Salve a tutti e ben trovati!
Eccomi tornata con questo capitolo che, naturalmente, sfida
le leggi della buona sorte.
C’è un personaggio appena accennato e misterioso, ad un certo
punto, e vi dico solo che lo ritroveremo nel sequel di questa storia.
Ipotesi su chi potrebbe essere e sul perché non mostra il suo
volto?
Sisto e Mercuri danno il meglio di loro dall’inizio della fanfiction, in questo capitolo.
Specialmente sua santità.
Grazie a chi ha recensito o solo letto, love you all!
Buona lettura.
Jessy
No Good Deed
Goes Unpunished.
Parte XXIII: Il
Traditore.
Beatrice giunse a Roma con
l’amaro in bocca che non era nemmeno giunto il mezzogiorno, speranzosa di
ritrovare un poco di buon umore nella compagnia del marito.
Peccato che non sembrava proprio
una giornata promettente, quella.
Non solo Giuliano non si
era presentato per salutarla, prima di lasciare Firenze, ma anche Girolamo
sembrava disperso.
Villa Orsini era
praticamente vuota, disabitata, ad eccezione di Zita che era rimasta proprio in
caso di un ritorno della sua signora e per governare la casa.
Il Conte Riario si era
recato tre giorni prima in viaggio presso il Regno di Napoli, invitato da Re
Ferrante in persona per le celebrazioni del matrimonio di suo figlio Alfonso e
della contessa di Milano, Ippolita Maria Sforza,
sorella di Ludovico.
Il quale, ironicamente, si
era intrattenuto a Firenze sino al giorno delle nozze.
A detta di tutti, Napoli era
una città oscura che celava segreti che avrebbero fatto impallidire anche
l’Angelo Caduto.
Beatrice si sentì un po’
oltraggiata nell’apprendere che l’invito era stato esteso anche a lei, ma che
Girolamo aveva preferito non farne menzione nella sua ultima lettera.
A detta di Zita, il Conte
non si aspettava un suo ritorno per almeno un altro paio di settimane, mentre
lui si sarebbe intrattenuto al massimo otto giorni. Aveva affrancato la servitù
–eccetto ovviamente la schiava abissina- ed
era partito senza lasciare nemmeno due righe su pergamena.
La soluzione si era
palesata ovvia agli occhi di tutti, ma ancora di più a quelli di Beatrice; si
sarebbe intrattenuta a Castel Sant’Angelo, dove certamente non le sarebbe stato
fatto mancare nulla.
Che il Turco avesse
calcolato quella mossa o meno, era un mistero; restava il fatto che, se non
fosse riuscita ad entrare negli archivi in quel frangente, non ci sarebbe
riuscita mai.
Cosa piuttosto plausibile,
visto che quella era tutto meno che una missione facile.
Gli archivi vaticani
erano, forse, il luogo più protetto e sicuro di Roma. Forse dell’intera Italia.
Di certo non poteva
chiedere a Lupo Mercuri di farle da Cicerone, o domandare un favore al Papa.
Non poteva smascherarsi a quel mondo, quindi urgeva un piano.
Ne architettò uno quella
stessa sera, quando mandò le sue più sentite scuse e non scese a cena non
appena le fu detto che il Papa non avrebbe preso parte. Se non vi era sua
Santità da offendere, allora poteva rimanere negli alloggi del conte Riario
insieme a Camilla,Valerio Lenzini ed Edoardo
Olivieri, a tramare.
Di base era molto semplice:
mantenendo le stesse condizioni di Imola, quando Beatrice aveva lasciato
Camilla al suo posto per partire con l’esercito di Girolamo alla volta di
Forlì, la romana si sarebbe sostituita a lei. Con Camilla ‘addormentata’, nel
suo letto, sperava di poter fugare ogni sospetto. Lenzini
sarebbe rimasto nell’anticamera, a vegliare sul sonno della contessa.
Al suo ritorno, la ragazza
avrebbe dato il libro ad Olivieri, che senza farsi notare sarebbe rimasto nelle
scuderie esterne, che avrebbe poi portato il libro in un luogo sicuro e
sconosciuto anche alla stessa Beatrice.
Avrebbero fatto tutto la
notte successiva, sperando che il grande cenone che seguiva tutte le messe
delle cinque della domenica pomeriggio – che il Papa lasciava sempre officiare
a Giuliano della Rovere, in Laterano- rendesse tutti
troppo stanchi per scampagnate notturne.
Se fossero riusciti a non
farsi vedere ne sentire da nessuno, forse, non avrebbe perso la testa o
rischiato quella dei suoi collaboratori.
La messa solenne si tenne
in Laterano puntuale, preceduta da un rosario che pareva interminabile e
straziante.
Seduta sul piccolo spalto
della famiglia della Rovere, Beatrice alternava false risatine contenute per le
battute poco simpatiche di Rodrigo Borgia a sorrisi sinceri verso il cugino
Giacomo, sempre più in crisi per l’imminente matrimonio con la giovane da
Montefeltro.
Con addosso il suo abito
migliore si era poi recata alla sontuosa cena a Castel Sant’Angelo, felice di
potersi appartare ai lati esterni del tavolo insieme a Camilla. Il cibo buono e
la dolce musica aiutarono quando meno a far passare il tempo.
La contessa di Forlì
attese che il salone prendesse a svuotarsi da solo, prima di alzarsi a sua
volta da tavolo e incamminarsi con la sua prediletta verso il corridoio
esterno.
Decise ad aspettare un
poco, così da favorire la quiete nella quale si sarebbe poi aggirata furtiva
Beatrice, si appoggiarono al parapetto della loggiata
circolare, ammirando la città illuminata e il lungo Tevere.
“Sei nervosa?” domandò con
voce piccola Camilla, ottenendo come risposta un lungo sospiro.
“Questa credo sia una
missione ancor più pericolosa e necessaria della battaglia di Forlì, o quella
nel Ducato di Modena.” Disse la giovane fiorentina, appoggiandosi al gomito e
ruotando il busto verso l’amica “Se fallisco non comprometto solo me stessa, ma
anche mio marito e…. Loro.”
“I Figli di Mitra?”
“Shht!”
Beatrice la guardò severamente, ottenendo subito uno sguardo carico di scuse
dalla giovane Colonna “Se dovessero sentirci, nella migliore delle ipotesi
verrei cacciata dalla città.”
“Non ti dispiacerebbe
troppo, però.” Rispose la dama di compagnia, strappandole un sorrisetto “Vuoi
tornare nelle tue stanze per ‘dormire’?” chiese quindi Camilla, con un
sorrisetto ad incresparle le labbra. Il modo improvviso in cui lo perse fece
vacillare Beatrice. Madonna Colonna fece un passo verso l’interno del
corridoio, inchinandosi velocemente e tenendo il capo basso e le mani giunte in
grembo.
La contessa temette il
peggio e fece bene.
“Madonna de’Medici,
cercavo voi.” la voce del Pontefice la fece trasalire e voltare molto
rapidamente. Davanti a lei, Papa Sisto Iv sorrideva
con la solita lascività. Negli occhi di quell’uomo
c’era qualcosa, una scintilla che alla ragazza non era mai piaciuta.
“Vostra Santità.” Salutò
ossequiosa Beatrice, baciando subito l’anello, quando la massima autorità
pontificia le porse la mano.
“Speravo di poter
scambiare qualche parola con voi.” disse, invitandola a seguirlo ma fermando
ogni intenzione di Camilla di poterla seguire “Potere anche congedare la vostra
dama. Sarò io ad intrattenervi, questa sera, con un buon bicchiere di vino
prima di coricarci.”
“Come Vostra Grazia
desidera.” Rispose Beatrice con un falso sorriso ben riuscito e un inchino, si
voltò quindi verso Camilla, guardandola con gli occhi sbarrati e cercando di
farle capire di non fare come le stava dicendo “Ci vediamo domani mattina, mia
cara. Vorrò passeggiare per la città, ergo alzati presto e scegli la mia veste
più comoda.”
“Come la contessa ordina.”
Rispose semplicemente Camilla, inchinandosi a lei e al Papa, prima di passargli
alle spalle, facendo così capire a Beatrice che l’avrebbe attesa con un solo
sguardo.
Seppur riluttante, Madonna
de’Medici fece di tutto per mascherare quel disappunto. Seguì sua santità e i due
valletti lungo la loggiata e poi su per una piccola
scalinata, fino ad un salone interno nel quale non credeva di essere mai
entrata. Non si fermarono lì, però. Il Papa affrancò i due valletti e condusse
Beatrice lungo una ripida rampa di scale di pietra sino al livello più alto,
prima della terrazza.
I suoi alloggi personali.
Ebbe, quando meno,
l’accortezza di non farla entrare nella sua sontuosa stanza da letto, ma nella
Sala della Rotonda, ovvero quell’anticamera dal soffitto alto che comprendeva
un’ampia finestra dalla quale spesso il Santo Padre si affacciava per
l’adorazione dei fedeli.
La vista da lì era
semplicemente incantevole, soprattutto in notti come quelle ove la luna piena
baciava le terre pontificie.
“Mettetevi comoda,
Madonna.” Le disse l’uomo con non curanza, andando a versare il vino in due
calici d’oro.
Beatrice rimase
impressionata da quel gesto, poiché non considerava Sisto un uomo capace di una
tale accortezza. Versare addirittura il vino per la moglie di suo nipote, la
quale era imparentata con la famiglia che gli dava più problemi di tutta
l’Italia.
Che fosse o meno una
dimostrazione di qualcosa, la ragazza non lo capì.
Si limitò ad affacciarsi
alla grande finestra, godendosi il panorama.
Accettò di buon grado il
calice, ringraziando come si deve Sua Santità.
Lo sentì affiancarsi a
lei, scrutando a sua volta il paesaggio. Quando riprese a parlare, il tono era
strano. Un tono che non aveva mai usato con lei, le pochissime volte che le
aveva rivolto la parola.
“Una donna come voi
immagino sia affascinata da cotale vista.” Disse, ponendo la frase in modo che
non fosse affatto una domanda, quanto una sfacciata affermazione.
Beatrice lo guardò con la
coda dell’occhio, costringendosi ad essere educata. Ne andava della sua vita,
dopotutto “Lo sarebbe chiunque, Vostra Santità. Roma è un gioiello agli occhi
di ogni re straniero.”
“Ditemi, la preferite a
Firenze?”
Mai. Nemmeno sotto tortura
Beatrice avrebbe ammesso una tale bestemmia. Roma era bella, certo, ma
meschina. Roma era corrotta, marcia…
Nulla a che vedere con la
bellezza e la purezza gentile di Firenze.
Mentre l’Urbe era uno
schiaffo in pieno viso, la bella Fiorenza era una carezza sulla guancia.
Accondiscendente, sorrise
“Esiste un luogo più bello di quello ove siamo nati e cresciuti? Più che della
città, si rimane dolcemente aggrappati ai ricordi felici che si hanno.”
La risposta fu ben
calibrata, visto che il Papa ridacchiò sotto ai baffi, allungando una mano
sulla schiena della giovane. “Siete una donna molto intelligente, Beatrice. Ve
lo concedo, sapete come mantenere calmi gli animi più irrequieti. Almeno, ci
riuscite molto bene con mio nipote.”
“Il conte Riario mostra
molta pazienza con me.” rispose la contessa, prendendo poi un sorso di vino
quando Sisto la invitò con uno sguardo “Mi sta insegnando molto.”
“Quando vi ha nominato
reggente ho storto il naso, ma poi mi hanno riferito la vostra bravura militare
e, come il più onesto dei mendicanti di Dio, ho fatto penitenza. Il Signore,
dopotutto, da a ognuno un dono e un talento. Voi siete fortunata ad averne
molti.”
Tutti quei complimenti
iniziavano a farla insospettire.
“La vostra avvenenza, poi,
è lampante agli occhi anche di un cieco.” Eccolo, il momento tanto temuto. Avvertì
distintamente la mano del Pontex Maximus scendere lungo tutta la schiena, fermandosi
alla base di essa. Lo sentì accarezzarle fin troppo voluttuosamente quella
zona, tanto che si irrigidì.
Il calice prese a tremarle
nelle mani, tanto che per poco si versò il vino sull’abito celeste.
Non aveva paura, assolutamente
no; desiderava solamente conficcare il pugnale che teneva nascosto sotto alla
veste, assicurato alla coscia, nell’occhio di quel disgustoso essere umano.
“Così mi lusingate troppo,
Vostra Santità.” Con la scusa di un inchino timido innanzi a tante belle
parole, Beatrice si scostò dall’uomo.
Lui però non demorse. Lei
nemmeno ci sperava, francamente.
“Una donna come voi, che
ama il potere, saprà di certo chi può dargliene di più.” Le disse, facendosi
più vicino.
La contessa tentò di
arretrare lungo la finestra, ma si ritrovò premuta contro il vetro senza
rendersene conto. Ancora Sisto non la toccava, ma lei poteva avvertire il suo
fiato sul viso.
La stomacò.
“Io non amo altri se non
mio marito e a lui sono devota.” Insistette con tono leggero, sperando di farlo
demordere. Che si infuriasse o meno ormai poco importava.
Voleva che la cacciasse da
quella stanza, troppo vicina ai suoi alloggi privati.
Troppo vicina a qualcosa
che si rifiutava anche solo di pensare.
“Non fate la difficile, Madonna.”
Continuò Sisto, iniziando però a spazientirsi. Con una mano le afferrò il
polso, facendo così cadere la coppa d’oro che cadde a terra versando metà del
suo contenuto sulle mattonelle lucide “Nessuno può negarmi nulla, io sono il
Papa, il vicario di Gesù in terra.”
“Verbo incarnatem.” Rilanciò la giovane
fiorentina, smettendo di essere così ossequiosa e tenendo gli occhi ben
piantati nei suoi “Non credevo che il Signore vi ordinasse certe cose, Vostra
Santità.”
Quelle parole bastarono.
La mano libera di Sisto la
afferrò per la gola, stringendola.
A Beatrice mancò l’aria
quasi subito.
Si aggrappò al suo polso,
cercando di liberarsi, ma senza successo. Seppur avanti con gli anni,
quell’uomo disgustoso sembrava essere forte abbastanza da rischiare di
ucciderla così, a mani nude.
“Come osi dirmi cosa il
Signore vuole da me, schifosa puttana?” soffiò sul viso della giovane,
guardandola negli occhi azzurri sgranati.
Il suo viso si dipinse di
rabbia crudele, mentre la presa si stringeva ancora e ancora.
Lei arrancò, cercando di
calciarlo o liberarsi, ma la gonna ampia glielo impediva.
La vista iniziava ad
annebbiarsi mentre la sensazione di soffocamento diventava insopportabile …
A salvarla, fu solo un
bussare insistente alla porta.
Senza attendere di esser ricevuto,
il cancelliere Rodrigo Borgia irruppe nella stanza, rimanendo sconvolto nel
trovare sua Santità in quello stato.
Appena la porta si
richiuse velocemente, Rodrigo avanzò “Santo Padre, vi prego, abbiate clemenza.”
“Clemenza per chi mi
offende?” domandò, guardando infervorato il suo braccio destro, prima di
decidere che infondo quella giovane gli serviva più da viva che da morta. La
spinse a terra, liberandola della morsa.
Beatrice cadde in avanti,
ansimando alla ricerca di aria e conducendo subito una mano al collo.
Voltò il viso verso il
Papa, con gli occhi pieni di lacrime e i polmoni di nuovo irrorati di aria
pura. Lui però ora era troppo impegnato per vedere l’odio nello sguardo della
Medici e averne paura.
“Che accade?”
“Vostra Santità, gli ottomani
stanno attaccando i possedimenti di Venezia nell’Adriatico.” Disse tutto di un
fiato “Il generale Montesecco vi attende per
indicarvi al meglio il fatto.”
“D’accordo.” Replicò senza
colore il Papa, troppo preoccupato per quelle province pontificie per potersi
curare di altro “Tu riporta nei suoi alloggi questa frigida troia fiorentina. È
perfetta per mio nipote.”
Senza aggiungere altro
scavalcò la povera Beatrice, che rimase stesa sul pavimento sino a che la porta
venne richiusa. Poi Borgia si prodigò per aiutarla a rimettersi in piedi,
controllando il collo rosso.
“Uscirà un bel livido,
Madonna.” Disse il cardinale, mentre lei massaggiava piano la zona dolorante.
“Vi stavo cercando nei vostri alloggi, quando vi ho vista entrare qui. Siete
fortunata che sia arrivato un messo con una notizia tanto scottante, o vi
avrebbe anche potuta uccidere.”
“Per un istante l’ho
creduto.” Ammise la ragazza “Vi devo la vita, cardinale.”
“Al momento, avete una
missione ben più importante a quanto so.”
Quelle parole la gelarono
sul posto.
Aveva totalmente
dimenticato che Rodrigo Borgia era un figlio di Mitra, come se quella fosse
un’informazione che era meglio archiviare.
Invece, in quel momento,
pareva prezioso come l’acqua nel deserto.
“Lo sapete?”
“Al Rahim
mi ha incaricato di farvi entrare negli archivi, sì.”
Quelle le parvero le
parole più belle mai udite.
Uscirono dallo stanzone,
scendendo le scale fino ai corridoi interni del terzo piano. Davanti alla porta
del suo alloggio, Beatrice prese accordi. Non si sarebbero visti prima della
terza ora della notte, davanti alla sala che conduceva alle cucine.
Lì lui l’avrebbe aiutata
ad assolvere il suo compito.
Quando la ragazza entrò
nella stanza doveva sembrare davvero sconvolta.
Camilla la fece sedere,
mentre Olivieri e Lenzini smettevano di giocare a
carte per montare una vera guardia. Non che fosse poi utile; se fosse entrato
il Papa armato di ascia, non si sarebbero potuti opporre poi molto a lui.
Ne alle sue guardie
svizzere.
Zita preparò un impacco
con della menta e dell’acqua fredda per alleviare il fastidio al collo, prima
di venir congedata in fretta dalla contessa.
Non doveva sapere cosa
stavano tramando, era troppo leale a Girolamo.
“Intendi farlo
ugualmente?” le chiese preoccupata Camilla.
A quelle parole, Beatrice
non indugiò un solo istante.
“Ora più di prima.”
Incredibile quanto una
piccola leva potesse nascondere.
A detta di Rodrigo Borgia,
lo Speziale aveva studiato quell’imponente costruzione per renderla un ottimo
rifugio in cui celare segreti.
Per questo era stato
collocato lì il più grande archivi segreto del mondo civilizzato.
Spostando un candelabro da
muro, si aprì un passaggio nascosto dietro ad una libreria del primo livello.
Il cardinale non la accompagnò, ne disse una parola.
Semplicemente girò sui
tacchi, sparendo nel buio della notte che gravava sui corridoi Castel
Sant’Angelo.
Beatrice però non aveva il
tempo di pensare agli strani modi di Borgia. Rialzò la leva per chiudere il
passaggio, prima di buttarsi dentro per evitare che potesse lasciarla fuori.
Scese lungo una scalinata
buia e stretta, maledicendosi per non aver portato con sé almeno una candela.
Grazie al cielo, la camminata fu breve, anche se più di uno scalino attentò
alla vita della giovane contessa.
La luce flebile si
infrangeva fatua ma calda oltre la griglia di una porta metallica. Beatrice la
aprì, oltrepassandola e trovandosi innanzi ad uno spettacolo consentito
solamente a pochi fortunati.
In uno stanzone immenso,
grande quando una basilica e di simile forma, vi erano gli archivi che tanto
gelosamente il vaticano custodiva.
Camminò lungo quella falsa
navata, lungo la quale erano disposte due file di scrittoi in legno pieni di
carte e mappe dall’aria antica, arrivando fino a una sorta di altare
sconsacrato, un’impalcatura a parte, sollevata rispetto al resto della sala e
con solo una scala di marmo a condurre ad essa. Sotto vi era un vuoto piuttosto
alto e oscuro. Beatrice si sporse per spiare cosa mai vi fosse la sotto, ma non
intravide nulla.
Si dedicò quindi alla
ricerca del volume, certa che ci avrebbe impiegato una vita.
Aveva tutta la notte
davanti e sperò vivamente che le bastasse.
Prendendo una delle
centinaia di candele che illuminavano lo stanzone, si aggirò fra colonne e
scaffalature alte.
Comprese quasi subito il
metodo di catalogazione, semplice ma efficace: sembrava infatti che i volumi
fossero disposti per lingua in cui erano scritti.
Riconobbe le vaste
scaffalature di testi in latino, greco antico e quello che forse era aramaico.
Vi era una sezione piuttosto piccola di una lingua cuneiforme simile a rune
mentre una grande il doppio era fatta di quelli che sembravano disegni.
Quando trovò i libri in
ebraico, Beatrice sospirò sconsolata.
Erano un’infinità.
Si maledisse per non aver
domandato ad Al-Rahim ulteriori informazioni e
proseguì, guardando ogni dorso e sperando in un’illuminazione.
Sapeva che era grande e
che poteva aprirlo solo lei, sicuramente grazie alla chiave di suo nonno.
Oltre, non le era dato sapere.
Stava per arrendersi
all’evidenza, quando un tonfo sonoro la fece trasalire. Si sbrigò a spegnere la
candela, buttandola a terra mentre estraeva la spada che aveva preso ‘in
prestito’ da una guardia della città.
Camminò il più piano
possibile per non far rumore, arrivando infondo a un corridoio fra le librerie.
Lì lo vide.
Un uomo, alto e magro, con
addosso un mantello nero con sopra cucito lo stemma della famiglia Riario-de’Medici.
Troppo alto per essere
sia Lenzini
che Olivieri e, cosa ancor più strana, il colore della casata era il porpora,
l’oro e il blu. Il nero non c’entrava
nulla.
“Ehi, voi!” disse,
ottenendo come solo risultato il vederlo voltarsi verso di lei.
Fra le mani aveva un
libro, che alzò lentamente mentre un sorrisetto si increspava sulla sua bocca,
la sola cosa lasciata scoperta dal cappuccio.
Ciò che avvenne dopo fu
strano.
Alzò semplicemente una
mano e un vento improvviso spense tutte le candele.
Beatrice si schermò gli
occhi dalla polvere che si era sollevata e, quando li riaprì, dello strano uomo
non vi era rimasto nulla, eccetto il tomo lasciato appoggiato sulle mattonelle
fredde.
Decisa a non far domande –
che tanto non avrebbero trovato risposta- la contessa si diresse verso di esso,
rinfoderando la spada.
“Odio i Figli di Mitra, la
loro magia e i loro libri.” Sussurrò a denti stretti, recuperando il libro.
La serratura che lo teneva
chiuso era tenuto insieme da sei cinghie di cuoio, ai lati delle quali vi erano
delle piccole lame sottili. Cercare di forzare quella protezione avrebbe
contribuito a distruggerlo.
Con il lucchetto in mano e
la sua chiave nell’altra, Beatrice iniziò a pregare.
Non sapeva nemmeno più
quali Dei fossero quelli veri, ma chiunque l’avesse aiutata sarebbe stato
gradito.
Infilò la chiave, la girò
e le cinghie si allentarono sino a cadere.
Nascose tutto dietro ad
altri libri, facendo per uscire felice con il suo premio tra le mani. Ci era
riuscita, quasi non ci poteva credere!
Così trionfale, non si
rese conto di essere stata incauta.
Non controllò che la via
fosse libera, così appena si trovò di fronte Lupo Mercuri armato solamente di
vestaglia a coprire la lunga camicia da notte e un candelabro a quattro
braccia, per poco lanciò un grido.
“Contessa.” Disse lui,
stupito nel trovarla lì. Il suoi occhi caddero su ciò che la giovane stringeva
al petto e si sbarrarono.
“Non fatelo …” sussurrò pianissimo Beatrice,
sperando che il prefetto non muovesse un passo.
Dopo un attimo di
esitazione, però, Lupo lasciò cadere il candelabro e corse verso le scale, nel
tentativo di chiamare le guardie.
Anche il libro cadde con
un tonfo sordo, mentre la ragazza si chinava per prendere il candelabro in oro
e chissà quale altro metallo, correndo dietro all’uomo.
Egli riuscì solamente ad
affacciarsi alle scale, gridando un ‘Gu-’ che il
pesante oggetto impattò con forza sul suo capo.
Stramazzò al suolo con un
tonfo sordo, perdendo i sensi.
Beatrice attese un paio di
minuti, sentendo il cuore martellarle nelle tempie come se stesse per
scoppiare.
Cosa aveva combinato?
Istintivamente, portò il
prefetto di nuovo negli archivio, trascinandolo per i piedi. Si chinò, portando
il pugnale alla gola dell’uomo e facendo per premere. Doveva farlo, lo sapeva
bene che doveva o l’avrebbe condannata.
La lama lasciò il segno,
ma non riuscì a far altro.
Si alzò di scatto, sapendo
di non poterlo uccidere così, a sangue freddo.
Doveva però guadagnare
tempo per portare via il libro e non rendere così tutto vano.
Corse a prendere una delle
sedie e a cercare qualcosa con cui legare Mercuri, affinché non desse l’allarme
troppo presto.
Corrompere due guardie del
cancello era stato davvero facile.
I romani erano più avidi
delle severe guardie svizzere e i due poverelli che si erano ritrovati lì
dovevano avere pochi mesi di servizio alle spalle.
Quattro ducati d’oro a
testa e avevano ceduto il posto al forlivese senza far domande.
Così, con gli occhi
puntati verso il cielo romano e le redini della sua cavalla nella mano,
Olivieri attendeva Beatrice.
Ci stava mettendo
parecchio, certo, ma dava per scontato che quello sarebbe stato un lavoro
lungo.
Guardandosi attorno al
fine di non essere visto, il rosso prese da dentro alla casacca porpora una
lettera un po’ spiegazzata. L’aveva scritta il quarto giorno a Firenze e aveva
desiderato così tanto consegnarla a Camilla …
Però non aveva avuto il
coraggio, almeno non dopo averla vista sgomitare per le attenzioni del Principe
della Gioventù .
Cos’era lui, rispetto a
Giuliano de’Medici?
Eppure il suo amore ardeva
più di cento soli e così le aveva scritto.
Lo sentiva davvero.
Sospirò sconsolato,
rileggendo quelle parole e trovandole così stupide …
Stava per appallottolare
il foglio, quando dei passi veloci per la scalinata in pietra lo riportarono
alla realtà.
Con un libro fra le
braccia, Beatrice apparve davanti a lui. Mise al sicuro la missiva con un gesto
veloce, sentendo la carta rovinarsi ancora di più. Prima di prepararsi a
montare in sella.
“Lo porto a Villa Orsini,
quindi?”
“Lo porterò io.” Rispose
la ragazza, strappandogli con fretta le briglie di mano e sistemandole. “Mi
hanno vista.” Risposte sbrigativa, mentre il forlivese la aiutava a montare in
sella. La contessa vide il terrore nelle iridi blu del giovane “Non voglio
compromettere ne te, ne Camilla o Lenzini. Torna ai
miei alloggi senza farti vedere.”
Detto ciò spronò il cavallo,
uscendo sul ponte senza guardarsi indietro.
La cavalcata fino a Campo
dei Fiori fu un’autentica corsa che, però, si concluse senza intoppi.
Entrò nella villa passando
attraverso un buco nella siepe, arrivando così nel giardino sul retro. Lì si
guardò attorno, cercando un posto al sicuro dove nascondere il prezioso volume.
Con la spada sfilò uno dei
mattoni che componevano il basamento di una statua di Ares, dio della guerra,
trovandolo vuoto come sospettava. Ripose con cura il volume e la chiave di suo
nonno, arrotolando tutto nel suo mantello, prima di sistemare i mattoni.
Si lasciò quindi cadere
sull’erba verde, fissando il sole sorgere oltre l’anfiteatro Marcello, su cui
villa Orsini era costruita.
Non aveva fretta, intanto.
Entrando nel cortile di
Castel Sant’Angelo al passo, Beatrice trovò il suo cavallo circondato da almeno
dieci guardie svizzere. La stavano evidentemente aspettando.
Una di loro si fece
avanti, con sguardo severo “Vostra Grazia, Sua Santità mi ha chiesto di
scortarvi presso le celle. Siete accusata di aver tradito la fiducia che egli
riponeva in voi.”
“Non è un’accusa poi così
grande, quindi.” Ammise la contessa, scendendo dal destriero e consegnando le
armi da un’altra guardia.
Tutte le altre abbassarono
gli archi.
Seguì il Capitano di turno
lungo i corridoi del seminterrato, sfilandosi i guanti con espressione tranquilla. Non avrebbe dato a
nessuno la soddisfazione di vedere una Medici spaventata.
Una volta giunta alle
celle –piccole e anguste, per non dire totalmente al buio se non ad eccezione
di un paio di torce- vi trovò una sorpresa.
Nella prima stavano
Camilla e Zita, sedute a terra con addosso ancora le vestaglie da notte.
Sembravano star bene, a differenza di Olivieri e Lenzini
che avevano i visi pesti e gli abiti macchiati di sangue.
Solo in quel momento,
Beatrice si allarmò.
“Dovete rilasciarli!”
gridò al Capitano, mentre questi apriva la prima cella, “Ho agito da sola,
avete capito? Vi ordino di-”
Uno schiaffo le fece
girare il volto.
“Il Santo Padre mi ha
detto di reagire così, ai vostri ordini.” Disse divertito, prima di spingerla
senza troppe cerimonie nella cella. La chiuse a chiave, ridendo di lei, mentre
Camilla le correva incontro. “Buona permanenza, Vostra Grazia.”
La contessa lo guardò allontanarsi,
tenendo una mano alla guancia, poi si rivolse a madonna Colonna “Vi hanno fatto
del male? Cosa è successo a Olivieri e Lenzini?”
Camilla la guardò
dispiaciuta, scuotendo poi il capo “Ci hanno solo fatti portare qui, ma nulla
di più. Loro due invece…” la giovane abbassò lo
sguardo “Le guardie di castello non hanno saputo dire con precisione chi li ha
pagati, così li hanno entrambi puniti.”
“Assurdo…”
Beatrice sospirò, passandosi una mano sul capo.
Lanciò uno sguardo
dispiaciuto anche a Zita, che se ne stava silenziosa in un angolo, seduta sulla
terra fredda invece di accomodarsi su un paglione.
Lei non aveva nemmeno
aiutato.
Il tempo passò lento e
madonna de’Medici iniziò a chiedersi cosa avrebbero fatto loro.
A rispondere a quella
domanda ci pensò il Papa in persona, quando arrivò scortato da quattro guardie,
con Lupo Mercuri al seguito.
Il prefetto teneva uno
straccio macchiato di rosso sulla nuca, laddove era stato colpito dal
candelabro.
Mentre sul volto di Sisto
vi era un sorrisetto crudele, l’espressione di Lupo era solo truce.
Il Papa si mise davanti
alla cella, con le mani portate dietro alla schiena e una grande soddisfazione
sul viso “Madonna de’Medici, voi fiorentini non avete alcun rispetto per
l’’ospitalità e la gentilezza.”
“La gentilezza che
volevate riservarmi la notte scorsa?” domandò sfrontata Beatrice, avvicinandosi
alle sbarre senza però toccarle.
Non avrebbe abbassato gli
occhi, ne chinato il capo.
Non si sarebbe sottomessa
o avrebbe implorato.
Se rimaneva qualcosa, da
quando aveva sposato un uomo dalla famiglia maledetta, era la dignità.
Sisto sembrava quasi
divertito, da tanta sfrontatezza. Fece un cenno e una sedia venne portata. Si
accomodò, incrociando le mani sul ventre bello pieno.
“I Figli di Mitra…. Il Turco…. Queste persone
vi tradiranno, Beatrice.” Disse calmo, guardandola con gli occhi di un padre
amorevole.
Le diede la nausea, ma non
ribatté.
Voleva vedere sino a che
punto si sarebbe spinto. Non si trovò nemmeno troppo sorpresa nel constatare
che quell’uomo abietto sapeva tutto; erano i suoi nemici, naturale che fosse
informato.
“Loro vi usano per la
vostra utilità. Quando essa si esaurirà, allora vi butteranno via o vi faranno
semplicemente uccidere.” Proseguì il Papa, incoraggiante.
La contessa tirò un
sorriso “Non so di cosa state parlando.”
“Io invece credo proprio
di sì.” Rispose prontamente Sisto, lanciando uno sguardo a Mercuri “Anche il
nostro Lupo era uno di loro, sapete? Poi ha capito che la strada giusta è
quella illuminata dalla luce divina del Signore.”
Furono quelle le parole
che portarono la contessa a tradirsi.
Guardò Mercuri con odio,
pentendosi di non avergli aperto la gola.
E così era un traditore?
Rimase zitta, mordendosi
le labbra per placare il fiume di insulti che stavano per riversarsi da esse.
Non voleva che uccidesse gli altri per un gesto che lei aveva commesso.
Fu Lupo a parlare, dopo
essersi schiarito la voce “Vostro marito è un uomo di chiesa, mia Signora.”
Iniziò, facendo qualche cauto passo avanti “Sono certa che se restituirete il libro
e vi pentirete, troveremo un modo per sistemare questa incresciosa faccenda.”
Beatrice inarcò un
sopracciglio, scuotendo il capo “Non posso.” Rispose, semplicemente.
Sisto alzò una mano,
grattandosi con fare annoiato il mento “Perché mai?”
“Perché non è più in mio
possesso.” Rispose semplicemente la ragazza, senza mostrare la paura che le
stava divorando lo stomaco “Il libro è andato.”
“Andato…”
ripeté il Papa, alzandosi dalla sedia “Non intendo mercanteggiare o tirare
fuori di bocca le parole ad una puttana fiorentina. Rimarrete qui insieme a
tutti i vostri servitori sino a che non mi direte dove posso trovare quel
libro.” La guardò con disprezzo composto, come se intendesse dirle
implicitamente che contava così poco che non si sarebbe scomposto oltre “Sarà
poi vostro marito a decidere la giusta punizione…” si
avviò verso l’uscita insieme alle guardie, lasciando lì Mercuri “Sono certo che
Girolamo troverà tutta la situazione divertente, quando tornerà a Roma!”
Una porta si chiuse con
tonfo, mentre gli occhi della fiorentina non si staccavano da quelli del
prefetto.
Solo a quel punto, Lupo
afferrò le sbarre per parlarle direttamente in viso “Fate come vi dice, o vi
brucerà per eresia.”
“Io ho ancora un filo di
dignità, Prefetto. Non la brucerò per servire quel porco.” Soffiò la contessa,
prima di dargli le spalle, camminando nella cella.
“Fate come dice!”
insistette quello, ma sotto lo sguardo spaventato e confuso delle quattro
persone che stavano lì con lei, Beatrice allargò le braccia e, parlando di nuovo
in direzione di Mercuri, scandì con voce ferma.
“Sono figlia della terra e
del cielo stellato. Di sete sono arsa…”
Solo a quel punto,
rassegnato, il prefetto lasciò il corridoio delle celle, dirigendosi verso
l’esterno.
Arrivò sino al corridoio
del primo anello, sistemandosi il cappello sul capo.
Un sussurro basso e
spezzato sfuggì dalle sue labbra, senza che egli ebbe il tempo di combatterlo.
“Di sete sono arso, vi prego, lasciate che mi
disseti alla fonte della memoria”.