Ancora noi
Cap 1. Scelte
Bella.
Me lo avevano detto: la vita è una
questione di scelte.
Il tuo destino dipende dalle tue scelte.
Ma non mi avevano detto che le scelte erano
così difficili. Non mi avevano detto che, da una semplice scelta, può dipendere
la vita a o la morte di una persona.
Seduta accanto al grande letto, osservavo
il tempo passare al di là del vetro dell'imponente finestra della mia stanza.
Sembrava tutto uguale quel bosco, uguale a
come lo ricordavo, uguale a come lo avevo visto la prima volta, dalla stessa
angolazione di ora, solo un piano più in su, con le dolci note di Debussy in sottofondo. Le folte chiome degli alberi, il
terriccio umido e fangoso, i tronchi ricoperti di muschio, il rumore dell'acqua
che scorre di un fiume poco lontano.
Eppure ora era diverso. O forse erano i
miei occhi ad essere cambiati. Quel bosco mi intimoriva e mi affascinava in
ugual misura. Perché ora quelle stesse fronde, quegli stessi colossi
silenziosi, avevano per me un altro significato. Io sapevo. Sapevo cosa
potevano nascondere, io sapevo cosa potevano raccontare se fosse stato concesso
loro il dono della parola, io sapevo i loro segreti. E loro conoscevano i miei.
E mi aiutavano a custodirli. A loro avevo sussurrato il mio amore, il mio cuore
e la mia gioia e avevo gridato il mio dolore, il mio tormento, il mio castigo.
Sospirai.
«Sei pronta?»
Sobbalzai, voltandomi verso la porta. Due
lucenti occhi color ambra mi guardavano sereni, cercando di nascondere la ruga
di apprensione che si stava formando al centro della stessa fronte del volto
dal quale mi osservavano.
«Scusami ho bussato, ma non mi hai
risposto»
Abbozzai un sorriso e annuii. «Mi dispiace,
non ti ho sentito, ero sovrappensiero. Vieni, entra»
Sorrise chiudendosi la porta alle spalle e
con tutta la grazia di cui solo quelli della sua specie erano capaci, mi
raggiunse con passo umano, prendendo posto sul letto accanto a me. Il suo
sguardo vagò nella stessa direzione dove solo pochi attimi prima era posato il
mio. Sospirò anche lui, un sospiro stanco, preoccupato e nostalgico. Mi persi nella
sua contemplazione, cercando di capire quanti ricordi potesse rievocare in una
creatura dall'animo secolare come il suo quello stesso paesaggio.
«È ora» mormorò distogliendo lo sguardo.
Chiusi gli occhi, colpita dal peso di quelle due piccole parole. Incredibile il
grande disegno che celavano al loro interno.
«Lo so.»
Annuì e rimase in attesa. Era così paziente
con me, proprio non riuscivo a comprendere come potessi meritarlo.
«Credi davvero che sia la cosa giusta?»
sussurrai cercando di contenere la paura che mi dilaniava il petto.
Lui allungò una mano, afferrando la mia,
che si perse nella sua fredda, grande e forte.
«Isabella, lo sai. Sai come la penso, ma
sai che mai ti imporrei di fare una qualsivoglia cosa che tu non hai piacere di
fare. Voglio che tu ti senta libera di prendere la tua decisione, al di là di
quello che pensi io voglia per te...o per me»
«Lo so, ma...» mi morsi il labbro, mi
sentivo sempre un po' invadente a toccare l'argomento, nonostante negli ultimi
diciotto mesi il nostro legame fosse diventato forte e quasi non avessimo più
segreti l'uno per l'altra, violare quel lato della sua vita mi faceva sempre
sentire indiscreta e fuori luogo. Scossi la testa e puntai lo sguardo verso il
basso. Ovviamente non si arrese, sapeva dove volevo arrivare.
«Ma?» mi chiese per l'appunto, come chiaro
invito a proseguire.
Presi fiato, inutile provare a farlo
desistere. Aveva preso il suo nuovo ruolo nei miei confronti molto seriamente,
Charlie sarebbe stato felice di sapere che c'era lui a prendersi cura di me ora
che lui non poteva più farlo. Aveva sempre nutrito una grande stima e un grande
rispetto nei suoi confronti. Certo, forse se avesse saputo la verità...
Presi coraggio e continuai.
«Ma sei io decidessi di restare tu andresti
comunque?»
«Ovviamente no»
Sbuffai. Cielo, la testardaggine era un
gran difetto in quella famiglia. Afferrai le ruote della mia sedia a rotelle e
cominciai a bighellonare nervosamente su e giù per la stanza. Avevo bisogno di
muovermi, di fare qualcosa, o la tensione delle ultime ore mi avrebbe
annientata.
«Perché no?» chiesi con un moto di stizza,
bloccandomi al centro esatto, a pochi passi dal letto, dando le spalle alla
finestra. «Carlisle, sai che ti considero mio padre ormai, al cento per cento,
senza nessuna remora, ma davvero non è necessario che tu continui a privarti
della tua felicità solo per occuparti di me. Non posso continuare a permetterti
di sacrificarti in questo modo»
«Non sei tu che me lo permetti Bella, sono
io che ho giurato sulla tomba di Charlie di crescerti, amarti e proteggerti
come se fossi sangue del mio sangue. Non ho intenzione di rimangiarmi un
giuramento»
«Sono già cresciuta Carlisle, tra pochi
giorno compirò vent'anni, non c'è bisogno che continui a rovinarti l'esistenza
per me»
Il suo sguardo si incupì, tornando a
saettare oltre la finestra.
Il giorno in cui successe tutto, credevo
che sarei rimasta sola, e poi era arrivato lui. Un angelo luminoso nel bel
mezzo della più lugubre tempesta.
“Alice mi ha detto che avevi bisogno di
aiuto...sono qui” aveva sussurrato con uno sguardo tormentato mentre mi
tirava fuori dall'auto di mio padre, quasi completamente accartocciata contro
quel maledetto albero.
Si incolpava ancora di non essere arrivato
prima e di non essere riuscito a salvare la vita anche a lui.
«Mi stai rinnegando come padre Isabella? Ho
fatto un così pessimo lavoro anche con te?»
Sobbalzai per il dolore intriso nelle sue
parole. Chiusi gli occhi per fermare le lacrime che pungevano nei miei occhi,
frutto della consapevolezza di aver ferito un anima buona e nobile come quella
del mio secondo padre. Tanto luminosa da far male. Sapevo a cosa si riferiva
con quel “anche con te.” Il suo tomento per aver inflitto una vita che non
desideravano a due dei suoi figli lo tormentava nel profondo. Più volte mi
aveva confessato che ogni volta che negli ultimi decenni aveva postato lo
sguardo su Rosalie e Edward, il senso di colpa lo aveva dilaniato sapendo
quanto li ripugnava la loro stessa natura. Natura a cui lui li aveva condannati
per l'eternità.
Mi spostai dinnanzi a lui allungando una
mano perché la stringesse di nuovo. La prese e la nascose fra le sue
nascondendo il capo ai miei occhi per celare il suo dolore.
«Perdonami Carlisle, sai che non era ciò
che intendevo, non so cosa sarebbe stata la mia vita se non fossi corso da me
un anno e mezzo fa. Sei il padre migliore che si possa desiderare»
Sollevò il capo abbozzando un sorriso che
non raggiunse gli occhi.
«Ma vuoi ancora liberarti di me» mormorò
sarcasticamente arcuando un sopracciglio.
Sorrisi e stetti al gioco. Avevamo imparato
in fretta a comportarci come una famiglia e a prenderci in giro con amore, come
per l'appunto solo una famiglia sa fare.
«Ma certo, come ogni adolescente che si
rispetti! Una casa gigantesca senza genitori per un intero week-end, il sogno
proibito di chiunque sotto i ventun anni! Hai idea di che festa potrei dare?»
recitai in una chiara presa in giro cercando di risollevargli il morale.
Dopo l'incidente mia madre mi aveva
chiesto più volte di andare in Florida, ma io avevo sempre rifiutato, quella
non era più casa mia, casa mia era qui, a Forks. Charlie riposava qui, i miei
ricordi vivevano qui, io dovevo restare qui. Anche Jacob, come Reneè, mi aveva chiesto di andare a vivere con lui, non
voleva rimanessi sola, o peggio che vivessi con un vampiro, ma sapevo che le
cose per me, li, sarebbero diventate troppo...complicate. L'avevo capito da
tempo che la sua amicizia seppure per me preziosa e importante, non era del
tutto sincera. Avevo capito da tempo che lui desiderava da me qualcosa che non
potevo dargli, accettare di stare con lui avrebbe significato illuderlo. Così,
egoisticamente, avevo scelto di non andare, di restare lì, in quella casa che
una volta era stata teatro della nascita di un grande amore, e che rinchiudeva
in se i ricordi più belli della mia vita.
La casa che dividevo con Charlie,
era piccola, per una persona costretta a vivere sulla sedia a rotelle e troppo
in vista per un vampiro.
Così Carlisle aveva ripreso in mano
le chiavi della grande villa. Io dormivo nella stanza degli ospiti, l'unica al
piano terra. Carlisle aveva apportato delle modifiche, nulla di che, giusto
quello che serviva per farmi muovere in perfetta autonomia, senza dover
continuamente ricorrere al suo aiuto. O almeno era quello che diceva lui. In
realtà aveva fatto costruire una rampa esterna sul lato anteriore, per
permettermi di entrare e uscire agevolmente da quella che ormai era diventata
casa mia. E ne aveva aggiunto una seconda che dava sul giardino per non
costringermi a uscire dalla porta principale e farmi fare tutto il giro della
casa ogni qual volta avessi voglia di prendere una boccata d'aria. Aveva
ristrutturato il bagno adiacente alla mia stanza con strutture d'avanguardia
adatte alle mie condizioni che – e di questo lo ringraziavo ogni giorno – mi
rendevano indipendente nella cura del mio corpo. La cucina era stata
completamente modificata e portata all'altezza della mia seduta permettendomi
di cucinare senza impedimenti. Aveva perfino fatto installare una sedia mobile lungo
la scala interna, per permettermi di raggiungere il piano superiore. Non
l'avevo mai usata se non per raggiungere lo studio di Carlisle, stando sempre
ben attenta a non soffermarmi su quelle porte chiuse che sembravano chiamarmi
come una falena alla sua fiamma. Non volevo andare di sopra. Non volevo sapere
cosa avrei trovato. Aprire la porta della sua stanza vedendola vuota, mi
avrebbe distrutto. No, non potevo.
E poi c'era il pianoforte, era
ancora lì quando eravamo arrivati, coperto da un soffice lenzuolo bianco. Non
riuscivo ad entrare in quel salone senza essere pervasa dai ricordi. Ogni volta
finiva sempre allo stesso modo: con me in lacrime, persa nel mio dolore, e
Carlisle che inutilmente cercava di consolarmi. Alla fine gli avevo chiesto di
portarlo di sopra, lontano dai miei occhi. Non volevo più vederlo. Al suo posto
ora c'era solo il vuoto, come quello che era rimasto dentro di me.
Carlisle, il mio secondo padre, era
diventato la mia unica ancora di salvezza.
Ricordavo come fosse stato il giorno
prima quando, in ospedale, dopo essermi risvegliata dal coma farmacologico, me
lo ero ritrovato al capezzale. Ero rimasta piuttosto sconcertata.
“Credevo di aver sognato” gli avevo
detto spaesata.
“No, non lo hai fatto”
“Mi hai salvata tu, vero?”
Aveva annuito, ma la sua espressione
era rimasta triste. Il campanello di allarme si era subito acceso nella mia
mente.
“Charlie!” avevo urlato, cercando di
strapparmi tutti quei tubicini che avevo attaccati. Mi aveva immobilizzato le
mani aspettando che smettessi di lottare. Lo avevo guardato con aria di
supplica, attraverso gli occhi appannati dal pianto. Sapeva cosa gli stavo
chiedendo.
“Mi dispiace Bella”.
Fu tutto ciò che disse.
Avevo pianto, avevo pianto tanto.
Avevo perso anche lui. In poco tempo avevo perso le due persone più importanti
della mia vita. Prima Edward, poi Charlie. Mi sentivo sola, abbandonata e
tremendamente...tremendamente arrabbiata.
Era rimasto lì, a sentirmi piangere,
inveire, urlare, per ore intere, giorni, forse settimane. Consolando me,
consolando mia madre, i miei amici, tutti...chiunque ne avesse bisogno. Si era
addossato ogni peso sulle sue spalle. Senza mai dire una sola parola in più del
dovuto, senza mai andarsene, semplicemente aspettando che finissi le mie
lacrime.
Ed era successo. Una mattina mi ero
svegliata e non piangevo più, non gridavo più. L'unica cosa che urlava erano
l'amarezza e la voragine di dolore che avevo in petto. Perfino il mio cuore mi
aveva lasciato.
Mi aveva spiegato cosa mi era
successo, cosa sarebbe stata la mia vita da quel giorno in poi, ed erano state
altre lacrime, altro dolore.
Non avrei potuto camminare.
Probabilmente mai più. Mi sentivo inutile, completamente inutile.
Poi una mattina mi ero svegliata e
per la prima volta dopo settimane Carlisle non c'era. Pensai che se ne fosse
andato, che si fosse stufato di sentirmi frignare tutto il giorno, che anche
lui, come suo figlio, si era stancato di perdere il suo tempo con me.
Mi ero sentita incredibilmente sola.
Ma lo trovai giusto.
Quella sera stessa, la mia porta si
era spalancata di nuovo.
“Scusa se non sono stato con te oggi,
avevo bisogno di pensare”.
Non mi chiedeva mai come stavo, non
sarebbe servito a nulla, se non a causarmi un nuovo attacco di pianto.
“Non preoccuparti, non importa, capisco.
Credo che dovresti tornare dalla tua famiglia Carlisle, hai già fatto anche
troppo. Starò bene.”
“Anche tu sei la mia famiglia Bella...
resterò qui, finché avrai bisogno di me”
Avevo sbarrato gli occhi, incredula.
Non era possibile, non per me, non meritavo tanto.
“Ma, non puoi...”
Ovviamene non mi aveva dato retta ed
era rimasto, nonostante io tentassi continuamente di convincerlo a tornare.
Si era occupato di me per tutto quel
tempo, senza mai lamentarsi, nonostante io lo facessi e anche spesso.
La sua risata cristallina riportò la mia
mente al presente.
«Oh certo. Sei proprio il tipo da feste, lo
avevo dimenticato. »
Sospirai. Abbandonandomi al silenzio delle
nostre riflessioni. Lui sapeva perché volevo che andasse senza di me.
«Non ti manca?» chiesi in un ultimo
disperato tentativo.
Chiuse gli occhi e sospirò.
«Più di ogni altra cosa al mondo. Ma lei sa
che la amo e sa che un giorno staremo di nuovo insieme. L'eternità sa mettere
tutto sotto un'altra prospettiva»
Aveva rinunciato a tutto per me. Per stare
con me. Aveva rinunciato a i suoi figli, alla sua vita, a Esme.
Sapeva di non poter spiegare agli altri quello che mi era successo, non senza
scatenare le ire del suo primo genito, non senza calpestare il mio desiderio di
non essere un peso, sapeva quanto odiassi quella situazione, sapeva che non
sopportavo il fatto che avesse abbandonato tutto e tutti per me, un
insignificante umana che aveva sconvolto tutti gli equilibri di una famiglia
che aveva costruito con impegno e dovizia in cento anni di sforzi e sacrifici,
eppure il pensiero che loro sapessero, o che lui sapesse, era
terrificante. Non potevo. Non volevo.
Sapevo che sentiva Esme
ogni giorno, cercando di lenire la nostalgia che sentivano l'uno per l'altra,
eppure nonostante l'infelicità e la sofferenza costante che quella separazione
procurava a entrambi, Carlisle rifiutava con tutte le sue forze ogni mio
tentativo di arrendersi con me. Ero un caso perso ma lui non sembrava affatto
d'accordo. Come ho detto: testardo.
Aveva spiegato ad Esme
che non poteva stare con lei, che non sarebbe tornato a casa finché avesse
ritenuto necessaria la sua presenza in quel luogo. Le aveva raccontato che una
persona, una persona per lui molto importante, necessitava costantemente della
sua presenza li dov'era e che sarebbe rimasto per tutto il tempo che avrebbe
ritenuto necessario. Non le aveva mai detto dove fosse o con chi. Mai. Non
capivo come ci riuscisse, per me era impensabile negare qualcosa ad Esme, se fosse toccato a me avrei ceduto dopo i primi
trenta secondi della prima telefonata. Sapevo che lei gli aveva chiesto milioni
di volte di poterlo raggiungere, di potergli dare una mano in questa sua
missione, giurando di mantenere qualsiasi segreto le avesse chiesto di
custodire, ma lui era irremovibile.
Mi morsi un labbro imbarazzata e intenerita
dalla limpidezza della sua confessione.
«Allora va da lei»
Scosse la testa, di nuovo, testardo.
«Non senza di te.»
Di nuovo quella frase. Era il nostro punto
di stallo ormai. Lui non mi avrebbe lasciata sola.
Il mio sguardo ricadde sul copriletto, dove
un in invito a un matrimonio tutto stropicciato si faceva beffa di me. Negli
ultimi tre giorni lo avevo torto e ritorto tra le mani talmente tante volte che
mi sembrava impossibile che fosse ancora leggibile. La busta giaceva per terra
in condizioni solo leggermente migliori.
Accidenti ad Alice e alle sue trappole.
Sorrisi.
Ovviamente Alice sapeva tutto, lei aveva
visto ogni cosa, lei aveva mandato quell'angelo biondo a salvare la mia inutile
e insignificante vita.
Carlisle mi diceva che spesso lo aveva
contattato terrorizzata, dicendogli di non vedere più il mio futuro, facendo
precipitare il mio nuovo papà in uno stato di allerta assoluto. Solo col tempo
loro due insieme avevano capito che i momenti ciechi di Alice erano dovuti a
Jacob. Ogni visita del mio amico licantropo era preceduta dalla telefonata di
Alice.
Era più che chiaro che Jake non le
piacesse.
Non avevo mai risposto. Lei sapeva che non
lo avrei fatto, ma continuava a provarci. Per colpa mia la sua vita, la sua
famiglia, era stata fatta a pezzi, assecondare il suo desiderio di
riavvicinarsi a me avrebbe solo peggiorato le cose. Non capivo perché
insistesse tanto.
Speravo avesse capito, da settimane non ci
provava più. Poi tre giorni fa, quell'invito.
Un matrimonio.
Organizzato da Alice.
Tremai.
Tornai a guardare l'invito.
«Non c’è la faccio Carlisle»
Mi morsi di nuovo le labbra nervosa
prendendomi la testa fra le mani.
Da tre giorni, dall'arrivo di
quell'invito, non avevo più una sola certezza. La sera prima vedendo la mia
reazione sconvolta e terrorizzata, mentre preparavo la valigia, Carlisle mi
aveva preso da parte, stringendomi tra le braccia, nel tentativo di calmare
l'ennesimo attacco di panico. Sapeva che la frescura della sua pelle mi
aiutava, mi dava l'illusione che fosse la sua.
Carlisle
aveva cercato di spiegarmi la decisione del figlio proprio quella volta, stanco
di sentirmi piangere per lui, di sentirmi inveire contro il suo fantasma, di
gridare fino allo spasmo: “Perchè? Perchè?”
«Ha
preso la decisione giusta Bella... ma l'ha presa troppo tardi, e questo se è
possibile è anche peggio...Ti prego perdonalo, lui non capisce, lui non sa...
non si rende conto della ferita che ti ha inflitto... voleva solo donarti ciò
che a lui è stato negato, ciò che io gli ho sottratto. È me che dovresti
incolpare del tuo dolore Bella, non Edward...solo me»
«Davvero Carlisle, penso dovresti andare da
solo»
Lui mi guardò per qualche secondo, poi
spostò lo sguardo sull'invito che giaceva sullo stesso letto dove aveva preso
posto e tornò a guardare all'esterno. Sembrava indeciso. Alla fine prese un
respiro profondo e mi sorrise.
Senza dire una parola si alzò in piedi
andando verso la porta. Non capivo. Avevo vinto? Andava senza di me? Quasi non
riuscivo a crederci. Non sapevo se sentirmi in colpa o sollevata.
«Avverto Alice. Resterò con te» sussurrò a
un passo dalla maniglia.
«NO!» urlai
Lui si voltò guardandomi sereno, non c'era
il minimo cenno di rancore del suo volto, nonostante il mio comportamento
riprovevole. Lo stavo tenendo lontano dalla sua famiglia, dal suo amore. Ero un
mostro. Ero un egoista. Eppure lui continuava a volermi bene. Era frustrante.
Mi guardò ancora per un lungo minuto mentre
io mi arrendevo al mio destino. Avrei fatto questo per lui.
Sorrisi e presi un profondo respiro.
«La mia valigia è accanto alla scrivania»
Si aprì in uno dei suoi grandi solari
sorrisi e ripercorse a ritroso la distanza fino alla mia sedia.
Si inginocchiò e si protese verso di me
soffocandomi nel suo abbraccio, come solo un papà sapeva fare.
«Ti voglio bene bambina mia. Tanto. Insieme
ce la faremo, vedrai»
Si allontanò sorridendo dopo qualche
secondo, prendendo la mia valigia e andando verso la porta. Io lo seguivo con
la mia sedia a rotelle, pensierosa, la testa bassa.
«Ma non conosco nemmeno gli sposi.»
borbottai imbarazzata mentre lo osservavo controllare l'interno della sua borsa
da medico.
Sicuramente aveva fatto scorta di
medicinali per me. Più qualche extra per le emergenze. Nonostante la sedia mi
mantenesse costantemente in una posizione sicura ero ancora in grado di farmi
male. E spesso. Un vero talento.
«Non importa. Kate è una persona deliziosa,
e anche Garrett. Saranno felici di averti con loro»
Kate Denali. La
cugina dei Cullen aveva finalmente trovato il suo
compagno e a quanto pare voleva che i suoi parenti presenziassero alla loro
unione ufficiale, il che comprendeva Carlisle.
“Non posso mancare Bella, è mia nipote”
“Ma certo Carlisle, è giusto”
Mi fece un sorriso in grado di
illuminare l'intero universo e mi accarezzò una guancia,
“Grazie Isabella. Partiamo tra tre
giorni”
Il latte caldo mi andò di traverso
facendomi quasi strozzare. Gli occhi presero a inumidirsi per lo sforzo di
respirare, mentre Carlisle mi dava leggeri colpetti di incoraggiamento sulla
schiena.
“Partiamo?” sputai fuori con un nota
stridula dal tono isterico.
Si accigliò guardandomi dritto negli
occhi.
“Non vuoi venire?”
“Certo che no. Lo sai. Sai cosa
significa...non posso. Ma tu devi. Esme sente la tua
mancanza”
Lui scosse la testa e anche quella
volta il suo sguardo si perse tra gli alberi fuori dalla balconata.
“Chiamo Alice e le dico che non andiamo”
La mia testa scattò verso l'alto.
“Cosa? Perchè?
Carlisle tu DEVI andare! Devi andare a casa. Devi restare con lei. Il tuo posto
è lì”
Lui scosse di nuovo la testa.
“No. Non senza di te”
“Starò bene. Potrei chiedere a Jacob di
stare qui o andare io da lui. Potrei provarci”
Non avrei mai voluto in realtà, ma
se fosse servito a convincere Carlisle a riunirsi alla sua famiglia, allora lo
avrei fatto.
La faccia che fece a sentire quelle
parole mi ricordò tanto quella di Charlie che per un attimo fui indecisa se
scoppiare a piangere o mettermi a ridere.
“Decisamente no.”
Come me si era accorto anche lui che
il mio “amico” si stava facendo decisamente più audace e insistente. Per quanto
cercasse di mantenere sempre quell'aria seria e neutrale, senza invadere troppo
la mia privacy, era ormai chiaro che il comportamento del giovane Black aveva
iniziato a infastidire anche lui. Il fatto che fosse un licantropo poi,
peggiorava la situazione.
Così mi ritrovai incastrata. Sul
filo del rasoio tra il non potere dire di no sapendo che così avrei precluso a Carlisle
di stare con la donna che amava dopo tanto tempo e tra l'incapacità di dire di si, per il terrore che quella risposta comportava.
Sospirai.
«Alice è una stratega straordinaria»
borbottai irritata. Mi aveva letteralmente messa in trappola.
Carlisle mi accarezzò dolcemente i capelli
cercando di consolarmi.
«Alice non vede l'ora di vederti. E anche Esme ne sarà felice, non crederà ai suoi occhi...»
Non riuscii a trattenere un sorriso amaro.
«In tutti i sensi...»
Feci eloquentemente. L'ultima cosa che i Cullen si aspettavano, era vedermi arrivare insieme a
Carlisle, per di più su una sedia a rotelle.
«Si, sarà un duro colpo, ma saranno tutti
felici di riabbracciarti»
«Non proprio tutti...»
Si incupì. Edward era un argomento
delicato, per entrambi.
«Lo so.»
«Lo vedi? È meglio che resto qui. Non
voglio che litighiate per colpa mia. Non ne vale la pena.»
Si abbassò sulle ginocchia, per potermi
guardare dritto negli occhi.
«Non ho detto che sarà facile...ma questa
storia deve finire, non possiamo continuare a nasconderci da Edward, lui ha
preso la sua decisione...io la mia. Sei mia figlia Bella, proprio come lui, e
io non abbandono i miei figli, mai. Edward deve accettarlo.»
Mi incupii.
«Rovinerò la festa a tutti.»
«No invece. Andrà tutto bene, vedrai.»