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Autore: Love_in_London_night    30/04/2014    6 recensioni
Perché la batteria di Shannon si chiama Christine? Pensate tutte a una storia d'amore tormentata, vero? Magari il suo primo amore, o una relazione importante che ha vissuto. Ma siete sicure che Shannon chiamerebbe la sua batteria con il nome di una ex?
Ecco invece come è andata. Una echelon particolare e una storia di salvezza, redenzione e distruzione.
Dalla shot: "«Beh, peccato che io sia qui a tua disposizione ma non possa in alcun modo aiutarti» disse con un sorriso tirato mentre cercava i jeans, dovevano essere nei paraggi. Tutto, pur di liberarsi dallo sguardo interessato di Shannon.
«Non sottovalutarti, Chris. In te c’è qualcosa di speciale, è come se lo percepissi ma non riuscissi a coglierlo appieno». Perché per Shannon lei era sempre stata sfuggente, un po’ come catturare l’aria con le mani. Poteva riempirsene i polmoni e l’anima, ogni fibra di se stesso, ma non avrebbe portato prove di quel passaggio, sarebbe rimasto sempre con i palmi vuoti. Pieno ma senza possedere nulla.
"
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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*
 

Night of the hunter


 
*



Si concentrò sui propri passi. Uno davanti all’altro, sempre più veloci, sempre più ritmici, anche se non poteva sentirli. Le scarpe colpivano l’asfalto con insistenza, aumentando la cadenza. Il ciuffo di capelli seguiva i piccoli sbalzi del corpo, il cuore accelerava i battiti per concedergli una prestazione migliore. Le prime gocce di sudore scesero lungo la schiena per indicare quanto fosse partito in quarta. Il respiro era sotto controllo, per quanto si fosse fatto corto.
Il ritmo di quella corsa stava aumentando, come lui era abituato a fare con la sua batteria durante ogni concerto. Amava entrambe le sensazioni, anche se suonare risultava catartico, mentre correre solo liberatorio.
Appena fuori dal cancello di casa aveva messo le cuffie rosse nelle orecchie per alienarsi da tutto. Prima di iniziare a dedicarsi a se stesso aveva guardato il cielo: nonostante Los Angeles fosse una città luminosa, le stelle che brillavano su di lei la battevano sempre, erano quelle le luci brillanti di cui parlavano in una canzone, i bagliori che non venivano eclissati dalla città che – ai suoi occhi – non si spegneva mai. Inoltre quella sera Los Angeles aveva un colore particolare: oltre le colline alle sue spalle c’era un arancio che ricordava il perenne tramonto che di solito si affacciava sul mare. Un incendio era stato appiccato e le guardie forestali stavano facendo di tutto per domarlo. L’aria della notte era asfissiante, e correre era diventato quasi impossibile, ma a Shannon la sensazione piaceva: la maglietta appiccicata al corpo sudato, il respiro irregolare che non gli permetteva di inspirare a dovere, l’asfalto che veniva colpito con sempre più irruenza, lo spirito che voleva spingersi ad andare oltre. Shannon stava bruciando insieme alla sua città.
La mezzanotte era passata da più di quaranta minuti quando aveva deciso di indossare i pantaloncini corti e le scarpe colorate, ma ne aveva bisogno. Il jet lag lo stava tenendo sveglio insieme ai troppi caffè assunti durante il volo tra una dormita e l’altra, e in quel momento ne stava pagando le conseguenze.
Però amava correre di notte, gli dava l’illusione di potersi muovere senza nascondersi nell’ombra che la sera donava. Il buio lo celava mentre le luci di Los Angeles gli indicavano la via. Voleva provare l’ebbrezza di sentirsi solo al centro del suo mondo, una volta ogni tanto, piuttosto che sentirsi soffocato nelle pareti di casa sua; perché era quello il punto: ovunque, a ogni ora, veniva riconosciuto. Casa sua era diventata il porto sicuro dove rifugiarsi, ma la sensazione asfissiante non passava mai. Voleva dimostrare a se stesso di poter vivere il mondo nel modo in cui preferiva, senza la necessità di nascondersi dietro un paio di occhiali da sole e un cappuccio calato sulla testa, avere la parvenza di scegliere di essere libero e non dipendere dalle scelte degli altri. La casa in cui viveva doveva essere il posto in cui rilassarsi, non quello in cui sfuggire dal mondo. Il luogo in cui sentirsi accolto, non la fortezza della sua personale solitudine, l’esclusione dalla civiltà e la gabbia dorata in cui – come un animale che guardava avido il paesaggio sconfinato davanti a lui – consumava il pavimento a furia di camminare avanti e indietro incattivito dal proprio modo di sottrarsi a ogni sfumatura umana.
In quell’istante, con il respiro spezzato e il sudore che grondava dalla fronte verso il basso, tutto sembrava essere tornato al proprio posto. Nessuna lente scura a dividerlo dal mondo, nessuna persona a farlo sentire in difetto, Shannon sentiva di aver ripreso l’unico briciolo di controllo che aveva sulla propria vita: scegliere volontariamente di stare da solo come un essere umano qualunque, e non come soluzione rispetto all’isterismo altrui.
Quella corsa lo stava riabilitando, nonostante l’odore acre di un qualcosa di carbonizzato che, con le sue zaffate calde, gli bruciava i polmoni e faceva lacrimare gli occhi; la sensazione orribile di non riuscire a effettuare a fondo un respiro, l’odore di qualcosa di incenerito come il presagio di qualcosa di brutto, l'impressione di non avere il controllo sulla propria vita come sul rispettivo inspirare.
Ma Shannon non si fermava: correva, macinava miglia, infilava veloce un passo dietro l’altro per sentirsi vivo, il padrone di se stesso che non doveva far riferimento a nessuno. Il battito cardiaco furioso, i passi pesanti e sicuri, il cuore in gola, le gocce di sudore negli occhi. Occhi brillanti, occhi curiosi, occhi timorosi di essere scorti. E poi capelli bagnati, i vestiti pure, la libertà che pulsava nella vene, il fuoco nei polmoni come nel riflesso del proprio sguardo. La notte lo inghiottiva, lo proteggeva, lo nascondeva nell’unico luminoso sprazzo di normalità di cui era in cerca. Il cacciatore alla ricerca della preda, quella sensazione indefinita che si rincorreva per una vita intera senza nemmeno sapere cosa fosse.
E poi c’era lui, il destino. Quell’aura a tratti sinistra che molti consideravano solo una leggenda, ma che aleggiava intorno alle persone per ricordare loro che, in fin dei conti, non avevano davvero potere sulle proprie scelte, e nemmeno Shannon era esente da questa mano invisibile che  si muoveva sopra la sua testa.
La sua corsa si interruppe di colpo dietro un angolo.
Il torace che si alzava in modo convulso per inglobare ossigeno si era scontrato contro qualcosa di duro, e tutto era iniziato così, per caso, come il destino aveva voluto e manovrato.
Quando si rese conto dell’urto e prese coscienza di aver colpito una persona cercò di darsi un contegno e aprì gli occhi. Davanti a lui c’era una ragazza con il sedere per terra e le braccia davanti al viso come scudo.
«Ti prego! Non farmi del male!»
Era terrorizzata, lo scontro l’aveva fatta scivolare indietro di un pezzo, facendole grattare il corpo contro l’asfalto che aveva graffiato gran parte della pelle. Shannon le era andato addosso con tutta la sua forza e la velocità della corsa. Il fiato mozzato per il colpo, la paura di averle fatto male.
Il respiro davanti a quella vista aveva iniziato a farsi regolare, ma il cuore non voleva saperne di tornare a una frequenza normale, non poteva: la tecnica del cacciatore era insita in lui, e sentire l’odore della paura aveva stimolato la sua eccitazione. Cacciare voleva dire sfruttare le debolezze altrui ma, soprattutto, che la preda non eri tu. Era sempre meglio stare dalla parte del più forte, anche se voleva dire predare e dover essere crudele.
Era troppo tardi per lei, perché l’istinto selvaggio di Shannon aveva avuto il sopravvento: nel suo fuggire aveva trovato il motivo per non scappare più, tra le mani gli era capitata la vittima perfetta per fargli dimenticare che sul proprio destino non aveva poi molto potere; tanto valeva esercitarlo su qualcun altro.
«Non voglio farti del male». Prima di tutto era necessario conquistare la sua stima. Rendersi innocuo agli occhi degli altri l’avrebbe reso degno della fiducia altrui, sarebbe stato più facile manovrare la preda per convincerla a seguirlo nella sua tana. «Stavo correndo e non ti ho vista, mi spiace averti travolta»
«Tu vai a fare jogging in piena notte? Seriamente?» la ragazza aveva tolto le braccia dal viso, colpita dal tono sincero dell’uomo davanti a lei, e stupita da ciò che le sue orecchie avevano sentito.
«Mi rilassa».
La verità era che non c’era un momento perfetto per fuggire, soprattutto se cercava di allontanarsi da se stesso.
«Vieni, ti aiuto ad alzarti». Le porse una mano callosa per fare in modo che la ragazza si appigliasse a lui, il primo contatto offerto con finta noncuranza. In realtà era un modo implicito di far capire chi controllava la situazione, chi soccorreva e chi aveva invece bisogno d’aiuto, una distinzione dei ruoli così impercettibile da passare inosservata, perché nessuno in quel momento avrebbe pensato che Shannon – con quel semplice gesto – sapesse con certezza che il tocco caldo e sicuro di una mano ferma avrebbe indotto una ragazza a fidarsi di lui. A torto.
Lei fece per porgergli la mano ma la vide insanguinata. Girò entrambi i palmi su cui era atterrata e scivolata per accorgersi che erano solcati da tagli provocati dall’attrito con l’asfalto ruvido del marciapiede.
Una preda impaurita e ferita, una persona che aveva solo bisogno di essere rassicurata e coccolata. Un predatore sapeva sempre come agire e rapportarsi con chi gli stava davanti, era in grado di adattarsi alla situazione per portarla a proprio vantaggio.
«Come ti chiami?»
«Christine» rispose lei dopo aver soppesato le proprie parole, indecisa se esporre una parte di sé o meno.
«Bene, Christine» sottolineò il nome mentre continuava a tenere la mano protesa verso di lei affinché la usasse come appoggio, Shannon voleva che si fidasse di lui. «Cosa ne dici di medicare quelle ferite? Abito qui vicino».
Lei lo valutò con lo sguardo ancora impaurito che piano si trasformò in un’occhiata ostile. I suoi occhi scuri erano sempre stati diffidenti, ma avevano cercato di celare la scontrosità con cui si presentava sempre, come se gli atteggiamenti non l’avessero resa palese con i soli gesti.
«Avanti» Shannon mosse le dita per invitarla. «Ho un kit di primo soccorso che deve essere inaugurato».
Christine alzò gli occhi al cielo e, ormai rassegnata, usò la mano del batterista protratta davanti al suo viso per alzarsi dal marciapiede.
Nel mettersi in piedi si accorse che anche le cosce scoperte erano escoriate a causa della frizione con l’asfalto. E lei, come stava? Persa.
Nelle mani di uno sconosciuto che non voleva aggredirla, che l’aveva quasi tramortita per sbaglio. Estranea in una città ignota, senza identità e con la voglia di inseguire solo se stessa. La paura di chi non sapeva cosa fare e a chi affidarsi, ma il disperato desiderio di abbandonarsi a qualcuno.
«Quindi te ne vai in giro di notte per Los Angeles e poi al primo disguido ti terrorizzi?!» Shannon sorrise, aveva iniziato a camminare verso casa lasciando perdere l’urgenza che prima l’aveva spinto a correre, e Christine lo seguiva.
Era caduta nella sua trappola, il cacciatore stava portando il suo bottino a casa. La preda stava andando con le sue stesse gambe verso il patibolo.
«Sto esplorando la città, sono nuova… Avevo voglia di camminare un po’. Quando ci siamo scontrati ho pensato di essere incappata in un criminale o un assassino».
Shannon ampliò il proprio sorriso soddisfatto, quelle parole gli fecero capire che ormai non lo considerava più un pericolo, la vittima aveva abbassato la guardia e lui affilato lo sguardo felino.
«Su, Christine, raccontami un po’ di te e del perché sei arrivata nella città degli angeli». Far parlare per non dover svelare nulla di sé e creare empatia, ecco cosa serviva per far sì che la preda cadesse nel tranello con le sue stesse azioni.
Peccato che la caccia di Shannon fosse solo all’inizio, e nemmeno lui avrebbe potuto sapere che si sarebbe ripercossa su di sé.

 
 
*

 
Bright lights
 
 
*


Christine. Da vittima a persona nel tragitto che li aveva portati dallo scontro a casa di Shannon.
Era una tatuatrice arrivata da poco a Los Angeles per aprire il proprio studio. Aveva detto che adorava aiutare la gente a marchiare le proprie memorie. Non era mai stata brava con le parole, così aveva deciso di rendere eterne le sensazioni e le cose importanti con un qualcosa di impatto e definitivo come i tatuaggi: era brava a tradurre in immagini le emozioni. La gente parlava e raccontava cosa voleva rappresentato, lei prima lo disegnava, cercando di inserire le cose più personali e rispecchiare al contempo l’idea che le era stata proposta, poi impugnava l’ago e lo rendeva reale e sempiterno.
Shannon rimase colpito, perché per lui era la stessa cosa con la musica. Era una qualcosa di personale che voleva arrivasse ai più.
Christine non era indifesa come voleva far credere, forse perché in lei si era rispecchiato parecchio. Era in giro per Los Angeles da sola – di notte – a piedi proprio per trovare una dimensione per se stessa. Se per gli altri era facile trovarlo in un tatuaggio, a lei non bastava, cercava qualcosa di intimo e personale che la riflettesse. Aveva seguito un odore dolciastro di fiori d’arancio nell’aria per poi rincorrere le luci fievoli delle ville illuminate del lungo boulevard. Si era lasciata trasportare dalla luminosità dell’incendio, abbandonando i neon di Los Angeles alle proprie spalle.
Quando lui le domandò il perché di tutto ciò, lei rispose che la paura che scaturiva da una situazione di pericolo – come un incendio – che faceva scappare tutti, la attirava più di ogni altra cosa. Amava ammirare la gente e i suoi comportamenti, non si sarebbe persa l’occasione di poter assistere a una simile scena.
Era il pericolo ad attrarla, aveva detto, e forse era stata proprio quello a portarla a seguire Shannon; la stessa persona che gli aveva detto di essere un batterista alquanto famoso, ricevendo in risposta un semplice ‘Mi sembrava di averti già visto da qualche parte’.
E lui, quasi offeso, l’aveva invitata a documentarsi, perché dopo la descrizione che Christine aveva fatto di se stessa sapeva che avrebbe potuto ritrovarsi nella loro musica. Di sicuro in qualche testo, piuttosto che in qualche battito della sua batteria. O così sperava.
Legati da un ritmo primordiale che entrambi percepivano senza dover trovare le parole giuste.
Questo l’aveva resa più umana ai suoi occhi, un errore che raramente si era ricordato di compiere, era arrivato il momento di recuperare al proprio sbaglio e ricordarsi perché l’aveva portata con sé.
Erano arrivati a casa e le aveva disinfettato prima le mani e poi il retro delle cosce. Sui palmi si era soffermato il giusto tempo, quello adatto per medicare le escoriazioni e purificarle a dovere, un altro discorso era stato riservato alle gambe.
L’aveva ammirata poco dopo il momento in cui si erano scontrati e durante il tragitto verso casa sua: gli piaceva ciò che vedeva. Le gambe non molto lunghe ma tornite che gli shorts strappati lasciavano scoperte, il seno abbastanza accennato che sbucava dalla canotta bianca, arrivando poi al viso, con due occhi scuri e dal taglio particolare che lo facevano risaltare anche se a circondarlo c’erano dei normalissimi capelli castani.
Ecco perché l’aveva trascinata dove sapeva di essere in vantaggio, perché la voleva; dare sfogo al suo lato animale per dimostrare di essere il dominatore della situazione, colui che – se voleva una cosa – se la prendeva senza tante cerimonie.
Doveva ristabilire l’ordine del proprio mondo, Christine era stata soltanto l’ostacolo sul percorso e il mezzo stesso con cui arrivare alla propria soddisfazione, la meta ultima di Shannon.
«Grazie». Aveva mormorato la ragazza dopo che il batterista si era preso cura della sua pelle lesionata, ma tutto era degenerato dopo poco.
Le mani dalle cosce erano scivolate sicure verso i glutei, stringendo la presa.
Christine aveva spalancato gli occhi e deglutito in modo rumoroso, colta dalla sorpresa; aveva provato a rispedire il cuore al suo posto, ma questo non ne voleva sapere di schiodarsi dalla gola. Shannon la fissava serio nello specchio davanti a loro, giocando con i suoi riflessi per confondere quello che erano da quello che, in realtà, pensavano di vedere.
Nel riverbero degli occhi di Christine lesse la paura, infine sentì il suo corpo irrigidirsi sotto il proprio tocco.
La paura e il pericolo erano diventati eccitanti e suadenti, odori e vibrazioni tangibili nei gesti di Shannon che, in estasi nel vedere il terrore della propria preda, aveva continuato imperterrito la sua conquista. Una mano era scivolata dal sedere fino al seno, stringendolo con forza. Aveva spostato lo spallino della canotta per farlo cadere senza vita sul braccio di lei.
Christine, con le braccia tese in avanti e le mani avvolte attorno allo schienale della sedia che aveva usato fino a prima come un sostegno per agevolare il lavoro al proprio salvatore, era sbiancata. La stessa persona che si era offerta di curarla si era rivelata un aguzzino, il cacciatore dagli occhi innocenti e brillanti che nascondevano solo la voglia di possedere e dichiarare la propria superiorità.
La lucentezza di quello sguardo così limpido conteneva – in realtà – lussuria e malizia, e solo nel riflesso dello specchio quelle sfumature erano diventate palesi.
‘Non faccio mai niente per niente’ le aveva detto prima. Una frase inserita in tutt’altro contesto, un pensiero innocente che di ingenuo non aveva nulla.
Christine aveva accarezzato la figura di Shannon con lo sguardo durante il loro scontro, e le era piaciuto. Era innegabile che fosse un bell’uomo e capace nel sedurre le donne, ma mai si sarebbe aspettata tanta meticolosità nel chiuderle in un angolo per farle sentire in trappola e, infine, farle cedere sotto la propria autorità.
Animalesco. Brutale. Insulso nel suo essere fine a se stesso.
Perché era chiaro: Shannon voleva del sesso, e lo voleva subito. Non a ogni costo, ma quasi.
La ragazza sentiva il sangue ribollire nelle vene. Lo percepiva scorrere, defluire veloce al contrario dei pensieri che piano le facevano capire perché si fosse ritrovata in una simile situazione, ma soprattutto la ragione per cui l’aveva seguito fino a casa sua. Sapeva in cosa poteva incorrere, e l’aveva accolto a braccia aperte.
Il pericolo che andava cercando l’aveva trovato in lui.
La paura si stava trasformando in eccitazione, il sangue fluiva veloce come il suo battito accelerato; lo sguardo di Shannon, sempre più insistente e deciso, la spogliava come stavano facendo le sue stesse mani.
Sapeva di avere due alternative: o cedere e partecipare per giovarne lei stessa, o arrendersi e soccombere agli eventi.
L’aveva fatto per ventotto anni, era giunta l’ora di voltare pagina e condurre un gioco che non aveva speranza di dominare, ma sapeva che anche il solo fare un tentativo ne sarebbe valsa la pena. Shannon sapeva quello che faceva, tanto valeva affidarsi a lui e ricambiare il trattamento con lo stesso favore.
Christine non poteva essere una delle gattine che il batterista raccoglieva per locali, lei era una tigre e le tigri graffiavano, lasciavano il segno.
Aveva preso la decisione di partecipare per rendere quel sesso memorabile, non sarebbe stata la preda del cacciatore, ma la complice di quella carneficina.
Tolse le mani disinfettate dallo schienale delle sedia e si mise davanti allo specchio, negli occhi un’espressione di sfida che cercava anche nello sguardo di Shannon. Con lentezza era riuscita ad abbassare l’altro spallino della canottiera, poi era scesa alla zip degli shorts abbassandola e mostrandogli così gli slip neri.
Shannon sorrise famelico, stava ottenendo ciò che voleva. Chistine stava partecipando, ma lasciava a lui la conduzione del gioco. Si era spogliata ma voleva che fosse a lui a finire l’opera così come l’aveva iniziata. Come se fosse stato necessario per lui svestirla prima di fare sesso.
L’aveva raggiunta con passo deciso e un sorriso arrogante dipinto sulla faccia, il vero riflesso della sua soddisfazione, per poi posare la mani vigorose sul seno per liberarlo dalle coppe. Le aveva levato il reggiseno con gesti esperti e sicuri per poi scendere con le dita oltre gli slip.
Le aveva fatto appoggiare i palmi rigati contro la cornice di quello specchio che rifletteva le loro figure per intero prima di continuare ad abbassarle i pantaloncini verso le caviglie.
Aveva iniziato a baciarle il collo e premere l’eccitazione contro il suo sedere, il lampo di timore e incertezza negli occhi di Christine aveva reso il tutto ancora più stuzzicante per lui, poi le aveva sussurrato all’orecchio una frase roca e felina che la fece rabbrividire.
«Guardami nel riflesso, non provare a girarti».
Christine seguì il suo consiglio, cercò i suoi occhi dentro lo specchio e si perse in quei riflessi brillanti come le luci che si potevano osservare oltre la vetrata vicina a loro, se fossero stati in grado di staccarsi dallo sguardo dell’altro.
Shannon era stato catturato dagli occhi neri di Christine. Grandi e scuri come la notte in cui si erano incontrati, avevano al loro interno gli scintillii dei lampioni di Los Angeles, e lui non si era mai soffermato a fissare gli occhi a una donna, né prima né durante il sesso.
Il predatore catturato dalla sua stessa caccia, nessuno l’avrebbe mai detto.
Tutto, d’improvviso, era diventato confuso.
I tempi, da prima dilatati mentre si studiavano, erano diventati frenetici.
Odore contro odore, pelle contro pelle. Mani che scivolavano, stringevano e rubavano piacere. Un respiro, lo sfregamento di due corpi che si muovevano insieme.
Un gemito, i movimenti sempre più ritmici e violenti. I battiti accelerati, gocce di sudore lungo la schiena, e poi loro, gli occhi, lo specchio.
Un urlo strozzato, l’aggressività con cui Shannon era rimasto dentro lei, il suo percorrere la nuca di Christine con la lingua mentre veniva in lei nonostante il preservativo.
La soddisfazione di quella scopata in piedi così esplicita, così rude e brutale da essere stata godibilissima. Nessun fronzolo, solo sesso. Non c’era stato alcun fraintendimento a riguardo, Christine non si aspettava parole dolci e storie d’amore, era arrivata lì con lui con la sua stessa idea. Piacere puro e semplice.
«Mi è sempre piaciuta Los Angeles» gli disse nel rimettersi i pantaloncini di jeans nel gesto più asettico che le fosse mai uscito, osservandola fuori dalla grande finestra davanti a sé.
«A me piacciono le sue luci». Le stesse che aveva ritrovato nello sguardo di lei durante il sesso. Scintillii e bagliori che lo avevano attratto come calamite. Luminescenze nell’oscura solitudine di cui si circondava.
Era inarrivabile Shannon. Viveva per correre, l’avevano detto in una canzone lui e suo fratello.
In quella canzone che sapeva così tanto di sé.
La fuga da tutto, ma soprattutto da se stesso; poi aveva scorto un bagliore nello sguardo di lei e si era ritrovato.
Shannon era tornato se stesso. Passare la notte con Christine aveva ristabilito il proprio equilibrio interiore, mettendo così a tacere i dubbi e le incertezze che in lui si erano fatti strada qualche ora prima. Christine era stata la sua corsa più soddisfacente.
L'ebbrezza del battito accelerato, il sudore dello sforzo e la soddisfazione dell'atto che fino a quella sera aveva rincorso e mai provato.
Si erano guardati meno ostili, come se il sesso avesse sgonfiato la bolla di tensione tra loro. Shannon si era proposto di accompagnarla a casa, non gli piaceva l’idea di lasciarla vagare sola nella notte, non poteva sapere chi avrebbe incontrato.
Christine l’aveva ringraziato e, una volta a casa, gli aveva promesso di dare una possibilità ai Mars, dato che lui nel tragitto verso la propria villa si era premurato di farle conoscere il gruppo.
Si sorrisero, e dopo che Christine aveva girato le spalle all’auto ognuno aveva ripreso la propria vita, intento a percorrere le rispettive vie senza essere d’intralcio all’altro.
Nella mente di lui due occhi più luminosi dei fari che illuminavano la strada del ritorno, nel cuore di lei la sensazione di essere stata accolta e capita senza dover parlare. Sensazioni che avrebbero portato per sempre con loro, ma che non avrebbero portato ad altro rispetto a quello che era già successo.
 
 
Las Vegas, tre mesi dopo
 
 
«Ma  guarda chi c’è…» il sorriso soddisfatto sulla faccia, gli occhi famelici nascosti dagli occhiali da sole scuri e le braccia incrociate al petto.
Un sussurro più rivolto a se stesso che a Jared e Tomo lì vicino.
Si sarebbe aspettato di tutto, ma non di trovare certe persone al meet&greet.
Christine scosse la testa e alzò gli occhi al cielo mentre si sistemava accanto ad altre echelon nella stanza del meet. Aveva cercato di camuffarsi di lato, verso il fondo, ma le lenti nere permettevano a Shannon di scrutare ogni volto, impossibile non riconoscere quello di lei. Nonostante non avesse più la frangia a incorniciare gli occhi e qualche ciuffo azzurro tra le punte dei capelli che prima non c’era, era impensabile non riconoscerla.
Spiccava tra la folla, gli occhi neri e brillanti la indicavano tra le altre persone, era impossibile per Shannon non riconoscere una persona istintiva e animalesca come lui, l’elettricità tra loro due era quasi palpabile. Gli sembrava di sentire il suo odore fino a lì, nonostante l’altra gente e il caffè che si era portato con sé che gli solleticava con insistenza le narici. Era l’odore del sesso che avevano fatto tre mesi prima senza risparmiarsi, e lo stava inebriando.
«Conosci qualcuno?» Jared glielo chiese mentre approfittava del caos delle persone che prendevano posto, lo sguardo interessato. Suo fratello non mostrava mai attenzione ai meet, faceva presenza e ringraziava i fan per essere lì, quel sorriso così compiaciuto era una reazione del tutto inaspettata.
«Circa».
Jared non aggiunse altro, il tono così evasivo e soddisfatto del fratello gli dicevano molte più cose della sua stessa risposta e sapeva per certo di non voler indagare oltre, certe cose dovevano restare personali.
Nel tempo dell’incontro la vide sistemarsi i capelli in uno chignon disordinato, poi ridere a una battuta di Jared, soffermarsi su Tomo con tenerezza e qualche sguardo sfuggevole rivolto a lui. Era strano, ma sapeva con sicurezza che Christine era lì per godersi l’esperienza con i Mars, non lui.
«A cosa devo questo onore?» le domandò avvicinandola con una scusa. Era difficile farle complimenti per i tatuaggi dato che – nonostante il suo lavoro – non ne aveva, impossibile farle notare quanto i suoi occhi facessero brillare la stanza perché avrebbe voluto dire sminuire le altre donne all’interno, quindi aveva optato per una battuta in pubblico riguardo i suoi capelli colorati e poi si era avvicinato per far finta di osservarli. A chi importava di qualche ciocca azzurra quando c’era quel richiamo primordiale che li attirava l’uno verso l’altra?
«Volevo dirti che ho ascoltato i vostri album… E mi piacete. Avevi ragione. Mi ritrovo molto in alcune vostre canzoni, è pazzesco!» disse lei concitata ma sottovoce, erano cose così intime che non le piaceva affatto che qualcuno potesse sentirle. «Mi sono informata su di voi, e ho scoperto che l’unico modo per parlarti e dirti che – purtroppo – avevi ragione era questo. Inoltre ero curiosa di vedere di persona Tomo e Jared, lo ammetto»
«I Mars al tuo completo servizio» rise Shannon prima di levarsi gli occhiali da sole.
«Più o meno»
«Soddisfatta?» di cosa poi? Non lo sapeva nemmeno lui.
Non aveva ripensato a Christine, ma non l’aveva dimenticata. Ritrovare il suo profumo così vicino era diventata una cosa terribilmente famigliare in così poco tempo.
«Sì, direi di sì»
«Quindi potresti concludere qui la tua esperienza?»
«Mai!» e fu il suo turno di ridere. «Non prima di aver fatto la foto con Tomo».
Shannon alzò gli occhi al cielo, ma quando fu il turno della foto di Christine abbracciò davvero il chitarrista, ferendo l’altro nell’orgoglio.
Prima che potesse allontanarsi per concludere quell’esperienza al meglio, esattamente come se l’era immaginata, il batterista l’aveva chiamata con un filo di voce nel tentativo di passare inosservato.
«Dopo il concerto ti va di fermarti un po’ con me o devi tornare a casa con qualche tua amica?»
«No, sono qui sola».
Lo sapeva, si percepiva. Christine non aveva amici a Los Angeles, né aveva interesse a farsene. I parenti erano rimasti in Arizona, e a lei stava bene così. Era sola e ben conscia di esserlo. Solitaria e amante della solitudine, con un’aura così malinconica che attraeva gli occhi dei più attenti osservatori a circondarla. Quando per strada la incontravano, la gente che la guardava aveva la sensazione di ammirare un dipinto schizzato dall’acqua, chiazze che si dissolvevano con lentezza; il disegno nell’insieme veniva colto ma non era permesso catturarne i dettagli.
Christine era sfuggente, era questo ad attrarre Shannon così tanto.
«Torni a LA o ti fermi? Ti va?» aveva irrigidito la mascella, non gli piaceva ripetersi né tantomeno mostrarsi interessato e vulnerabile, come Jared non era abituato a pregare le persone.
Lei sorrise rilassata. «Mi fermo».
Shannon le aveva lasciato il braccio e aveva visto gli occhi della ragazza perdere un po’ della loro luminosità. Sapeva cosa voleva l’uomo, non aveva lasciato margine alcuno affinché Christine potesse illudersi, anche se cercarla una seconda volta aveva lasciato adito a quella brace di speranza che dentro di lei si stava animando con incoscienza.
 
L’aveva trascinata nella propria camera d’albergo e, senza darle il tempo di adattarsi a quell’ambiente nuovo, aveva iniziato a baciarle il collo. Senza grazia le aveva sfilato la maglietta e l’aveva liberata dei jeans, inutili per quello che dovevano fare.
Aveva fatto di tutto per farla sospirare, gemere e ringhiare contro di sé, adorava sentire il potere che aveva su di lei, sul suo piacere.
Si erano ritrovati dopo tempo nel letto, esausti vista la giornata piena per entrambi.
Qualche morso nella pelle, dei graffi sparsi sulla schiena piuttosto che sulle braccia, i sorrisi soddisfatti e stanchi.
Christine si era alzata per andare un attimo in bagno, e nel tornare aveva recuperato i propri vestiti abbandonati lungo tutto il pavimento della stanza. Trovò la propria maglietta ai piedi del divano, stava per tornare da Shannon quando sul tavolo vide dei disegni fatti a computer di una batteria. Sembravano schizzi fatti da grafici professionisti. Su tutti c’era qualcosa di diverso, ma erano accomunati dalla mancanza di un disegno sulla grancassa, e lei non ne capiva il perché.
«Pensavo te ne fossi andata» esordì Shannon raggiungendola nel salotto arioso della stanza e sedendosi accanto a lei sul divano.
«No, non ancora. Ero venuta a recuperare la maglietta, poi ho visto i disegni e mi ci sono soffermata. Sai, deformazione professionale suppongo». Alzò le spalle come a giustificarsi. «Come mai, a proposito?»
Aveva sventolato i fogli sotto il naso del batterista per rendere chiaro il concetto.
«Perché tutte le relazioni devono finire prima o poi, ed è giunto il momento che Steffy lasci il posto a qualcuna di nuova».
Per la prima volta negli occhi neri di lei era passata un’espressione di puro stupore. Steffy? Relazione? Cosa c’entrava tutto quello con la batteria?
Non aveva preso in considerazione l’idea che potesse essere fidanzato, soprattutto perché non avrebbe voluto cacciarsi in situazioni sgradevoli o complicate. Che razza di uomo era uno che cercava più volte del sesso da una ragazza quando invece era legato sentimentalmente a un’altra?
«Steffy?» non era stata esaustiva come nella propria mente, ma tutto si riduceva a quel nome.
«Sì, la mia vecchia batteria. Vedi qui» e le mostrò il foglio. «Ci sono più spazi bianchi. Questo perché non so che disegno mettere sulla grancassa, e il disegno dipende dal nome che darò alla batteria»
«Cioè… Tu dai un nome a uno strumento musicale?»
«Certo, perché per me non è solo quello». Aveva risposto pacato, come se la cosa fosse normale.
«Steffy era una echelon. Siccome ti sei documentata su di noi penso che sappia di cosa sto parlando».
Aspettò di vederla annuire prima di continuare.
«Una ragazza carinissima, sempre pronta ad aiutare gli altri»
«Ti sei scopato anche lei?» chiese più interessata che irritata dal fatto.
Shannon rise. «No, non rientrava proprio nei miei canoni. Diciamo che con carina intendo bella persona, non riguardava affatto l’aspetto. Fatto sta che Steffy era fortissima. Ci seguiva ovunque, mi adorava… Era sempre presente per noi, e noi lo eravamo per lei. Per come potevamo, logico».
Era perso nei propri pensieri. «Ha scoperto di avere il cancro e l’ha sconfitto. Poi nel suo periodo di regressione, i cinque anni postumi all’operazione, il tumore è tornato e non ce l’ha fatta»
«Mi dispiace» sussurrò Christine rapita dalla triste storia di quella ragazza.
«No, non esserlo. Steffy era una forza della natura. Fino a quando ne ha avuto le energie ha aiutato un mucchio di persone a realizzare i propri sogni, mentre lei rincorreva i suoi. Ci ha sempre mandato mail per tenerci aggiornati: faceva viaggi, esperienze, donava soldi ai meno fortunati e ha pagato un paio di meet ad altra gente. Sulla mia grancassa c’erano le foto sue e degli echelon per questo, perché erano molte delle persone che lei aveva aiutato, perché lei incarnava il significato migliore che rappresenta la parola echelon per noi Mars. Era un tributo a lei e alla sua storia. E ora sono alla ricerca di un nuovo nome, di una nuova storia da raccontare. Un significato e un simbolo per la nuova batteria che le si addicano».
Qualcosa nella mente di Christine era scattato: non solo aveva sentito Shannon fare un discorso lungo, dato che non avevano mai parlato molto e non si erano mai dilungati, ma l’aveva percepito umano e vulnerabile. Inoltre la storia di Steffy l’aveva colpita parecchio, non credeva che il batterista potesse legarsi così tanto a una fan fino al punto di condividere con lei una cosa importante come la sua batteria. Perché l’aveva capito, non era solo uno strumento, ma una parte integrante di lui  e arrivare alla batteria voleva dire arrivare a Shannon stesso, conquistare un posto nella sua vita che valeva molto di più di ogni scopata e forse di qualsiasi relazione che potesse intrattenere con una donna.
E Shannon la stava guardando con nuovi occhi, lo percepiva. La scrutava alla ricerca di un qualcosa che potesse renderla meritevole di un tale onore, come se il suo essere solitaria fosse un buon punto di partenza. Voleva scoprire cosa ci fosse dietro quegli occhi luminosi e tristi, cosa nascondesse dietro un cammino percorso in compagnia di se stessa.
No, Christine non poteva reggerlo, non era pronta a tanto, né tantomeno aveva qualche qualità nascosta che potesse tornare utile a Shannon. Era se stessa: noiosa, misantropa e un po’ scura, le luci che le brillavano attorno si riflettevano sull’oscurità che la circondava senza mai riuscire a scalfirla davvero.
«Beh, peccato che io sia qui a tua disposizione ma non possa in alcun modo aiutarti» disse con un sorriso tirato mentre cercava i jeans, dovevano essere nei paraggi. Tutto, pur di liberarsi dallo sguardo interessato di Shannon.
«Non sottovalutarti, Chris. In te c’è qualcosa di speciale, è come se lo percepissi ma non riuscissi a coglierlo appieno». Perché per Shannon lei era sempre stata sfuggente, un po’ come catturare l’aria con le mani. Poteva riempirsene i polmoni e l’anima, ogni fibra di se stesso, ma non avrebbe portato prove di quel passaggio, sarebbe rimasto sempre con i palmi vuoti. Pieno ma senza possedere nulla.
«Non rimani a dormire? Sono passate le tre di mattina e non hai riposato, non mi piace l’idea che tu ti metta alla guida da sola per un viaggio così lungo».
Christine alzò gli occhi al cielo, non voleva dimostrargli quanto in realtà la premura di Shannon le avesse fatto piacere, perché quella sera aveva capito quanto lui stesse diventando importante; in che modo non era chiaro nemmeno a lei.
«Ok cowboy, mi fermo a dormire, ripartirò domattina».
Si incamminò verso la stanza ostentando una disinvoltura che i loro precedenti dialoghi non le conferivano più, ma Shannon la fermò mettendole un braccio attorno alla vita.
«Grazie» fu il sussurro roco e rasserenato di lui.
Christine gli accarezzò una guancia, poi con lentezza avvicinò le labbra a quelle dell’uomo, accarezzandole piano per paura di sentirlo scappare.
«E questo?» era sorpreso e intimorito, un gesto così dolce tra loro era una novità.
Christine sorrise triste. «Niente, solo una mia debolezza. Non ci eravamo mai baciati. ‘Notte Shan».
Era vero, ore passate a scoprire i rispettivi corpi, catturare ogni gemito e a scatenare ringhi di piacere, ma mai si erano concessi un contatto così intimo.
Una debolezza che non potevano permettersi, la prima crepa in muri costruiti con sapienza dietro i quali entrambi si erano trincerati.
Gli occhi di Christine non era mai stati più brillanti e più letali.
Si era addormentato con i loro riflessi dentro le palpebre e solo la mattina aveva aperto i propri, quando l’aveva sentita prepararsi per andarsene.
«Scappi?» una sfumatura diversa in quella parola nascosta dalla voce impastata dal sonno e celata dagli occhi gonfi.
«Sì, oggi devo essere in studio, ho un po’ di appuntamenti e disegni da abbozzare». Rispose facendogli capire che non aveva colto il riferimento a una sua ipotetica fuga da quella situazione incasinata.
«Cosa ti spaventa?» nemmeno Shannon si rendeva conto di aver domandato una cosa così importante.
«I serpenti, le rane e gli orsi, ma soprattutto i serpenti, sì» replicò pronta lei, anche se quella domanda non aveva senso alle sue orecchie, esattamente come la sua risposta a quelle del batterista.
«Ci rivediamo?» cercava di far violenza sui propri sensi affinché divenissero ricettivi nel minor tempo possibile, con scarsi risultati.
«Prima di quanto tu creda». Sorrise Christine dalla porta della camera da letto. «Ci sono altre occasioni come questa che si possono sfruttare»
«Se mi stai dicendo che hai preso qualche altro meet sappi che posso chiedere alla ragazza che gestisce i dati quelli di oggi e quelli delle date dei posti vicino a Los Angeles, ti ricordo che lavora per me!» urlò sdraiandosi di nuovo.
«Ciao Shannon, a presto».
 
E così aveva fatto davvero. Era corso da Reni per farsi dire il cognome di Christine e si era fatto anche consegnare i nominativi dei partecipanti ai meet&greet di Phoenix, San Diego, San Francisco e Los Angeles. Avrebbero concluso il tour all’Hollywood Bowl a ottobre, e sull’elenco stampato dalla sua collaboratrice campeggiava nero su bianco il cognome di Christine.
Avrebbe dovuto aspettare altri cinque mesi.
L’idea di rubare il numero di cellulare di lei l’aveva sfiorato, era curioso di sapere come se la cavava e cosa faceva durante le sue giornate, ma non voleva darle un falsa speranza, perché la sua curiosità era fine a se stessa, forse c’era una punta di preoccupazione per quella ragazza che attorno a sé aveva un’aura così distruttiva; di sicuro non voleva complicare la situazione agli occhi di lei e illuderla, quindi aveva desistito.
Anche se in google aveva cercato il suo studio di tatuaggi, trovandolo in West Hollywood nelle mappe. Forse un giorno se ne sarebbe fatto fare uno da lei.
I mesi erano passati lentamente, la tappe del tour l’avevano portato in giro per il mondo e in diversi letti. Le distrazioni erano tante e lui era sempre disposto a cedere, non opponeva mai resistenza davanti a una bella donna.
Eppure era tornato a Los Angeles con il sorriso. Aveva sì voglia di fare un concerto grandioso all’Hollywood Bowl, era la sua caratteristica dare il meglio di sé durante i live, ma in quell’occasione sentiva il bisogno di essere partecipe anche al meet. Era su di giri e non era colpa del caffè.
La sera prima era uscito a cena con amici e aveva trovato confortante poter osservare le luci scintillanti di Los Angeles, aveva trovato in quei colori qualcosa di famigliare e intimo da ricollegarlo subito a Christine. Non sapeva se l’avrebbe convinta ancora ad andare via con lui, non era sicuro fosse solo questione di sesso la sua attrazione mentale, anche se non c’era amore; aveva solo voglia di rivederla. Tornare nella propria città e vedere un volto conosciuto era sentirsi a casa per lui, e ritrovava queste sensazioni in Christine.
Per questo, quando con lo sguardo famelico aveva fissato ogni volto all’interno della stanza nella speranza di ritrovare il suo, c’era rimasto male nel non aver incontrato due occhi a lui così famigliari.
Lei non c’era.
Era segnata sul foglio, ma di lei nessuna traccia.
Sfuggente come suo solito, e Shannon aveva perso il sorriso con cui aveva deciso di affrontare l’evento.
 
 
*

 
Echelon


*
 
 
«Ciao» esordì qualche giorno dopo il concerto all’Hollywood Bowl. Aveva avuto bisogno di tempo per se stesso, di riposo e, soprattutto, di decidere cosa fare. Così si era presentato allo studio di tatuaggi in West Hollywood dopo mille dubbi. «Sto cercando Christine…»
Lasciò la frase in sospeso davanti a quella ragazza dai capelli con i riflessi viola e il trucco nero marcato.
Lo studio era piccolo ed essenziale: parquet chiaro e muri rosso ciliegia con qualche frase riguardo i sogni e le speranze, tutte citazioni tratte da libri che Christine doveva aver letto.
Il posto di lavoro dove l’aveva sempre immaginata la rispecchiava in tutto: senza fronzoli, arioso ma sfuggente, non lasciava trapelare poi molto della persona che l’aveva realizzato. Era il suo riflesso senza che chi entrava potesse accorgersene.
La ragazza, davanti alla richiesta di Shannon, mostrò un certo imbarazzo. «È da un po’ che non viene in studio, qualche mese in effetti. A dire il vero lo sta vendendo. La puoi trovare a casa, stanne certo».
Non l’aveva detto con cattiveria, tutt’altro, ma dalle sue parole si capiva che dietro ci fosse qualcosa di più, un motivo che lei non voleva rivelare.
«Non so dove abita». Non lo ricordava più, in realtà, perché dopo il loro primo incontro l’aveva riaccompagnata a casa. Sapeva che non era distante da lì, ma non riusciva a rammentare dove di preciso.
«Facciamo così, ti lascio il suo indirizzo e anche il numero di cellulare, però ti prego, non dirle assolutamente che sono stata io a darteli». La vide scrivere sul foglio ciò che gli interessava prima che potesse cambiare idea, poi glielo passò.
«Grazie davvero, devo proprio parlarle». Non attese risposta e si diresse verso la porta.
«Auguri» sussurrò la ragazza dagli occhi chiari ma per nulla speciali come quelli di Christine.
Qualcosa l’aveva portato a domandarsi perché lei l’avesse congedato così, soltanto più tardi si sarebbe pentito di non aver chiesto informazioni.
Aveva percorso i quattro isolati in auto, raggiungendo il numero civico scritto sul foglio. Ora ricordava di essere già stato lì, la porta azzurra e la piccola palma lì vicino avevano un ché di famigliare.
Citofonò una, poi due volte, c’era qualcuno in casa perché la tenda era stata scostata, ma nessuno aveva risposto al campanello. Tre volte, una chiamata al cellulare.
Due, tre. Infine sei.
Più Christine non rispondeva più lui si intestardiva.
Si era appoggiato alla propria auto parcheggiata dall’altra parte della strada in modo da osservare al meglio la porta finestra e ciò che succedeva oltre a essa, aveva tempo da perdere e voleva ottenere risposte, non si sarebbe mosso da lì finché non avrebbe avuto ciò che voleva.
Dopo venti minuti la vide passare dietro il vetro.
Ti ho vista, so che ci sei. Non me ne vado finché non mi parli’.
Un messaggio che le inviò al volo. Christine si affacciò da dietro il vetro per controllare che fosse davvero Shannon ad aver scritto ciò, scosse la testa rassegnata e poi si allontanò dalla porta finestra. Dopo poco si sentì il rumore elettrico del portoncino scuoterlo, aveva aperto.
«Ora tu mi spieghi perché non mi vuo…» era entrato come una furia dopo aver percorso le scale di corsa, saltando i gradini. Si era fermato solo quando la vide con le lacrime agli occhi e spaventata, seduta sul divano. Non era mai stata così nemmeno quando l’aveva portata a casa sua con l’inganno e con un intento preciso in testa. Gli occhi in cui si era ritrovato non erano più gli stessi, erano inespressivi, opachi, senza vita. Le luci che li rendevano brillanti non c’erano più.
Il barlume che li animava era sparito. Morto.
«Christine, cosa ti è successo? Stai bene?»
«Non avvicinarti». La voce incolore, rigida.
Era spaventata, come se non lo riconoscesse più, come se lei non avesse mai provato le stesse sensazioni che Shannon aveva sentito nei suoi confronti. Il fascino, l’empatia, l’alchimia e la curiosità.
Ora c’erano solo paura e apatia. Christine era lo spettro di se stessa.
Mosse un passo verso di lei, ma la ragazza alzò la voce, sempre più terrorizzata: «Non farlo. Non toccarmi!»
Più lo allontanava e più Shannon sentiva il bisogno di farle sentire che lì c’era davvero. Ignorò le sue parole e la abbracciò.
Prima aveva provato a divincolarsi, poi – dopo aver capito che da quelle braccia forti non avrebbe potuto liberarsi – si era irrigidita. Un fascio di nervi. Le braccia tese lungo i fianchi, il corpo tirato, gli occhi vitrei senza espressione, persi in un luogo lontano insieme alla sua speranza. La pancia più marcata del solito.
L’aveva stretta in un abbraccio per sentirla vicina, ma il corpo che aveva attirato a sé era distante, l’animo che l’aveva portato fino a lì era assente, anni luce da dove erano loro in quel momento.
«Come nei miei peggiori incubi» sussurrò distrutta. «Come la realtà che mi assale in ogni istante».
Crollò a piangere ma non si lasciò andare, quasi fosse stata abituata a un simile atteggiamento. Shannon non sapeva come reagire, si sentiva a pezzi come Christine, si sentiva lui stesso il riflesso dell’anima rotta della ragazza.
«Mi racconti cosa è successo?»
Dopo l’iniziale reticenza di lei era riuscito a farsi raccontare i fatti. Di come un mese circa dopo il meet di Las Vegas fosse stata fermata per strada da uno sconosciuto e questi l’avesse assalita. Di come le sue mani l’avevano toccata con forza contro la sua volontà per poi colpirla con tutta la forza che possedevano. Aveva raccontato di come le avesse dato della puttana solo perché stava tornando a casa da sola, camminando sul marciapiede come un qualsiasi essere umano. Aveva aggiunto di come, una volta stordita dai pugni, le avesse strappato a forza i vestiti e l’avesse violentata. Il corpo rigido di lei in quella strenua difesa di se stesso ma che non poteva niente contro la brutalità della cattiveria di un uomo.
Aveva raccontato a Shannon di essere rimasta stesa sul marciapiede per un’ora prima che alcuni ragazzi la trovassero e chiamassero un’ambulanza. Annegata nelle proprie lacrime, annientata dal proprio dolore, quasi affogata nel suo stesso sangue; voleva solo morire.
A Shannon erano tremate le mani, il racconto gli aveva fatto venire voglia di vomitare. Non capiva con che coraggio un essere tanto immondo avesse voluto estirparle dagli occhi la vita che brillava al loro interno, negando al batterista l’unico accesso che aveva all’anima di Christine, la sola via di comunicazione che s’era instaurata tra loro.
Voleva saperne di più, quindi le aveva chiesto se l’aveva denunciato. Christine aveva annuito, aggiungendo che aveva sporto una denuncia contro ignoti e segnalato il malvivente con un segno particolare: un occhio nell’interno del polso sinistro, peccato che di lui si fossero perse le tracce e la polizia non l’aveva trovato, ecco perché lei non si arrischiava a uscire di nuovo. Se l’avesse incontrato ancora?
Senza contare che il danno che le aveva recato: Christine aveva scoperto di essere rimasta incinta. Era entrata da poco nel terzo mese.
«Perché non hai abortito?» non voleva essere un’accusa, ma il tono gli uscì più duro del previsto perché non capiva come avesse potuto scegliere di portare avanti la gravidanza. Ora capiva perché aveva percepito la pancia in quell’abbraccio a senso unico di poco prima.
«Non puoi capire. Quando sai che dentro di te c’è una creatura non puoi porre fine alla sua vita». Aveva sospirato e accarezzato la pancia senza affetto. «È comunque una cosa sbagliata, un figlio che non sento mio, quindi ho deciso che lo darò in adozione».
E forse quel discorso poteva comprenderlo già di più.
Christine aveva aggiunto che aveva assunto la pillola del giorno dopo, ma probabilmente l'aveva espulsa dal proprio corpo in una delle volte in cui aveva rimesso l'anima: non era facile rivivere quell'esperienza senza che lei reagisse in quel modo. «Io sono qui per tutto, voglio aiutarti. Lo farò». Glielo stava promettendo.
Christine sorrise comprensiva con quel fare da mamma che, nonostante la pancia, non era da lei. Gli accarezzò la guancia quasi a volergli far capire che non gliel’avrebbe permesso, ma Shannon era sicuro.
L’egoista che era sempre stato.
Perché lo faceva per se stesso prima che per lei. Voleva rivedere così tanto lo sfavillio negli occhi di Christine per sentirsi di nuovo a casa e al sicuro che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di farla tornare. 
E così era stato. Le aveva prenotato delle sedute dal miglior specialista di Los Angeles e stessa cosa aveva fatto per il ginecologo.
Nei mesi della gravidanza l’aveva fatta seguire con particolare cura, e nonostante lui non fosse presente accanto a lei si faceva aggiornare da Christine riguardo i progressi.
Andava a trovarla una volta ogni tanto, quando era libero da impegni e pronto per sostenerla davvero, dato che ogni volta ne usciva distrutto. Provava a portarla fuori di casa, a farle fare un giro, fosse stata anche solo la spesa. L’aveva convinta a tornare a disegnare un po’, anche se il suo stato d’animo influiva sui propri lavori, sempre più cupi. Eppure a ogni visita gli sembrava che qualcosa in lei stesse tornando a posto. Piano sembrava che Christine stesse tornando in sé.
«È una bambina». Gli aveva detto in un pomeriggio mentre stavano andando insieme al supermercato.
«Avresti preferito un maschio?» non sapeva cosa dirle, di sicuro le congratulazioni sarebbero state fuori luogo.
«No» finalmente riusciva a fissarlo negli occhi senza sentirsi sporca. «Va benissimo così»
«Hai già idee sul nome? Puoi deciderlo tu o no?» non sapeva come funzionassero le adozioni.
«Sì, posso sceglierlo io. E sì, ho qualche idea a riguardo, ma non si può sapere. Non ancora». Il timido sorriso che gli rivolse servì a Shannon per capire che il lavoro che stava affrontando era la via giusta da percorrere, che non tutto era perduto e quello che stava facendo era giusto.
La sera si era presentato a cena a casa del fratello felice e arrabbiato, sentimenti che in lui potevano coesistere nello stesso tempo. Il caos sentimentale di Christine si ripercuoteva sempre sul suo umore.
Aveva spaccato una lampada a cui Jared per fortuna non teneva particolarmente, e l’aveva fatto solo per dar sfogo alla sua frustrazione. Quando il fratello minore gli aveva chiesto il perché Shannon rispose che non riusciva a capire come fosse fatto il mondo e quanta merda ci girasse. Era bastato così poco per togliere la vita dagli occhi di Christine eppure ci voleva moltissimo per farli tornare brillanti come un tempo. Quegli occhi lo stavano ossessionando, Christine pure.
«Shannon, non puoi aiutarla. Non se non lo vuole lei». L’aveva preso per le spalle e scosso, era preoccupato per il fratello, non l’aveva mai visto così destabilizzato.
«Io devo salvarla». Bright lights era una canzone a cui stava lavorando da anni e non era ancora stata inserita in nessun album. Parlava di sé, di Jared, di Los Angeles, di amore e di vita. Lui le luci le aveva viste, vissute, respirate e amate, ma mancava sempre qualcosa in quelle che incontrava sul suo cammino. In Christine le aveva trovate, scoprendo il vero significato di quella canzone, e non era disposto ad abbandonarle senza lottare.
«Non puoi salvarla, deve farlo da sola». Jared sapeva di cosa stava parlando, lui aveva tirato fuori Shannon dalla merda della droga anni prima.
«Tu con me l’hai fatto!» aveva urlato demoralizzato il maggiore.
«Ma tu lo volevi»
«Lei sta lottando, è forte…» aggiunse flebile, come se non fosse convinto lui stesso delle proprie parole.
«Ricordati però che non tornerà mai quella di prima. Capisco che tu le sia affezionato, che ti senta legato a lei, ma non la ami e non sei nessuno per Christine perché tu le possa chiedere di stare meglio, me l’hai detto tu stesso tempo fa».
Aveva dannatamente ragione, e lo odiava per quello. Jared era bravo a studiare le persone e a essere freddo davanti ai sentimenti, aveva un distacco che a volte ammirava. Lui no, non era così, sentiva il peso di Christine sulle proprie spalle, le colpe che lei stava cercando di espiare le sentiva sue.
«Non so cosa fare». Era stanco e rassegnato, prigioniero di una situazione senza via d’uscita, ormai era chiaro anche a lui.
Non avrebbe riavuto Christine come l’aveva conosciuta, nessuno avrebbe potuto fare nulla a riguardo.
«Stalle vicino, ma non farti del male» Jared gli mise una mano sulla spalla. «Fai preoccupare e stare male la gente che ti vuole bene».
Un chiaro riferimento a se stesso e alla madre.
Lo capiva, davvero, ma lui voleva bene a Christine, e lei non aveva nessuno, non poteva lasciarla più sola di quanto non fosse già.
«Ok, ho capito. Grazie».
 
«È nata? Sta bene? Stai bene?» Shannon era al telefono con lei, stava cercando di raggiungerla per vedere come stava dopo il parto, doveva essere un momento delicato per lei.
«Sta bene, e io… Sto bene. Stanca morta ma ci sono». Il tono piatto, la sua voglia era quella di dormire mentre portavano la figlia da chiunque si fosse occupato di lei.
«Come l’hai chiamata?» ora non poteva più tirarsi indietro, avrebbe dovuto dirlo ad alta voce.
La sentì sospirare prima di riprendere a parlare: «Shannon. L’ho chiamata Shannon»
Il batterista premette l’acceleratore senza accorgersene, confuso da quello slancio nei suoi confronti. «Come me? È perché?»
«Perché sei stata l’unica persona a essermi stata vicina per tutto questo tempo, l’unica che ha provato ad aiutarmi. La parte buona della mia vita in ogni momento» rispose troppo serena per i suoi gusti. La tranquillità con cui ammetteva tutto quello era irreale, come se si fosse arresa agli eventi, come se avesse deciso di smettere di lottare.
Come se non l’avesse mai fatto.
 
Christine era diventata echelon, e solo con il parto Shannon se ne era accorto. Echelon a tal punto da seguirli in più meet, anche se uno era saltato per ovvi motivi, echelon da sentire un legame con lui e chiamare la figlia con il suo nome.
Era echelon perché per lui quella parola significava famiglia, e lui aiutava chi ne faceva parte se poteva, ecco perché per lei c’era sempre stato, ecco perché lei avrebbe sempre fatto parte del suo mondo in qualche modo.
Peccato che i piccoli miglioramenti fatti prima della gravidanza erano spariti.
Ogni giorno la luce fioca – il flebile riflesso del bagliore di un tempo – si indeboliva negli occhi di Christine, e Shannon non poteva farci niente.
L’unica cosa positiva di tutto quello era che era tornata a disegnare, un giorno anche a tatuare. Il primo disegno su se stessa. Shannon sapeva con certezza che sarebbe stato anche l’unico.
Era veramente disegnato in modo spettacolare, e quando le chiese cosa rappresentasse, dato che era così intricato e sfumato da rendersi misterioso, lei rispose che era un utero dentro al quale c’era un pugno chiuso. Non c’era bisogno di parole per capire che aveva rappresentato la scena della propria violenza da vedere e rivivere davanti ai propri occhi – perché l’avambraccio era sempre a portata di uno sguardo – bastava il silenzio carico di tristezza e annientamento in cui si era trincerata dopo.
Nonostante non avesse con sé la bambina sembrava che Christine soffrisse di depressione post parto. Non dormiva, mangiava poco, non si interessava a nulla e l’umore era altalenante. Ormai era diventata apatica.
«Stai combattendo?» continuava a domandarle Shannon, era come se sentisse che qualcosa in lei stava accadendo ma fosse troppo radicale e profondo perché lui potesse accorgersene, o anche solo fare qualcosa.
«Ci sto provando».
Fu solo quando ricevette una chiamata strana che si precipitò di corsa a casa di Christine in un assolato pomeriggio, abbandonando in studio Jared e Tomo. Era arrivato sollecitato da alcuni paramedici che avevano trovato il numero di Shannon sotto il nome ICE, ‘In Case of Emergency’.
«Cos’è successo?» arrivò senza fiato e fermò il primo paramedico che gli si era parato davanti. «Sono la persona che avete chiamato per l’emergenza»
«La signorina ha tentato il suicidio tagliandosi le vene» disse mortificato l’uomo che sovrastava Shannon con la propria altezza. «Poi ha chiamato i soccorsi. Ha avuto un esaurimento nervoso, o un crollo psicotico che dir si voglia»
«Sta bene? Dove la portate?» aveva sentito la barella che piano, in lontananza, veniva trasportata verso il marciapiede. Se non stava uscendo di casa in un sacco nero voleva dire che era ancora viva.
«La portiamo in ospedale, poi in una struttura privata dove verrà seguita per i suoi disturbi» aggiunse senza giri di parole, ormai abituato a dover comunicare notizie spiacevoli.
«Quando si riprenderà?»
«Mai. Probabilmente mai».
E in quel momento la vide uscire sdraiata e legata sulla barella. Le braccia inerti che mostravano all’altezza dei polsi bende sporche di rosso, da quella sinistra spuntava il tatuaggio e un rivolo di sangue rappreso. Quel disegno ora sembrava messo lì per evidenziare il punto esatto in cui tagliare, quasi avesse voluto estirpare a forza la violenza dal proprio corpo.
I capelli erano arruffati, la maglia schizzata di sangue, la pelle vitrea, sembrava fatta di porcellana, pronta a spezzarsi al minimo urto. Christine ormai era così. Ma a spaventarlo furono gli occhi, quegli stessi occhi in cui aveva trovato rifugio e pace ora erano aperti, spenti e totalmente vuoti, la vita che aveva animato la ragazza era sparita. Risucchiata chissà dove.
Christine aveva smesso di combattere, cedendo al peso del proprio destino.
Shannon sapeva che quelle luci brillanti non sarebbero più tornate, che le avrebbe trovate soltanto nei propri ricordi, custoditi con brutale gelosia.
Era come se la vita avesse stretto le spire attorno a Christine per riprendersi ciò che le aveva donato. L’aveva avvelenata con il proprio morso, intossicandola fino a travolgerla.
Un serpente letale e silenzioso che lui non aveva potuto combattere al suo posto e, nonostante Shannon sapesse che la battaglia non era la sua, non se lo sarebbe mai perdonato.
Le accarezzò la fronte sperando in una sua reazione, con la fiducia di vedere gli occhi animarsi all’improvviso, ma niente.  Christine era voltata nella sua direzione, ma sembrava non lo vedesse. Era lontana anni luce, su un altro pianeta. E non era Marte anche se faceva parte di quella famiglia.
Distante e vuota, per sempre.

 
 
*
 
 
«Dunque Shannon, dicci un po’: la gente si domanda se è vero che la tua batteria si chiami Christine, e se la risposta fosse positiva vorrebbe sapere il perché. E come mai il serpente davanti?» L’intervistatrice era stata carina e gentile per tutto il tempo, ma quel quesito aveva risvegliato in lui il percorso intero che l’aveva portato fino alla scelta di quel nome.
Aveva fissato il fratello e poi Tomo, e quando li vide entrambi annuire per fargli forza rispose.
«Christine era una echelon speciale. Era forte e fragile allo stesso tempo, come la mia batteria. Penso che possa essere un esempio per tutti il suo modo di lottare davanti alle difficoltà, anche se poi ha smesso di farlo. Ho scelto il serpente perché è un animale che spaventa e rappresenta il male e il peccato, un’immagine che va di pari passo con il nome e la vicenda che la riguarda. Sono state le spire troppo strette delle circostanze a sopraffare Christine. Voglio ricordare la sua storia perché merita di essere menzionata come monito per tutti gli altri echelon là fuori. La vita la si fa o la si subisce, la scelta la compiamo noi».



 


Buon pomeriggio.
Lo so, questa shot è... Lunga, triste, tristemente lunga e lungamente triste.
Eppure l'ho immaginata così. Nata da uno scambio con mia sorella sul nome della batteria di Shannon. "Ma secondo te si riferisce a qualche sua ex?" "Nah, per me riguarda qualcuno con qualche storia importante dietro". BOOOOM! Mi si è aperta questa storia.
Se non erro la batteria di Shannon dovrebbe essere sempre la stessa, ma mi piaceva l'idea del cambio di "testimone", quindi ho dovuto fargliene prendere una nuova.
Come avrete notato il "tempo" in cui si svolge è indefinito, anche se si conclude abbastanza di recente. Faccio riferimento a un prima in cui bright lights non è ancora uscita, mentre poi, verso la fine, è finita nell'ultimo album, quindi penso si possa collocare tra l'into the Wild tour e l'uscita di llf+d.
L'ho voluta dividere in tre  "atti" come l'ultima shot su Jared, penso che qui rispecchino molto i tre momenti vissuti da Shannon e Christine.
Steffy: un grazie a Beautiful che mi suggerisce dettagli mentre io plotto come se non ci fosse un domani.
C'è un in insulso in corsivo all'inizio che si riferisce al vapid di Bright Lights, canzone cara a Shannon (scoperto tramite un VyRT) e la cosa mi ha solleticato non poco. I continui riferimenti alla canzone, dunque, sono più che voluti. L'incendio iniziale?  "The hills of hollywood on fire..." tanto per citare altri spunti, mi piaceva l'idea di richiamare scenari che hanno dipinto loro stessi con le canzoni.
Ora vi lascio, vi stringo la mano se siete arrivate in fondo a questa shot senza istinti suicidi, spero comunque che vi sia piaciuta.
Per ora la mia permanenza come scrittrice nel fandom è finita, ma mai dire mai, dopo il concerto ci saranno nuove idee da assecondare, i Mars offrono sempre tanti spunti. Sta di fatto  che non sparirò come lettrice o da EFP, ho sempre la romantica da portare avanti.
Spero di sentire il vostro parere a riguardo, Cris.
   
 
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