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Autore: Chemical Lady    30/04/2014    3 recensioni
Beatrice, agli occhi di Girolamo Riario, non è altro che una nobile come le altre, dagli occhi bassi e pieni di riverenza, almeno fino a che non avrà la possibilità di vedere il fuoco che arde nel suo sguardo. Un segreto la lega a suo nonno Cosimo e ad un certo Leonardo da Vinci, che diverrà ben presto la tessera mancante di questo gioco pericoloso.
Cosa vincerà? L’amore per la sua famiglia e la sua città o quello per un uomo che da tutti è ritenuto al pari di un orco ma che, dietro ad una maschera di marmorea freddezza, ha molte più sfaccettature di quanto si possa pensare? Riuscirà Beatrice ad adempiere al destino per cui è stata prescelta?
Fanfiction What if, assolutamente senza pretese, con l’aggiunta di un nuovo tassello alla famiglia De Medici.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Girolamo Riario, Giuliano Medici, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve a tutti e ben trovati!

Eccomi tornata con questo capitolo che, naturalmente, sfida le leggi della buona sorte.

C’è un personaggio appena accennato e misterioso, ad un certo punto, e vi dico solo che lo ritroveremo nel sequel di questa storia.

Ipotesi su chi potrebbe essere e sul perché non mostra il suo volto?

Sisto e Mercuri danno il meglio di loro dall’inizio della fanfiction, in questo capitolo.

Specialmente sua santità.

Grazie a chi ha recensito o solo letto, love you all!

Buona lettura.

 

Jessy

 

 

No Good Deed

Goes Unpunished.

 

 

 

 

 

 

 

Parte XXIII: Il Traditore. 

 

 

Beatrice giunse a Roma con l’amaro in bocca che non era nemmeno giunto il mezzogiorno, speranzosa di ritrovare un poco di buon umore nella compagnia del marito.

Peccato che non sembrava proprio una giornata promettente, quella.

Non solo Giuliano non si era presentato per salutarla, prima di lasciare Firenze, ma anche Girolamo sembrava disperso.

Villa Orsini era praticamente vuota, disabitata, ad eccezione di Zita che era rimasta proprio in caso di un ritorno della sua signora e per governare la casa.

Il Conte Riario si era recato tre giorni prima in viaggio presso il Regno di Napoli, invitato da Re Ferrante in persona per le celebrazioni del matrimonio di suo figlio Alfonso e della contessa di Milano, Ippolita Maria Sforza, sorella di Ludovico.

Il quale, ironicamente, si era intrattenuto a Firenze sino al giorno delle nozze.

A detta di tutti, Napoli era una città oscura che celava segreti che avrebbero fatto impallidire anche l’Angelo Caduto.

Beatrice si sentì un po’ oltraggiata nell’apprendere che l’invito era stato esteso anche a lei, ma che Girolamo aveva preferito non farne menzione nella sua ultima lettera.

A detta di Zita, il Conte non si aspettava un suo ritorno per almeno un altro paio di settimane, mentre lui si sarebbe intrattenuto al massimo otto giorni. Aveva affrancato la servitù –eccetto ovviamente la schiava abissina- ed  era partito senza lasciare nemmeno due righe su pergamena.

La soluzione si era palesata ovvia agli occhi di tutti, ma ancora di più a quelli di Beatrice; si sarebbe intrattenuta a Castel Sant’Angelo, dove certamente non le sarebbe stato fatto mancare nulla.

Che il Turco avesse calcolato quella mossa o meno, era un mistero; restava il fatto che, se non fosse riuscita ad entrare negli archivi in quel frangente, non ci sarebbe riuscita mai.

Cosa piuttosto plausibile, visto che quella era tutto meno che una missione facile.

Gli archivi vaticani erano, forse, il luogo più protetto e sicuro di Roma. Forse dell’intera Italia.

Di certo non poteva chiedere a Lupo Mercuri di farle da Cicerone, o domandare un favore al Papa. Non poteva smascherarsi a quel mondo, quindi urgeva un piano.

Ne architettò uno quella stessa sera, quando mandò le sue più sentite scuse e non scese a cena non appena le fu detto che il Papa non avrebbe preso parte. Se non vi era sua Santità da offendere, allora poteva rimanere negli alloggi del conte Riario insieme a Camilla,Valerio Lenzini ed Edoardo Olivieri, a tramare.

Di base era molto semplice: mantenendo le stesse condizioni di Imola, quando Beatrice aveva lasciato Camilla al suo posto per partire con l’esercito di Girolamo alla volta di Forlì, la romana si sarebbe sostituita a lei. Con Camilla ‘addormentata’, nel suo letto, sperava di poter fugare ogni sospetto. Lenzini sarebbe rimasto nell’anticamera, a vegliare sul sonno della contessa.

Al suo ritorno, la ragazza avrebbe dato il libro ad Olivieri, che senza farsi notare sarebbe rimasto nelle scuderie esterne, che avrebbe poi portato il libro in un luogo sicuro e sconosciuto anche alla stessa Beatrice.

Avrebbero fatto tutto la notte successiva, sperando che il grande cenone che seguiva tutte le messe delle cinque della domenica pomeriggio – che il Papa lasciava sempre officiare a Giuliano della Rovere, in Laterano- rendesse tutti troppo stanchi per scampagnate notturne.

Se fossero riusciti a non farsi vedere ne sentire da nessuno, forse, non avrebbe perso la testa o rischiato quella dei suoi collaboratori.

 

 

La messa solenne si tenne in Laterano puntuale, preceduta da un rosario che pareva interminabile e straziante.

Seduta sul piccolo spalto della famiglia della Rovere, Beatrice alternava false risatine contenute per le battute poco simpatiche di Rodrigo Borgia a sorrisi sinceri verso il cugino Giacomo, sempre più in crisi per l’imminente matrimonio con la giovane da Montefeltro.

Con addosso il suo abito migliore si era poi recata alla sontuosa cena a Castel Sant’Angelo, felice di potersi appartare ai lati esterni del tavolo insieme a Camilla. Il cibo buono e la dolce musica aiutarono quando meno a far passare il tempo.

La contessa di Forlì attese che il salone prendesse a svuotarsi da solo, prima di alzarsi a sua volta da tavolo e incamminarsi con la sua prediletta verso il corridoio esterno.

Decise ad aspettare un poco, così da favorire la quiete nella quale si sarebbe poi aggirata furtiva Beatrice, si appoggiarono al parapetto della loggiata circolare, ammirando la città illuminata e il lungo Tevere.

“Sei nervosa?” domandò con voce piccola Camilla, ottenendo come risposta un lungo sospiro.

“Questa credo sia una missione ancor più pericolosa e necessaria della battaglia di Forlì, o quella nel Ducato di Modena.” Disse la giovane fiorentina, appoggiandosi al gomito e ruotando il busto verso l’amica “Se fallisco non comprometto solo me stessa, ma anche mio marito e…. Loro.”

“I Figli di Mitra?”

Shht!” Beatrice la guardò severamente, ottenendo subito uno sguardo carico di scuse dalla giovane Colonna “Se dovessero sentirci, nella migliore delle ipotesi verrei cacciata dalla città.”

“Non ti dispiacerebbe troppo, però.” Rispose la dama di compagnia, strappandole un sorrisetto “Vuoi tornare nelle tue stanze per ‘dormire’?” chiese quindi Camilla, con un sorrisetto ad incresparle le labbra. Il modo improvviso in cui lo perse fece vacillare Beatrice. Madonna Colonna fece un passo verso l’interno del corridoio, inchinandosi velocemente e tenendo il capo basso e le mani giunte in grembo.

La contessa temette il peggio e fece bene.

“Madonna de’Medici, cercavo voi.” la voce del Pontefice la fece trasalire e voltare molto rapidamente. Davanti a lei, Papa Sisto Iv sorrideva con la solita lascività. Negli occhi di quell’uomo c’era qualcosa, una scintilla che alla ragazza non era mai piaciuta.

“Vostra Santità.” Salutò ossequiosa Beatrice, baciando subito l’anello, quando la massima autorità pontificia le porse la mano.

“Speravo di poter scambiare qualche parola con voi.” disse, invitandola a seguirlo ma fermando ogni intenzione di Camilla di poterla seguire “Potere anche congedare la vostra dama. Sarò io ad intrattenervi, questa sera, con un buon bicchiere di vino prima di coricarci.”

“Come Vostra Grazia desidera.” Rispose Beatrice con un falso sorriso ben riuscito e un inchino, si voltò quindi verso Camilla, guardandola con gli occhi sbarrati e cercando di farle capire di non fare come le stava dicendo “Ci vediamo domani mattina, mia cara. Vorrò passeggiare per la città, ergo alzati presto e scegli la mia veste più comoda.”

“Come la contessa ordina.” Rispose semplicemente Camilla, inchinandosi a lei e al Papa, prima di passargli alle spalle, facendo così capire a Beatrice che l’avrebbe attesa con un solo sguardo.

Seppur riluttante, Madonna de’Medici fece di tutto per mascherare quel disappunto. Seguì sua santità e i due valletti lungo la loggiata e poi su per una piccola scalinata, fino ad un salone interno nel quale non credeva di essere mai entrata. Non si fermarono lì, però. Il Papa affrancò i due valletti e condusse Beatrice lungo una ripida rampa di scale di pietra sino al livello più alto, prima della terrazza.

I suoi alloggi personali.

Ebbe, quando meno, l’accortezza di non farla entrare nella sua sontuosa stanza da letto, ma nella Sala della Rotonda, ovvero quell’anticamera dal soffitto alto che comprendeva un’ampia finestra dalla quale spesso il Santo Padre si affacciava per l’adorazione dei fedeli.

La vista da lì era semplicemente incantevole, soprattutto in notti come quelle ove la luna piena baciava le terre pontificie.

“Mettetevi comoda, Madonna.” Le disse l’uomo con non curanza, andando a versare il vino in due calici d’oro.

Beatrice rimase impressionata da quel gesto, poiché non considerava Sisto un uomo capace di una tale accortezza. Versare addirittura il vino per la moglie di suo nipote, la quale era imparentata con la famiglia che gli dava più problemi di tutta l’Italia.

Che fosse o meno una dimostrazione di qualcosa, la ragazza non lo capì.

Si limitò ad affacciarsi alla grande finestra, godendosi il panorama.

Accettò di buon grado il calice, ringraziando come si deve Sua Santità.

Lo sentì affiancarsi a lei, scrutando a sua volta il paesaggio. Quando riprese a parlare, il tono era strano. Un tono che non aveva mai usato con lei, le pochissime volte che le aveva rivolto la parola.

“Una donna come voi immagino sia affascinata da cotale vista.” Disse, ponendo la frase in modo che non fosse affatto una domanda, quanto una sfacciata affermazione.

Beatrice lo guardò con la coda dell’occhio, costringendosi ad essere educata. Ne andava della sua vita, dopotutto “Lo sarebbe chiunque, Vostra Santità. Roma è un gioiello agli occhi di ogni re straniero.”

“Ditemi, la preferite a Firenze?”

Mai. Nemmeno sotto tortura Beatrice avrebbe ammesso una tale bestemmia. Roma era bella, certo, ma meschina. Roma era corrotta, marcia…

Nulla a che vedere con la bellezza e la purezza gentile di Firenze.

Mentre l’Urbe era uno schiaffo in pieno viso, la bella Fiorenza era una carezza sulla guancia.

Accondiscendente, sorrise “Esiste un luogo più bello di quello ove siamo nati e cresciuti? Più che della città, si rimane dolcemente aggrappati ai ricordi felici che si hanno.”

La risposta fu ben calibrata, visto che il Papa ridacchiò sotto ai baffi, allungando una mano sulla schiena della giovane. “Siete una donna molto intelligente, Beatrice. Ve lo concedo, sapete come mantenere calmi gli animi più irrequieti. Almeno, ci riuscite molto bene con mio nipote.”

“Il conte Riario mostra molta pazienza con me.” rispose la contessa, prendendo poi un sorso di vino quando Sisto la invitò con uno sguardo “Mi sta insegnando molto.”

“Quando vi ha nominato reggente ho storto il naso, ma poi mi hanno riferito la vostra bravura militare e, come il più onesto dei mendicanti di Dio, ho fatto penitenza. Il Signore, dopotutto, da a ognuno un dono e un talento. Voi siete fortunata ad averne molti.”

Tutti quei complimenti iniziavano a farla insospettire.

“La vostra avvenenza, poi, è lampante agli occhi anche di un cieco.” Eccolo, il momento tanto temuto. Avvertì distintamente la mano del Pontex Maximus scendere lungo tutta la schiena, fermandosi alla base di essa. Lo sentì accarezzarle fin troppo voluttuosamente quella zona, tanto che si irrigidì.

Il calice prese a tremarle nelle mani, tanto che per poco si versò il vino sull’abito celeste.

Non aveva paura, assolutamente no; desiderava solamente conficcare il pugnale che teneva nascosto sotto alla veste, assicurato alla coscia, nell’occhio di quel disgustoso essere umano.

“Così mi lusingate troppo, Vostra Santità.” Con la scusa di un inchino timido innanzi a tante belle parole, Beatrice si scostò dall’uomo.

Lui però non demorse. Lei nemmeno ci sperava, francamente.

“Una donna come voi, che ama il potere, saprà di certo chi può dargliene di più.” Le disse, facendosi più vicino.

La contessa tentò di arretrare lungo la finestra, ma si ritrovò premuta contro il vetro senza rendersene conto. Ancora Sisto non la toccava, ma lei poteva avvertire il suo fiato sul viso.

La stomacò.

“Io non amo altri se non mio marito e a lui sono devota.” Insistette con tono leggero, sperando di farlo demordere. Che si infuriasse o meno ormai poco importava.

Voleva che la cacciasse da quella stanza, troppo vicina ai suoi alloggi privati.

Troppo vicina a qualcosa che si rifiutava anche solo di pensare.

“Non fate la difficile, Madonna.” Continuò Sisto, iniziando però a spazientirsi. Con una mano le afferrò il polso, facendo così cadere la coppa d’oro che cadde a terra versando metà del suo contenuto sulle mattonelle lucide “Nessuno può negarmi nulla, io sono il Papa, il vicario di Gesù in terra.”

Verbo incarnatem.” Rilanciò la giovane fiorentina, smettendo di essere così ossequiosa e tenendo gli occhi ben piantati nei suoi “Non credevo che il Signore vi ordinasse certe cose, Vostra Santità.”

Quelle parole bastarono.

La mano libera di Sisto la afferrò per la gola, stringendola.

A Beatrice mancò l’aria quasi subito.

Si aggrappò al suo polso, cercando di liberarsi, ma senza successo. Seppur avanti con gli anni, quell’uomo disgustoso sembrava essere forte abbastanza da rischiare di ucciderla così, a mani nude.

“Come osi dirmi cosa il Signore vuole da me, schifosa puttana?” soffiò sul viso della giovane, guardandola negli occhi azzurri sgranati.

Il suo viso si dipinse di rabbia crudele, mentre la presa si stringeva ancora e ancora.

Lei arrancò, cercando di calciarlo o liberarsi, ma la gonna ampia glielo impediva.

La vista iniziava ad annebbiarsi mentre la sensazione di soffocamento diventava insopportabile …

A salvarla, fu solo un bussare insistente alla porta.

Senza attendere di esser ricevuto, il cancelliere Rodrigo Borgia irruppe nella stanza, rimanendo sconvolto nel trovare sua Santità in quello stato.

Appena la porta si richiuse velocemente, Rodrigo avanzò “Santo Padre, vi prego, abbiate clemenza.”

“Clemenza per chi mi offende?” domandò, guardando infervorato il suo braccio destro, prima di decidere che infondo quella giovane gli serviva più da viva che da morta. La spinse a terra, liberandola della morsa.

Beatrice cadde in avanti, ansimando alla ricerca di aria e conducendo subito una mano al collo.

Voltò il viso verso il Papa, con gli occhi pieni di lacrime e i polmoni di nuovo irrorati di aria pura. Lui però ora era troppo impegnato per vedere l’odio nello sguardo della Medici e averne paura.

“Che accade?”

“Vostra Santità, gli ottomani stanno attaccando i possedimenti di Venezia nell’Adriatico.” Disse tutto di un fiato “Il generale Montesecco vi attende per indicarvi al meglio il fatto.”

“D’accordo.” Replicò senza colore il Papa, troppo preoccupato per quelle province pontificie per potersi curare di altro “Tu riporta nei suoi alloggi questa frigida troia fiorentina. È perfetta per mio nipote.”

Senza aggiungere altro scavalcò la povera Beatrice, che rimase stesa sul pavimento sino a che la porta venne richiusa. Poi Borgia si prodigò per aiutarla a rimettersi in piedi, controllando il collo rosso.

“Uscirà un bel livido, Madonna.” Disse il cardinale, mentre lei massaggiava piano la zona dolorante. “Vi stavo cercando nei vostri alloggi, quando vi ho vista entrare qui. Siete fortunata che sia arrivato un messo con una notizia tanto scottante, o vi avrebbe anche potuta uccidere.”

“Per un istante l’ho creduto.” Ammise la ragazza “Vi devo la vita, cardinale.”

“Al momento, avete una missione ben più importante a quanto so.”

Quelle parole la gelarono sul posto.

Aveva totalmente dimenticato che Rodrigo Borgia era un figlio di Mitra, come se quella fosse un’informazione che era meglio archiviare.

Invece, in quel momento, pareva prezioso come l’acqua nel deserto.

“Lo sapete?”

“Al Rahim mi ha incaricato di farvi entrare negli archivi, sì.”

Quelle le parvero le parole più belle mai udite.

Uscirono dallo stanzone, scendendo le scale fino ai corridoi interni del terzo piano. Davanti alla porta del suo alloggio, Beatrice prese accordi. Non si sarebbero visti prima della terza ora della notte, davanti alla sala che conduceva alle cucine.

Lì lui l’avrebbe aiutata ad assolvere il suo compito.

Quando la ragazza entrò nella stanza doveva sembrare davvero sconvolta.

Camilla la fece sedere, mentre Olivieri e Lenzini smettevano di giocare a carte per montare una vera guardia. Non che fosse poi utile; se fosse entrato il Papa armato di ascia, non si sarebbero potuti opporre poi molto a lui.

Ne alle sue guardie svizzere.

Zita preparò un impacco con della menta e dell’acqua fredda per alleviare il fastidio al collo, prima di venir congedata in fretta dalla contessa.

Non doveva sapere cosa stavano tramando, era troppo leale a Girolamo.

“Intendi farlo ugualmente?” le chiese preoccupata Camilla.

A quelle parole, Beatrice non indugiò un solo istante.

“Ora più di prima.”

 

 

Incredibile quanto una piccola leva potesse nascondere.

A detta di Rodrigo Borgia, lo Speziale aveva studiato quell’imponente costruzione per renderla un ottimo rifugio in cui celare segreti.

Per questo era stato collocato lì il più grande archivi segreto del mondo civilizzato.

Spostando un candelabro da muro, si aprì un passaggio nascosto dietro ad una libreria del primo livello. Il cardinale non la accompagnò, ne disse una parola.

Semplicemente girò sui tacchi, sparendo nel buio della notte che gravava sui corridoi Castel Sant’Angelo.

Beatrice però non aveva il tempo di pensare agli strani modi di Borgia. Rialzò la leva per chiudere il passaggio, prima di buttarsi dentro per evitare che potesse lasciarla fuori.

Scese lungo una scalinata buia e stretta, maledicendosi per non aver portato con sé almeno una candela. Grazie al cielo, la camminata fu breve, anche se più di uno scalino attentò alla vita della giovane contessa.

La luce flebile si infrangeva fatua ma calda oltre la griglia di una porta metallica. Beatrice la aprì, oltrepassandola e trovandosi innanzi ad uno spettacolo consentito solamente a pochi fortunati.

In uno stanzone immenso, grande quando una basilica e di simile forma, vi erano gli archivi che tanto gelosamente il vaticano custodiva.

Camminò lungo quella falsa navata, lungo la quale erano disposte due file di scrittoi in legno pieni di carte e mappe dall’aria antica, arrivando fino a una sorta di altare sconsacrato, un’impalcatura a parte, sollevata rispetto al resto della sala e con solo una scala di marmo a condurre ad essa. Sotto vi era un vuoto piuttosto alto e oscuro. Beatrice si sporse per spiare cosa mai vi fosse la sotto, ma non intravide nulla.

Si dedicò quindi alla ricerca del volume, certa che ci avrebbe impiegato una vita.

Aveva tutta la notte davanti e sperò vivamente che le bastasse.

Prendendo una delle centinaia di candele che illuminavano lo stanzone, si aggirò fra colonne e scaffalature alte.

Comprese quasi subito il metodo di catalogazione, semplice ma efficace: sembrava infatti che i volumi fossero disposti per lingua in cui erano scritti.

Riconobbe le vaste scaffalature di testi in latino, greco antico e quello che forse era aramaico. Vi era una sezione piuttosto piccola di una lingua cuneiforme simile a rune mentre una grande il doppio era fatta di quelli che sembravano disegni.

Quando trovò i libri in ebraico, Beatrice sospirò sconsolata.

Erano un’infinità.

Si maledisse per non aver domandato ad Al-Rahim ulteriori informazioni e proseguì, guardando ogni dorso e sperando in un’illuminazione.

Sapeva che era grande e che poteva aprirlo solo lei, sicuramente grazie alla chiave di suo nonno. Oltre, non le era dato sapere.

Stava per arrendersi all’evidenza, quando un tonfo sonoro la fece trasalire. Si sbrigò a spegnere la candela, buttandola a terra mentre estraeva la spada che aveva preso ‘in prestito’ da una guardia della città.

Camminò il più piano possibile per non far rumore, arrivando infondo a un corridoio fra le librerie. Lì lo vide.

Un uomo, alto e magro, con addosso un mantello nero con sopra cucito lo stemma della famiglia Riario-de’Medici.

Troppo alto per essere sia  Lenzini che Olivieri e, cosa ancor più strana, il colore della casata era il porpora, l’oro e il  blu. Il nero non c’entrava nulla.

“Ehi, voi!” disse, ottenendo come solo risultato il vederlo voltarsi verso di lei.

Fra le mani aveva un libro, che alzò lentamente mentre un sorrisetto si increspava sulla sua bocca, la sola cosa lasciata scoperta dal cappuccio.

Ciò che avvenne dopo fu strano.

Alzò semplicemente una mano e un vento improvviso spense tutte le candele.

Beatrice si schermò gli occhi dalla polvere che si era sollevata e, quando li riaprì, dello strano uomo non vi era rimasto nulla, eccetto il tomo lasciato appoggiato sulle mattonelle fredde.

Decisa a non far domande – che tanto non avrebbero trovato risposta- la contessa si diresse verso di esso, rinfoderando la spada.

“Odio i Figli di Mitra, la loro magia e i loro libri.” Sussurrò a denti stretti, recuperando il libro.

La serratura che lo teneva chiuso era tenuto insieme da sei cinghie di cuoio, ai lati delle quali vi erano delle piccole lame sottili. Cercare di forzare quella protezione avrebbe contribuito a distruggerlo.

Con il lucchetto in mano e la sua chiave nell’altra, Beatrice iniziò a pregare.

Non sapeva nemmeno più quali Dei fossero quelli veri, ma chiunque l’avesse aiutata sarebbe stato gradito.

Infilò la chiave, la girò e le cinghie si allentarono sino a cadere.

Nascose tutto dietro ad altri libri, facendo per uscire felice con il suo premio tra le mani. Ci era riuscita, quasi non ci poteva credere!

Così trionfale, non si rese conto di essere stata incauta.

Non controllò che la via fosse libera, così appena si trovò di fronte Lupo Mercuri armato solamente di vestaglia a coprire la lunga camicia da notte e un candelabro a quattro braccia, per poco lanciò un grido.

“Contessa.” Disse lui, stupito nel trovarla lì. Il suoi occhi caddero su ciò che la giovane stringeva al petto e si sbarrarono.

“Non  fatelo …” sussurrò pianissimo Beatrice, sperando che il prefetto non muovesse un passo.

Dopo un attimo di esitazione, però, Lupo lasciò cadere il candelabro e corse verso le scale, nel tentativo di chiamare le guardie.

Anche il libro cadde con un tonfo sordo, mentre la ragazza si chinava per prendere il candelabro in oro e chissà quale altro metallo, correndo dietro all’uomo.

Egli riuscì solamente ad affacciarsi alle scale, gridando un ‘Gu-’ che il pesante oggetto impattò con forza sul suo capo.

Stramazzò al suolo con un tonfo sordo, perdendo i sensi.

Beatrice attese un paio di minuti, sentendo il cuore martellarle nelle tempie come se stesse per scoppiare.

Cosa aveva combinato?

Istintivamente, portò il prefetto di nuovo negli archivio, trascinandolo per i piedi. Si chinò, portando il pugnale alla gola dell’uomo e facendo per premere. Doveva farlo, lo sapeva bene che doveva o l’avrebbe condannata.

La lama lasciò il segno, ma non riuscì a far altro.

Si alzò di scatto, sapendo di non poterlo uccidere così, a sangue freddo.

Doveva però guadagnare tempo per portare via il libro e non rendere così tutto vano.

Corse a prendere una delle sedie e a cercare qualcosa con cui legare Mercuri, affinché non desse l’allarme troppo presto.

 

Corrompere due guardie del cancello era stato davvero facile.

I romani erano più avidi delle severe guardie svizzere e i due poverelli che si erano ritrovati lì dovevano avere pochi mesi di servizio alle spalle.

Quattro ducati d’oro a testa e avevano ceduto il posto al forlivese senza far domande.

Così, con gli occhi puntati verso il cielo romano e le redini della sua cavalla nella mano, Olivieri attendeva Beatrice.

Ci stava mettendo parecchio, certo, ma dava per scontato che quello sarebbe stato un lavoro lungo.

Guardandosi attorno al fine di non essere visto, il rosso prese da dentro alla casacca porpora una lettera un po’ spiegazzata. L’aveva scritta il quarto giorno a Firenze e aveva desiderato così tanto consegnarla a Camilla …

Però non aveva avuto il coraggio, almeno non dopo averla vista sgomitare per le attenzioni del Principe della Gioventù .

Cos’era lui, rispetto a Giuliano de’Medici?

Eppure il suo amore ardeva più di cento soli e così le aveva scritto.

Lo sentiva davvero.

Sospirò sconsolato, rileggendo quelle parole e trovandole così stupide …

Stava per appallottolare il foglio, quando dei passi veloci per la scalinata in pietra lo riportarono alla realtà.

Con un libro fra le braccia, Beatrice apparve davanti a lui. Mise al sicuro la missiva con un gesto veloce, sentendo la carta rovinarsi ancora di più. Prima di prepararsi a montare in sella.

“Lo porto a Villa Orsini, quindi?”

“Lo porterò io.” Rispose la ragazza, strappandogli con fretta le briglie di mano e sistemandole. “Mi hanno vista.” Risposte sbrigativa, mentre il forlivese la aiutava a montare in sella. La contessa vide il terrore nelle iridi blu del giovane “Non voglio compromettere ne te, ne Camilla o Lenzini. Torna ai miei alloggi senza farti vedere.”

Detto ciò spronò il cavallo, uscendo sul ponte senza guardarsi indietro.

La cavalcata fino a Campo dei Fiori fu un’autentica corsa che, però, si concluse senza intoppi.

Entrò nella villa passando attraverso un buco nella siepe, arrivando così nel giardino sul retro. Lì si guardò attorno, cercando un posto al sicuro dove nascondere il prezioso volume.

Con la spada sfilò uno dei mattoni che componevano il basamento di una statua di Ares, dio della guerra, trovandolo vuoto come sospettava. Ripose con cura il volume e la chiave di suo nonno, arrotolando tutto nel suo mantello, prima di sistemare i mattoni.

Si lasciò quindi cadere sull’erba verde, fissando il sole sorgere oltre l’anfiteatro Marcello, su cui villa Orsini era costruita.

Non aveva fretta, intanto.

 

Entrando nel cortile di Castel Sant’Angelo al passo, Beatrice trovò il suo cavallo circondato da almeno dieci guardie svizzere. La stavano evidentemente aspettando.

Una di loro si fece avanti, con sguardo severo “Vostra Grazia, Sua Santità mi ha chiesto di scortarvi presso le celle. Siete accusata di aver tradito la fiducia che egli riponeva in voi.”

“Non è un’accusa poi così grande, quindi.” Ammise la contessa, scendendo dal destriero e consegnando le armi da un’altra guardia.

Tutte le altre abbassarono gli archi.

Seguì il Capitano di turno lungo i corridoi del seminterrato, sfilandosi i guanti con  espressione tranquilla. Non avrebbe dato a nessuno la soddisfazione di vedere una Medici spaventata.

Una volta giunta alle celle –piccole e anguste, per non dire totalmente al buio se non ad eccezione di un paio di torce- vi trovò una sorpresa.

Nella prima stavano Camilla e Zita, sedute a terra con addosso ancora le vestaglie da notte. Sembravano star bene, a differenza di Olivieri e Lenzini che avevano i visi pesti e gli abiti macchiati di sangue.

Solo in quel momento, Beatrice si allarmò.

“Dovete rilasciarli!” gridò al Capitano, mentre questi apriva la prima cella, “Ho agito da sola, avete capito? Vi ordino di-”

Uno schiaffo le fece girare il volto.

“Il Santo Padre mi ha detto di reagire così, ai vostri ordini.” Disse divertito, prima di spingerla senza troppe cerimonie nella cella. La chiuse a chiave, ridendo di lei, mentre Camilla le correva incontro. “Buona permanenza, Vostra Grazia.”

La contessa lo guardò allontanarsi, tenendo una mano alla guancia, poi si rivolse a madonna Colonna “Vi hanno fatto del male? Cosa è successo a Olivieri e Lenzini?”

Camilla la guardò dispiaciuta, scuotendo poi il capo “Ci hanno solo fatti portare qui, ma nulla di più. Loro due invece…” la giovane abbassò lo sguardo “Le guardie di castello non hanno saputo dire con precisione chi li ha pagati, così li hanno entrambi puniti.”

Assurdo…” Beatrice sospirò, passandosi una mano sul capo.

Lanciò uno sguardo dispiaciuto anche a Zita, che se ne stava silenziosa in un angolo, seduta sulla terra fredda invece di accomodarsi su un paglione.

Lei non aveva nemmeno aiutato.

 

Il tempo passò lento e madonna de’Medici iniziò a chiedersi cosa avrebbero fatto loro.

A rispondere a quella domanda ci pensò il Papa in persona, quando arrivò scortato da quattro guardie, con Lupo Mercuri al seguito.

Il prefetto teneva uno straccio macchiato di rosso sulla nuca, laddove era stato colpito dal candelabro.

Mentre sul volto di Sisto vi era un sorrisetto crudele, l’espressione di Lupo era solo truce.

Il Papa si mise davanti alla cella, con le mani portate dietro alla schiena e una grande soddisfazione sul viso “Madonna de’Medici, voi fiorentini non avete alcun rispetto per l’’ospitalità e la gentilezza.”

“La gentilezza che volevate riservarmi la notte scorsa?” domandò sfrontata Beatrice, avvicinandosi alle sbarre senza però toccarle.

Non avrebbe abbassato gli occhi, ne chinato il capo.

Non si sarebbe sottomessa o avrebbe implorato.

Se rimaneva qualcosa, da quando aveva sposato un uomo dalla famiglia maledetta, era la dignità.

Sisto sembrava quasi divertito, da tanta sfrontatezza. Fece un cenno e una sedia venne portata. Si accomodò, incrociando le mani sul ventre bello pieno.

“I Figli di Mitra…. Il Turco…. Queste persone vi tradiranno, Beatrice.” Disse calmo, guardandola con gli occhi di un padre amorevole.

Le diede la nausea, ma non ribatté.

Voleva vedere sino a che punto si sarebbe spinto. Non si trovò nemmeno troppo sorpresa nel constatare che quell’uomo abietto sapeva tutto; erano i suoi nemici, naturale che fosse informato.

“Loro vi usano per la vostra utilità. Quando essa si esaurirà, allora vi butteranno via o vi faranno semplicemente uccidere.” Proseguì il Papa, incoraggiante.

La contessa tirò un sorriso “Non so di cosa state parlando.”

“Io invece credo proprio di sì.” Rispose prontamente Sisto, lanciando uno sguardo a Mercuri “Anche il nostro Lupo era uno di loro, sapete? Poi ha capito che la strada giusta è quella illuminata dalla luce divina del Signore.”

Furono quelle le parole che portarono la contessa a tradirsi.

Guardò Mercuri con odio, pentendosi di non avergli aperto la gola.

E così era un traditore?

Rimase zitta, mordendosi le labbra per placare il fiume di insulti che stavano per riversarsi da esse. Non voleva che uccidesse gli altri per un gesto che lei aveva commesso.

Fu Lupo a parlare, dopo essersi schiarito la voce “Vostro marito è un uomo di chiesa, mia Signora.” Iniziò, facendo qualche cauto passo avanti “Sono certa che se restituirete il libro e vi pentirete, troveremo un modo per sistemare questa incresciosa faccenda.”

Beatrice inarcò un sopracciglio, scuotendo il capo “Non posso.” Rispose, semplicemente.

Sisto alzò una mano, grattandosi con fare annoiato il mento “Perché mai?”

“Perché non è più in mio possesso.” Rispose semplicemente la ragazza, senza mostrare la paura che le stava divorando lo stomaco “Il libro è andato.”

Andato…” ripeté il Papa, alzandosi dalla sedia “Non intendo mercanteggiare o tirare fuori di bocca le parole ad una puttana fiorentina. Rimarrete qui insieme a tutti i vostri servitori sino a che non mi direte dove posso trovare quel libro.” La guardò con disprezzo composto, come se intendesse dirle implicitamente che contava così poco che non si sarebbe scomposto oltre “Sarà poi vostro marito a decidere la giusta punizione…” si avviò verso l’uscita insieme alle guardie, lasciando lì Mercuri “Sono certo che Girolamo troverà tutta la situazione divertente, quando tornerà a Roma!”

Una porta si chiuse con tonfo, mentre gli occhi della fiorentina non si staccavano da quelli del prefetto.

Solo a quel punto, Lupo afferrò le sbarre per parlarle direttamente in viso “Fate come vi dice, o vi brucerà per eresia.”

“Io ho ancora un filo di dignità, Prefetto. Non la brucerò per servire quel porco.” Soffiò la contessa, prima di dargli le spalle, camminando nella cella.

“Fate come dice!” insistette quello, ma sotto lo sguardo spaventato e confuso delle quattro persone che stavano lì con lei, Beatrice allargò le braccia e, parlando di nuovo in direzione di Mercuri, scandì con voce ferma.

“Sono figlia della terra e del cielo stellato. Di sete sono arsa…

Solo a quel punto, rassegnato, il prefetto lasciò il corridoio delle celle, dirigendosi verso l’esterno.

Arrivò sino al corridoio del primo anello, sistemandosi il cappello sul capo.

Un sussurro basso e spezzato sfuggì dalle sue labbra, senza che egli ebbe il tempo di combatterlo.

 “Di sete sono arso, vi prego, lasciate che mi disseti alla fonte della memoria”.

 

 

 

 

  
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