggi. Non ho tempo da perdere.
– Nemmeno io – ringhiai guardandolo negli occhi. – Nemmeno io, capitano. Lavorerò come ogni altro dannato marinaio di questa nave, d’accordo? Sono pochi giorni. Di che si tratterà mai? Non ruberò il pasto a nessuno dei vostri uomini, né tantomeno il loro salario.
Lui s’infilò la pipa tra le labbra, spostandomi la mano. – Nessuno vi aiuterà, lo sapete, vero? – disse con gli occhi gelidi. – Nessuno vi dirà cosa significa cazzare o quali sono i velacci. Questi uomini vi guarderanno con ira e sospetto. Potrebbero anche architettare di gettarvi in pasto ai pescecani.
Non potei trattenere un sorriso. – In quattro giorni?
Il capitano era serio come non mai. – Quattro giorni e qualcuno potrebbe già trovare la vostra carcassa sul fondo dell’oceano. Una volta questi bastardi hanno tagliato la gola del loro capitano appena raggiunto il mare aperto. Non gli hanno nemmeno lasciato il tempo di finire la prima botte di rum! So riconoscere un uomo intelligente da uno sciocco, e non ho fatto parola davanti al vostro denaro e alla richiesta di restare anonimo. Ho accettato. – E come non avrebbe potuto? L’ho pagato fior di quattrini, il bastardo. – Ma quest’idea di navigare… Ragazzo, lasciate stare. Ve lo dico trattandovi da uomo intelligente. Lasciate stare, o sarete declassato a perfetto idiota. 
Lo guardai sollevando un po’ la testa, un sorriso di sfida dipinto in faccia. – Me la sono cavata in situazioni peggiori – dissi arrotolando le maniche della camicia. – Allora, da dove comincio?
Il capitano scosse la testa e sputò oltre il parapetto, evitando appena uno dei propri uomini. – Prendete il secchio. Partirete dal fondo, ragazzo. Date una lustrata alla mia cabina. Dopo potremmo cominciare a discutere della vostra abilità di marinaio.
Ridacchiai. – E che cos’hanno in comune la pulizia delle cabine e l’arte della navigazione? – chiesi con sarcasmo.
– Entrambe richiedono meticolosità. Inoltre, una delle due aiuta a distinguere un perfetto idiota da un uomo intelligente. – Diede una grande boccata alla pipa, soffiando il fumo dall’angolo della bocca. – L’altra è la non così nobile arte della navigazione.
Con un sogghigno, gli voltai le spalle e aprii la botola per scendere sottocoperta. Da qualche parte bisogna pur cominciare, non è vero, papà?
 
– Controvelacci! Dobbiamo prendere ogni dannato soffio di vento, capito? – Il quartiermastro strillava come una cornacchia mentre ci affaccendavamo tra le cime e ci arrampicavamo sugli alberi per spiegare le vele. Tutte le vele.
Avevamo seguito la costa americana per tutto il tempo, ma dall’altra parte, verso l’oceano, la vista era incomparabile. Miglia e miglia nautiche di assoluto nulla, ma che dopo qualche giorno imparavi a riconoscere come brulicante di vita e attività. Ogni soffio di vento era un avvertimento o una minaccia, ogni onda parlava. E quegli uomini, gente che capiva il volo degli uccelli e al tempo stesso considerava una bestemmia l’avere a bordo una donna, avevano attratto immediatamente le mie simpatie. Di sicuro partivano avvantaggiati, ma come si può non stimare un marinaio, un uomo che si guadagna da vivere lavorando in un ambiente che non è il proprio, rischiando di non tornare a casa perché ha frainteso le parole delle onde, eh?
Erano saggi. Chiunque altro si sarebbe sentito inferiore, forse, ma per me erano più intelligenti degli intellettuali londinesi.
Probabilmente perché ognuno di loro era passato per la nobile strada della pulizia di cabine.
Comunque, il quartiermastro quella notte stava sfoggiando con orgoglio i propri potenti polmoni, urlando che cosa ognuno di noi dovesse fare mentre il capitano, l’ometto di nome Benjamin Light, teneva la fronte del timoniere intento a vomitare piegato in due sul parapetto.
Perez mi lanciò uno sguardo di sfida continuando a urlare, e salì le scale rabbioso. – Sei sicuro di poterci tirare fuori di qui? – brontolò con le braccia incrociate. La sua camicia rossa era inzuppata dalla pioggia e i lunghi riccioli scuri che dovevano aver condotto chissà quante donne tra le sue lenzuola gli pendevano flosci e bagnati sulla fronte. Probabilmente avevo un aspetto più dignitoso di lui, tolto il ghigno da folle che sentivo formarsi sulla mia faccia.
– Assolutamente – grugnii di rimando.
Rise amaramente, tirandosi indietro i capelli con la mano. – Davvero, riccastro? Mi era parso di capire che tu non avessi mai lavorato su una nave. – Si chinò appena in avanti, stringendosi alla balaustra. – Men che meno come timoniere, direi.
Sbuffai l’aria fuori dal corpo, una mano sugli occhi per osservare l’orizzonte attraverso quella dannatissima tempesta, cominciata intorno alle sette di quello stesso giorno. Accanto a noi dovevano scorrere le coste della Provincia del New Jersey, ma la tempesta le rendeva invisibili. Potevano essere ovunque, magari proprio in quello stesso istante, senza volerlo, stavo facendo rotta per l’Europa. Che potevo farci? – Vado dove ne vedo il bisogno, Perez.
– Potevo stare io al timone.
– Ma non l’hai fatto – replicai virando di scatto per evitare un relitto illuminato all’improvviso da un lampo. – Cristo, non si possono accendere altre lampade? – Il rombo del tuono seguente non riuscì a coprire le mie parole.
Era come stare alla guardia di un formicaio. Tutti correvano da una parte e dall’altra con le cime annodate alla cintola, ammaina, issa, ammaina, issa, sciogli quello, lega quell’altro. Come poteva mio padre aver vissuto per chissà quanto tempo in un mondo come quello? Si urlava, nei giorni buoni si beveva molto e si cantava, ma non mancavano i litigi. Mai. Nemmeno nei momenti più pacifici. E il capitano Light faceva del suo meglio per riportare la calma, borbottando bestemmie con la pipa tra le labbra. Avevo continuato a portare la lama celata al braccio, ma non mi sentivo sicuro. – Lampade? Smetti di lamentarti e portaci via da qui! – sbottò il quartiermastro. – Magari senza farci affogare, che dici?
Brontolai un’imprecazione e mi sforzai di recuperare il senso dell’orientamento. – Santo cielo, Perez, digli di chiudere quelle dannate vele.
– Si dice issare, inglese! Possibile che tu ancora non…
– Vuoi ascoltarmi, dannazione? – Un urlo dei marinai mi avvisò di virare di nuovo, caricando tutto il mio peso sul timone per vincere la resistenza. Stavo ansimando. – Issa quelle cose! Il vento ci starà portando chissà dove, e dove va il vento va anche la tempesta. Usa il cervello!
Il quartiermastro abbracciò il pomello decorativo della balaustra, guardandomi con gli occhi sgranati. – Il quartiermastro sono io, e fino a prova contraria decido io che cosa si fa su questa nave.
Avrei voluto ribattere che toccava al capitano decidere, ma Light sembrava troppo intento ad asciugare la fronte di un timoniere in preda alla nausea per seguire ciò che succedeva sulla nave. – Andremo a schiantarci! – sbottai dando una manata aperta sul timone.
– Forse il vento sta soffiando nella direzione giusta!
Sollevai le braccia con un ghigno sarcastico in viso. – Certo! – esclamai. – Senza alcun dubbio è la direzione giusta! Scusa se ho dubitato di te, riesco già a vedere l’Indipendence Hall!
Gli occhi del quartiermastro si strinsero, colmi di rabbia, e mi sentii afferrare dalle sue mani per la camicia. Clic, la lama celata scattò restando a un pollice o due dalla sua faccia. – Non ti conviene, Perez – dissi in un ringhio.
Quello mi mollò una spinta, gettandomi a terra. – Al diavolo tutto! – urlò afferrando il timone. La botta mi mozzò il fiato nei polmoni. – È il momento giusto, signori! Diamoci da fare!
Ecco, fu proprio in quel momento che le cose cominciarono ad andare a puttane.
Con una mano sul petto mi sforzavo di riprendere fiato, sdraiato sul fianco mentre l’acqua cadeva impervia sul ponte che avevo lucidato il giorno prima con tanto sforzo. Sollevai lo sguardo, puntellandomi sui gomiti, appena in tempo per vedere il timoniere afferrare Benjamin Light per un passante e sollevarlo di peso, scagliandolo fuori bordo.
Non riuscivo a smettere di sbattere le palpebre come un maledetto idiota.
– Qual è la nostra meta, amici?
Il timoniere, con un ghigno simile a quello di un cane stampato sulla faccia bronzea dal sole, si avvicinò per mollarmi un calcio sui denti che non riuscii ad evitare. – Nassau! – strillarono tutti insieme. No, no, no, a sud, troppo a sud, merda, troppo a sud. Philadelphia.
Perez rise. Lo stesso timoniere mi tirò su senza fatica, torcendo il braccio della lama celata dietro la schiena. – Che ne faccio di lui, capitano Perez?
L’ex-quartiermastro si voltò verso di me sorridendo. – Ti è piaciuta la sorpresa, riccone? – chiese tornando a guardare la propria… ciurma, sì, immagino che il termine equipaggio non fosse più adatto alla situazione.
– Ammutinamento – riuscii solo a sussurrare con la bocca piena di sangue. Forse mi si era anche scheggiato qualche dente.
– Sei perspicace – rispose il timoniere, gioioso. – Che ne facciamo di lui, capitano?
Perez non mi degnò d’uno sguardo. Bastardo. Era una goletta della Marina di Sua Maestà, insomma, ne avrebbero notato l’assenza. Credo. Erano bravi a notare le cose, di solito. – Di sotto c’è il suo cappotto. Ripulitelo, chiudetelo in un dannato baule e gettatelo in mare. – Prese fiato, come se fosse stata una decisione difficile da prendere. Sentii il sangue collassare nella parte bassa del corpo, in preda al panico. – Sa troppe cose. Ci denuncerebbe.
Gettatelo in mare. – Sissignore.
– No! – strillai divincolandomi come una donnicciola. Ah, l’istinto di sopravvivenza. – Perez, non lo farò. Non vi denuncerò, lo giuro. Non so nemmeno il nome della goletta, come potrei…
– Sai il mio – rispose lui con estrema calma. – E quello del vecchio nano. Presto qualche coglione in divisa potrebbe venire a reclamare la scomparsa di questa bellezza, e non posso sapere davvero cosa dirai e cosa no. – La tempesta sembrava non turbarlo nemmeno. Muoveva il timone con la sicurezza di chi lo faceva da anni, non con i miei movimenti secchi e impulsivi. – Perché dovrei fidarmi di te?
Abbassai lo sguardo e lo levai di scatto verso l’albero. La bandiera britannica era sparita, al suo posto il vessillo nero dei pirati era frustato dal vento. Non potevo morire in quel modo, dovevo giocarmi il tutto per tutto. E quello straccio mi fece venire un’idea. – Se vi denunciassi alle giubbe rosse, catturerebbero anche me – sibilai, ceruleo. – Hai sentito dell’attentato a Washington, vero?
– Pettegolezzi da taverna. Che cosa c’entra?
Deglutii a fatica. – Sono stato io. Ho cercato di ucciderlo.
Il timoniere avvicinò il viso al mio. – Davvero?
– Davvero? – ripeté Perez lanciandomi un’occhiata curiosa, pur continuando a stringere il timone con estrema sicurezza. – Tu? Tentato omicidio di George Washington?
– Io e nessun altro, Perez. Non sono un riccone santarellino come pensavi. – Sospirai, passandomi la lingua sui denti insanguinati. – Non dirò nulla se mi porterete a Philadelphia. Si tratta di mollarmi lì e ripartire. Niente di rischioso. Lo giuro.
– Lui? – Sentii il fiato caldo del timoniere sul collo. – L’attentatore a Washington? Cristo santo, Perez, c’è una taglia da cinquemila sterline sulla sua testa. Sarebbe un vero peccato se finisse in pasto ai pescecani, no?
Merda. Forse non era stata la cosa più furba che avessi mai detto, d’accordo. Perez tolse una mano dal timone e se la poggiò sul fianco, voltandosi a guardarmi. – Ti prego – sussurrai tra i denti. Non mi andava di supplicare quel bastardo. – Ti pagherò. Ti darò tutto quello che vuoi, ma non metterti contro di me. – Cercai di sembrare un po’ meno patetico. Semplice, davvero, specie con una minaccia di quel genere.
Perez sospirò, sogghignando mentre le gocce di pioggia lasciavano aderire la camicia al suo petto. – Peccato. Oggi qualche squalo rimarrà senza cena. – Tornò a guardare l’orizzonte con entrambe le mani sulla ruota. – Ripulitelo. E chiudetelo nella stiva. Cambiamo rotta.
Il timoniere fece per trascinarmi verso le scale con un gran sorriso costellato d’oro in faccia. – Non credo proprio, figlio di puttana. – Flettei il polso e la lama celata affondò nel braccio del mio carceriere, che mi mollò imprecando.
– Prendetelo! – strillò, probabilmente stringendosi la ferita con le grosse dita da marinaio.
Volò qualche colpo di pistola e i coltelli vennero tirati fuori dalle bende che li legavano alle caviglie mentre correvo come un matto verso il boccaporto, diretto sottocoperta. – Diavolo! – ringhiai scendendo le scale piegato in due, le mani sopra la testa come per ripararmi dai proiettili. Dovevo sapere e ricordarmi che il piombo è pur sempre piombo. – Non lasciatelo scappare! Voglio la sua dannata testa! – Perez non mollò il timone un attimo, continuando ad urlare mentre faceva virare la nave di centottanta gradi, di nuovo verso New York, suppongo, verso i manifesti con la mia faccia attaccati ai palazzi e una bella taglia su chi mi avesse consegnato vivo – o morto? – alle spalle sanguinanti.
Evitai per un soffio un fendente di coltello che mi arrivò da destra, rischiando quasi di spezzarmi il polso per l’impatto. Avevo un lato scoperto, dannazione, e la mia spada era di sotto. Dovevo prendere le armi e sloggiare. Prendere le armi e sloggiare…
Per andare dove? A nuoto non sarei arrivato da nessuna parte. – Merda! – grugnii spingendo indietro il marinaio con il coltello. Che diavolo potevo fare? Un altro proiettile mi sfiorò il ginocchio, mancandomi di pochissimo. Dovetti ringraziare solo il vento, il rollio della nave e la scarsa visibilità data dalla tempesta.
Afferrai bruscamente l’anello della botola per sollevarla, e il calcio di una pistola – o l’elsa di una spada, difficile a dirsi – mi colpì alla testa. Quando levai lo sguardo, intontito, una figura si stanziava su di me come un boia. E, fidatevi, dopo due impiccagioni sfiorate so di cosa parlo. Non era un uomo, pareva più un gigante uscito direttamente dall’oceano per farmi fuori.
Lo ammetto, forse ho ascoltato troppe storie di marinai.
Non mi feci prendere dal panico e il corpo, dopo quasi quarant’anni di addestramento, reagì spontaneamente. Un attimo dopo la lama celata spuntava dalla schiena del misterioso bestione, macchiando di sangue il pavimento. – Quanta fatica sprecata – brontolai scendendo le scale a tutta velocità.
Essendoci una tempesta pensavo, da bravo figlio di pirata cresciuto tra i gentiluomini e per questo inesperto, che tutto l’equipaggio fosse intento a issare o ammainare le vele ogni due secondi sul ponte. Ovviamente mi sbagliavo. Da dietro una cassa apparve una coppia di giovani mozzi – sui sedici anni – che mi squadravano con incredulità, timore e paura. Probabilmente avevano sentito tutto, ma avrebbero avuto il coraggio di mettersi contro un uomo adulto?
Erano stupidi, giovani e su una nave, lontani da casa, convinti di avere il mondo in tasca.
Che domande, certo che sì.
Il primo scoprì i denti e mi si lanciò contro con un grido che forse voleva sembrare virile. Bastò uno spintone per mandarlo dritto con la testa contro lo spigolo di una cassa, tramortito. L’altro, gli occhi lattiginosi e apparentemente addirittura più giovane, mi squadrava concentrandosi sui dettagli inquietanti, come l’espressione folle che credo di aver assunto in quel momento, la lama celata sporca di sangue e la bocca tesa in una smorfia per il calcio del timoniere. – Prendilo, ragazzo! Ce l’abbiamo in pugno! – gridò qualcuno alle mie spalle. Braccato. Ops.
Sollevai gli occhi al soffitto con un sospiro e feci scattare di nuovo la lama, a mo’ di avvertimento, lanciando un’occhiata al mozzo impaurito. Aveva una spada vecchia, smussata e forse anche un po’ arrugginita pendente dal fianco. Non era la mia spada, ma ci sarebbe stato tempo per recuperarla, una volta ammazzato l’uomo alle mie spalle.
E dopo di lui?, s’intromise una vocetta nella mia testa. Non ci sarà solo questo tizio. Sopra ce ne sono altri quindici, come minimo. Vuoi ammazzarli tutti? Questi qui non sono Assassini o soldati britannici, lo sai? Questi…
Ah, sta’ zitto. Ci penserò quando sarà il momento, intimai respirando piano. Poi mi lanciai in avanti mentre il marinaio gridava, affondando la lama nella coscia del ragazzo. Quello mulinò le braccia cercando di scacciarmi, urlando come una femminuccia per il dolore e la paura, ma tesi violentemente la mano destra e gli strappai la spada dalla cintola, aprendogli uno strappo nella casacca verde stinta dal sole e dall’acqua. Quando mi voltai, un marinaio che non riconobbi mi fissava attraverso quelle due fessure che aveva al posto degli occhi con aria tutt’altro che rassicurante.
Scrollai le spalle. – Lasciami passare o sarò costretto ad ucciderti – sibilai guardandolo di traverso.
L’altro sollevò le mani per mostrarmi la sciabola – non un coltello come gli altri, no, proprio una sciabola – e la pistola. – Accomodati. Non sarà facile come credi.
Sorrisi. – Sai quante persone me l’hanno detto prima di te? – dissi con aria da spaccone. E sollevai la spada un attimo prima che la sua sciabola mi staccasse di netto la testa. Era più bravo di un mozzo e meglio armato. In più aveva doveva essere qualche anno più avanti di me. In un’altra circostanza gli avrei chiesto se avesse imparato a combattere in quel modo sulle navi corsare, ma non mi sembrava il caso.
Non sia mai, magari l’avrei distratto dai suoi estenuanti tentativi di ammazzarmi.
Non avevo scontri con avversari degni di questo nome da una vita, e l’incalzante avanzare della sciabola di quel marinaio mi rendeva nervoso e affaticato, impedendomi qualsiasi reazione. Appena provavo a mulinare la spada per staccargli il braccio della pistola quello tentava un nuovo fendente, che mi ritrovavo a parare all’ultimo secondo con la lama celata in una pioggia di scintille.
Ad un tratto lo vidi chiaramente girarsi la pistola nella mano, reggendola per la canna in modo da usare il calcio come arma. Mi balenò in mente una mezza idea, un po’ rischiosa, certo, ma non mi venne niente di più saggio. Niente che potesse salvarmi.
Attraverso la botola ogni tanto faceva capolino qualche viso più giovane e disarmato. Pensavano che fossi in trappola, e forse non avevano tutti i torti. Però non mi conoscevano. Era quasi ovvio che non avessero fiducia nelle mie capacità, giusto? Alcuni di loro stavano addirittura scommettendo su chi di noi sarebbe sopravvissuto. Idioti, sotto ogni punto di vista.
L'uomo continuava a incalzarmi con violenza, emettendo grugniti gutturali e mandandomi a sbattere contro le casse in equilibrio precario nella stiva ricolma. Era più giovane di me, ma sembrava averne viste davvero di tutti i colori e forse, come tutti gli uomini su quella dannata goletta, non pensava fossi in grado di difendermi. Pensava davvero che avessi fantasia a sufficienza per inventarmi la storiella di Washington, dell'attentato e fossi solo un povero idiota ricco in fuga a Philadelphia per qualche motivo futile? Andiamo. Forse sarebbe stato più intelligente e avrei dato meno nell'occhio, ma no. Non sono così furbo, non sempre.
La mia occasione arrivò non appena il marinaio mi si avvicinò un po’ troppo, tentando di affondare con la mano destra la sciabola nel mio fianco sinistro. Aveva la schiena poggiata contro una cassa piena di gallette, o almeno così diceva la scritta sul vecchio legno mezzo marcio, quindi era letteralmente senza via d'uscita. Colsi al volo quell'attimo di fortuna, ovviamente, lasciando che la lama celata rientrasse nella polsiera e intercettando la sua spada con la mia fino ad incastrarle.
Grugnì. Era in trappola. Senza alcuna esitazione – non potevo permettermene – infilai la sinistra tra le spade incrociate e affondai il dito sul grilletto della sua stessa arma. Il piombo gli s’infilò nello stomaco proprio mentre capiva cos’avevo intenzione di fare.
– Cazzo! – strepitai mollando la spada con uno strattone e correndo ancora più a fondo della stiva, verso la mia cabina, perché si sa, un colpo nello stomaco non ha mai ucciso nessuno. Quante gallette sprecate, merda. – Cristo, Cristo, Cristo. – I cassetti della misera scrivania erano stati rivoltati, la redingote aveva sicuramente le tasche bucate e vuote, ma non avevo tempo per curarmi dei miei soldi. Afferrai cappello, cappotto, le pistole e la spada corta, abbandonata a se stessa sull’amaca che avevo usato per dormire, e corsi di nuovo verso la scaletta, cosciente del fatto che avrei dovuto avere un’altra idea. E alla svelta.  
Stavo correndo alla massima velocità consentita dalle mie gambe verso la prua, rischiando di scivolare ad ogni passo, quando qualcuno capì che ero io il sopravvissuto, voltandosi ad indicarmi con una mano sugli occhi per schermarsi dall’acqua. – Merda! – sentii il grugnito adirato di Perez persino da lì, mentre i tuoni risuonavano in mezzo a quella dannata tempesta che sembrava farsi sempre più forte. Non serviva certo un genio per capire che non sarei sopravvissuto senza una scialuppa degna di questo nome, non in quella situazione.
– Maledizione. – Arrivato sulla prua mi guardai intorno. Niente di utile. Uomini esausti che stringevano le cime e mi indicavano col mento, costretti a scegliere tra la loro sopravvivenza e la mia cattura. Sperai fossero abbastanza egoisti da rinunciare a me, ma avrei comunque dovuto calare una scialuppa fuori bordo. Da solo. Impossibile. – Cazzo – imprecai disperatamente.
In quell’esatto istante il quartiermastro saltò su di me da uno degli alberi, atterrandomi. – Tu non vai da nessuna parte – ringhiò stringendo le mani sulla mia gola. Come aveva fatto a non spaccarsi una gamba? Oh, già, c’era il mio corpo ad attutire. – Io avrò i miei dannati soldi e tu finirai sulla forca. – Una terza volta? Per Dio, sta diventando banale. Perché non si torna alle buone, vecchie e divertenti condanne a morte di una volta? La ghigliottina, o quelle strane gabbie in cui infilavano i pirati. Chissà se tu ci sei mai finito, eh, papà? Non ottenni risposta. Forse era offeso dalla mia stupidità, dato che stavo pensando ad una cosa del genere con le mani di Perez al collo.
– No – replicai con un mezzo sorriso.
– No? – Il quartiermastro sorrise. – Sei in trappola. Non lascerai questa nave, riccone.
La brezza scosse le vele sopra di noi. Erano belle, pensai. Ecco perché ti piacevano tanto. – Mi dispiace – grugnii in quell’istante. Feci scattare la lama, e non ebbe bisogno di sentire altro. Scattò in piedi, essendo disarmato, e io subito dopo di lui, correndo verso il sartiame come un topo che scappa dal gatto, cercando di arrampicarmi sulla coffa.
Devo essere sincero, non avevo letteralmente idea di cosa stessi facendo. Mi bastava stare abbastanza lontano da quel bastardo per evitare i colpi di pistola e pensare a qualcosa di più furbo. Stavo correndo sul fuso di maestra, accovacciato con il fiato grosso, con il vento che minacciava continuamente di farmi cadere rovinosamente sul ponte. Dovevo farmi venire in mente qualcosa, qualsiasi cosa.
E quando un lampo illuminò l’orizzonte, rischiando di farmi cadere per lo spavento, ebbi un’altra idea. Stai scherzando, vero?, replicò subito la voce più sana che mi vagava in mente. È da pazzi. Morirai nel giro di un’ora. Non sai nemmeno dove sia la costa! Guardati intorno! Finirai fritto da un fulmine. Gli squali avranno il pasto cotto e servito su un piatto d’argento.
Scrollai le spalle reggendomi all’albero e guardai sotto di me. Perez mi seguiva con lo sguardo, la pistola puntata e il dito pronto sul grilletto. Dovevo trovare un modo per…
Scivolai su una corda bagnata. A quanto pare il modo aveva trovato me. – Cristo! – imprecai reggendomi con le dita al legno inzuppato del fuso. Le mie gambe penzolavano nel vuoto e sentivo lo sguardo di Perez sulla schiena, pronto a spararmi ad una gamba, come minimo, in modo da potermi tenere a bada. – Forse dovresti stenderti un po’, riccastro – gridò da sotto, la voce divertita e sicuramente un gran sogghigno dipinto in faccia.
Premette il grilletto e pensai che la mia vita sarebbe finita nelle prigioni dell’esercito. Addio sogni di vendetta, addio Mela dell’Eden, il mio sacrificio buttato al vento. Sarei morto miseramente, senza nessuno.
Strinsi la presa sul legno, consapevole che l’impatto col piombo avrebbe potuto scaraventarmi giù dall’albero, ma non arrivò nulla. Solo un’imprecazione tra i denti da parte di Perez. – Porca troia!
E, incredibile ma vero, mi sentivo come rigenerato. Non riuscii a trattenere una risata liberatoria e lanciai la mano sinistra sul fuso per tirarmi su. La polvere s’era inzuppata per la tempesta. Quella pistola era inutilizzabile.
Non avevo tempo per verificare se lo fossero anche le mie sparandogli, anche se mi sarebbe piaciuto. Semplicemente saltai giù dall’albero, atterrando sul ponte nel modo più sicuro possibile, rotolando una volta e sollevano il coperchio di una delle botti piene di polvere da sparo che trasportavamo per vuotarne il contenuto nell’oceano. Era rischioso, sapevo che se un fulmine mi avesse preso sarei saltato in aria come un petardo, viste anche le giunture in metallo che permettevano alle assi di non separarsi l’una dall’altra, ma che alternativa avevo?
Rivolsi un cenno di saluto a Perez, che sollevò lo sguardo su di me continuando ad imprecare contro la pistola, e scavalcai il parapetto con un salto, la botte stretta al petto.
Mentre l’acqua veniva verso di me a velocità folle non potevo non pensare a quanto quell’idea fosse stupida. Eppure non confidavo in quello, per salvarmi. Non del tutto.
Quando ricevetti l’impatto con l’acqua smisi immediatamente di pensare a queste stronzate per concentrarmi su qualcosa di più importante: la mia sopravvivenza. Le onde impetuose mi stavano sbatacchiando da una parte all’altra, stavo a galla solo grazie al barile, la bocca e il naso pieni d’acqua salata e piovana, i colpi di tosse che mi squassavano il petto.
Agitavo istintivamente le gambe, sopraffatto dal terrore di finire sotto la goletta ed essere spacciato per sempre. Aggrappandomi alla botte con tutte le mie forza e battendo piano le palpebre sugli occhi brucianti riuscivo a distinguere alcune figure che si sporgevano dal parapetto della nave per guardare nella mia direzione.
Ce l’avevo fatta. Ne ero uscito vivo. Ero in acqua. Ero scappato. – Vivo – riuscii a sussurrare con la gola in fiamme per il sale e la tosse.
Avrei dovuto avere paura. Certamente. Lì, in mezzo all’oceano, nel pieno di una tempesta, senza una scialuppa, avrei dovuto avere paura di morire sbranato da uno squalo, per ipotermia o semplicemente per annegamento, se quella tempesta fosse continuata.
Eppure non ne avevo. Strinsi le giunture del barile e mi tirai su, sforzandomi di respirare a pieni polmoni. Non era abbastanza grande perché mi ci sedessi sopra, naturalmente, così rimasi con le gambe in ammollo e le nove dita strette nel tentativo di recuperare un battito cardiaco costante. – Non potete lasciarmi morire, giusto? – sussurrai con un gran sorriso, scoppiando in una risata roca. – Io sono la chiave del Grande Tempio, cazzo.
– Umpf – sbuffò Giunone. – Non devi necessariamente essere integro per agire.
– Sei andato a cercare guai, servo della Croce – fece Minerva con lo stesso tono di una maestra spazientita.
Mi sforzai di prendere fiato, respirando a pieni polmoni. Non avevo nemmeno la forza di roteare gli occhi o rispondere con una battuta di spirito. – So che non avrei dovuto, ma era l’unico modo per uscire da quella situazione. Ora, mi servirebbe un favore. E se non siete davvero stupide, direi che avete già capito di cosa si tratta.
– Non siamo qui per obbedire ai tuoi ordini, servo della Croce – bofonchiò Giunone.
– Non è un ordine, solo che sarebbe meglio se arrivassi a Philadelphia alla svelta, sano e salvo, magari con tutti e quattro gli arti e diciannove dita – brontolai con un mezzo sorriso, agitando le quattro dita attorno al rigido moncherino dell’anulare. Non mi ero ancora abituato a quell’affare.
Sentii un sospiro provenire dall’interno della mia scatola cranica. – E va bene. Ottima scelta, Minerva, davvero – fece Giunone scocciata.
– Era l’unica – puntualizzò l’altra.
– Grazie per l’incremento istantaneo di autostima che mi avete procurato, ora, per quel passaggio a Philadelphia?
– Argh, chiudi il becco – ordinò Giunone.
E qualche attimo dopo tutto si fece buio. 
  
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