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Autore: KeyLimner    01/05/2014    0 recensioni
Chi ha la pazienza di seguire le evoluzioni cerebrali di una povera cerebrolesa alle prese con i suoi problemi relazionali potrebbe apprezzare questo racconto, in cui per l'appunto la vita di una ragazza si articola in pensieri che si dipanano come una nube di fumo nello spazio vuoto di una stanza, all'interno della quale campeggiano solo buffe ed evanescenti contro figure attraverso cui il fumo passa e si disperde nell'aria...
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Siamo tutti caricature di un volto del passato.
Mi ritrovai a pensarlo di colpo, come per un’illuminazione fulminea, che sbucata all’improvviso dalla chioma nodosa dei miei pensieri parve volteggiare leggiadra nell’aria come una foglia prima di toccare terra. Osservai per un po’ la sua danza, stregata da quel moto aggraziato e imprevedibile, prima di riscuotermi e tornare alla realtà che l’aveva generata.
Intorno a me, gente che chiacchierava, che si agitava, che faceva rumore… una caotica ma compatta massa in cui tuttavia facevano talvolta capolino degli occhi, delle labbra… delle facce. E quelle facce non erano in fondo - me ne resi conto in modo così repentino che quella consapevolezza mi lasciò quasi a bocca aperta - che una sfilata di maschere, che a tratti aderivano ai volti sottostanti, a tratti lasciavano percepire la loro dissociazione… l’innaturalezza del loro contatto stridente. E quali maschere! Che fossero modellate sulle sembianze dello spirito compresso che si agitava al loro interno, o su uno stampino esterno (ed era evidente che in ogni caso quell’esterno agiva comunque su di esse per erosione, limando, smussando o aguzzando gli angoli già formati), esse restavano come un fantasma del passato, un’ombra sfocata.
Prendiamo Veronica, per esempio. E mi voltai verso di lei come per un riflesso condizionato. Quel suo volersi distinguere, facendosi scudo delle proprie piccole stranezze contro la “normalità” degli altri… laddove gli altri invece avrebbero cercato di soffocarle, di nasconderle… non era in fondo che un tentativo goffo di assomigliare a qualcuno di cui aveva letto, o sentito parlare, o di cui si era creata un’immagine nella mente, ma sempre in relazione a qualche visione passata con cui era entrata in contatto nel corso della sua vita? O Lavinia. Sotto quel suo fare da ragazza dolce e sprovveduta… anzi, in realtà lo aveva un po’ attenuato ultimamente, forse perché dopo che Marco l’aveva lasciata aveva dovuto cercare in sé la forza per opporsi a quella terribile delusione, dal momento che la parte che recitava non le dava abbastanza armi per lottare contro di essa… dicevo, quel suo comportamento non era forse la spia di una ricerca… una ricerca in sé di qualcosa di cui aveva avuto sentore in precedenza? Cioè… quel suo romanticismo sfrenato, quella ricerca a tutti i costi di un’anima gemella che la corrispondesse in quella valle di solitudine, di un sentimento che forse il suo cuore non era in grado di comprendere fino in fondo, e che solo la sua mente - la mente, che di per sé non prova sentimenti - aveva elaborato? Un’immagine che emergeva da innumerevoli canzoni, film, romanzi… e a cosa si rifacevano quei romanzi, se non a un’altra immagine del passato, un passato anche recente, che però si rifaceva a un tempo ancora precedente e così via, risalendo il monte della storia fino a un’ipotetica vetta… dico ipotetica perché chi può mai sapere se questa montagna ne ha davvero una, con tutte le nuvole che ci sono lassù?
Persino Damon in fin dei conti si era appropriato di un’identità che non gli apparteneva. Perché altrimenti quell’ostinazione a incarnarsi in quello spirito underground… un po’ da borgataro, o da fricchettone, a seconda - perché non aveva neanche una preferenza stabile al riguardo - quando sua madre (e lo sapevo solo perché me lo aveva detto Susanna, che non saprebbe tenere un cecio in bocca neanche se fosse l’unica fonte di cibo rimasta sulla terra) nuotava letteralmente in mezzo ai quattrini?
Damon… Damon… Adesso che il suo nome era apparso come una pianta rampicante tra i miei pensieri, non potei impedirgli di mettere radici e proliferare rapidamente… e la mia testa si voltò meccanicamente a cercarlo. Lo trovai seduto ad un angolo, fermo in uno dei suoi atti di contemplazione assorta. Dio, cosa non avrei dato per conoscere quei pensieri! Il mio sguardo si fissò su di lui con una tale morbosità che sperai ardentemente che non si voltasse, perché mi avrebbe sicuramente presa per pazza.
Pensieri. Pensieri. E non pensieri astratti, ma pensieri di quella persona concreta, che stava nella mia stessa stanza, respirava la mia stessa aria, forse in quell’aria poteva percepire un frammento disperso del mio profumo nel punto in cui ero stata appena un minuto fa… magari senza accorgersene. Ed ecco dunque che la mia missione era di nuovo fallita. Non mi era riuscito di spersonalizzare quei pensieri, di astrarli, in modo tale da poterli inserire in uno schema logico che potessi comprendere. Quei pensieri non potevo comprenderli, perché non mi appartenevano, appartenevano a una persona al di fuori di me, di cui mio malgrado non potevo impossessarmi. Non potevo neanche vederli, in realtà. Solo scorgerli. Al limite figurarmeli in qualche modo… ma con un margine d’errore decisamente inaccettabile.
«È questo il tuo problema», mi ripeteva sempre Lavinia. «Tu ti sforzi troppo di capire. E certe cose… certe cose non si possono capire. Certe cose le sai e basta».
Le sai e basta. Ma cosa sapevo io? Sapevo che qualche giorno prima, da Susanna, mentre tutti gli altri stavano sul divano a sfaciolare, noi ci eravamo appartati nell’ombra, proprio sotto l’orologio a forma di gufo di Susanna… quell’orologio inquietante, che ti fissa dall’alto con quei suoi occhi strabuzzati facendo pendere la lingua a mo’ di pendola, ad un ritmo regolare che sembrava scandire in modo sconcertante i miei pensieri… e a cui pian piano anche i miei battiti cardiaci parevano uniformarsi come di riflesso. Stavamo lì, in tutti i modi… e non facevamo granché. Cioè… lui cercava di rompere un po’ il ghiaccio parlando di musica, di qualche band a cui con un po’ di sforzo mi fingevo interessata - “Massì… devo averli sentiti da qualche parte…”. Io in realtà contribuivo solo annuendo e scuotendo il capo, e accompagnando gli sporadici sorrisi con quelle riflessioni poco intelligenti. Non sapevo come comportarmi. Come ci si comporta in queste situazioni? Non credo ci sia un manualino delle istruzioni da qualche parte. “Buttati!”, avrebbe di certo gridato Susanna, se avesse potuto fare capolino sulla mia spalla come un piccolo angelo custode. “Bacialo!”. E in effetti avevo voglia di baciarlo. Me ne resi conto all’improvviso, e non riuscii più ad ignorare quella sensazione. Lui seguitava a parlarmi… a guardarmi… e tutto quel che riuscivo a vedere erano le sue labbra, che si muovevano senza che un solo suono da loro emesso mi giungesse alle orecchie.
E di colpo, mi ritrovai a baciarlo.
Dico “mi ritrovai” perché non ho alcuna memoria dei secondi che intercorsero tra il momento in cui gli stavo guardando la bocca e quello in cui le mie labbra furono sulle sue. Forse fu lui a baciarmi. O forse fui io. Non saprei dire adesso. Ma del resto, non ha neanche tutta questa importanza.
Fu un attimo. Un lungo, lunghissimo attimo, ma pur sempre un attimo. Ma in quell’attimo, successe il miracolo: il cervello si spense. Rimase come scollegato. Pareva che qualcuno avesse staccato una spina ideale dal centro della mia nuca, facendo cessare gli impulsi elettrici che facevano vibrare i neuroni nella mia scatola cranica, e di colpo non c’era più alcun cervello, ma solo il cuore… che batteva come un tamburo, frenetico e quasi ansioso, come se volesse pompare più sangue possibile prima che l’istante finisse.
Perché sarebbe finito. Non lo sapevo ancora - perché in quel momento non c’era nulla che potessi sapere o anche solo conoscere - ma l’avrei saputo presto. Non appena il cervello, allungata a fatica la mano inerte verso lo spinotto brutalmente rimosso dalla sua sede, ebbe ripreso il sopravvento. E ora che la lingua che esplorava lenta la mia bocca aveva di nuovo un nome, e così le mani che mi accarezzavano il capo, le sentivo di colpo estranee, percepivo la loro separazione da me, la distanza così indecorosamente colmata da quei tentacoli che per un attimo mi erano penetrati nella carne, entrando a far parte di me, ma che ora avevo brutalmente reciso, e che pur continuavano ad agitarmisi intorno alla cieca, sfiorandomi la pelle con i loro moncherini. Inorridii.
Non so come feci nelle settimane a venire a guardarlo in faccia, visto il modo in cui lo respinsi quella sera. In realtà, non credo che lo guardai affatto… se non come in quel momento, da lontano, quasi di nascosto, eppure con famelica brama.
Perché brama?
Già, è una domanda sensata, dal momento che un singolo istante di contatto era riuscito a provocarmi tanto orrore. Ma il fatto è, vedete… quell’istante… intendo quello che precedette immediatamente il disgusto… quell’istante era stato l’istante più bello della mia vita. E non già per l’istante in sé, quanto per la memoria che ne serbavo. Una memoria che non poteva essere alterata, per quante volte tornassi a ripescarla e per quante volte deformassi nella mia mente la sua emanazione per costruirvi sopra i miei castelli. Tutti i ricordi che avevo erano stati almeno in parte compromessi, rielaborati nella massa confusa della mia mente fino a renderli del tutto irriconoscibili nel tentativo di accordarli a uno stato presente, sicché non potevo fidarmi del tutto di nessuno di essi. Con questo unico ricordo, della durata di non più di un paio di minuti, non potevo farlo. E sapete perché? Perché non era impresso nella mia memoria, ma nella carne. Nella carne che, per il breve momento in cui la mente era stata assente, aveva immagazzinato ogni sensazione ricevuta. E se il cervello provava a intervenire a modificare quella sensazione, la carne scattava e subito levava il suo dito accusatorio. “Eh no, bella”, pareva dicesse. “Non me la fai mica”.
Quando tutto nella mia testa si ingarbugliava in un’intricata matassa in cui non riuscivo a raccapezzarmi, mi aggrappavo a quell’unico ricordo. E riuscivo a mettermi in salvo.
Faceva freddo. Fu un brivido improvviso a ricordarmelo. Mi parve di sentire la voce di mia madre. “Se avessi messo la canottiera…”. Erano anni ormai che non mettevo più la canottiera. L’ho sempre trovata antiestetica e scomoda: quando ce l’avevo non facevo altro che sistemarla e rinfilarla in continuazione nei pantaloni. Quando ancora davo retta a mia madre e la indossavo sempre, le mie amiche si erano già ribellate alle loro e non la portavano più da tempo… anzi, mi prendevano pure in giro perché non avevo le palle di oppormi. Un tempo le ragazze giravano con ingombranti sottovesti che ne modellavano la forma e costituivano uno spesso strato tra loro e la veste che le separava dall’esterno, fungendo in qualche modo da ammortizzatore; poi piano quello strato è andato sempre più assottigliandosi, finché anche l’ultima sottile membrana che proteggeva la vecchia generazione come una seconda pelle è sparita, caduta come fa la pelle dei serpenti quando è arrivato il momento di cambiarla, si è rinsecchita e alla fine se la sono lasciata alle spalle come un giubbotto inerte: solo che stavolta niente l’ha sostituita.
Possibile che questo avesse qualcosa a che vedere con quel processo di scarnificazione che parimenti aveva assottigliato anche l’ammortizzatore spirituale che proteggeva le nostre anime dalle maschere che portiamo? Un tempo venivamo abituati lentamente a indossarle, a costringerci in quelle fessure regolari che tracciano il profilo dei nostri nasi (ma non proprio i nostri nasi), delle nostre labbra (ma non proprio le nostre labbra), delle arcate delle sopracciglia (ma non proprio le nostre), era una lunga educazione impartita a suon di scapaccioni e di aspre prediche, condita da una buona dose di Cristianesimo moralista… con la sua mole di norme comportamentali preconfezionate già elaborate al punto di poter essere somministrate rapidamente e senza rischi, necessitando giusto un po’ di manutenzione ogni tanto, fra un secolo e l’altro. Alla fine, dopo qualche pianto nei i primi tempi… quando sentivamo che la maschera non ci si addiceva, la sentivamo scomoda, inappropriata… finivamo per abituarci ad essa. Fino a convincerci noi stessi che ci calzasse a pennello. Adesso i genitori non hanno più tempo da perdere con queste sciocchezze; e si trovano pure con meno strumenti… o meglio, con una maggiore quantità e varietà di strumenti (le teorie professate dalla scienza, dalla medicina, dalla pedagogia…), ma, purtroppo, spesso discordanti fra loro: e loro non hanno certo il tempo e la voglia di cercare di accomodarli perché combacino almeno in parte gli uni con gli altri, perché diano l’impressione di avere un minimo di coerenza di fondo. Così finisce che noi le assorbiamo passivamente in tutte le loro contraddizioni, che all’inizio ci lasciano un po’ perplessi ma poi diventano anch’esse familiari - come qualunque condizione a cui un essere umano sia sottoposto per un tempo ragionevolmente lungo - fino al punto che ci appaiono quasi normali, che non ce ne rendiamo neanche conto… come se la nostra educazione ci avesse in qualche modo desensibilizzati. Sarà per questo che siamo infine al punto che le nostre maschere poggiano direttamente sulla pelle senza protezioni, di modo che percepiamo in maniera molto più netta l’attrito fra essa e le nostre vere fattezze? E abbiamo finito tuttavia per desensibilizzarci anche ad esso, sicché ora conviviamo anche con esso senza farci caso, o meglio fingendo di non farci caso?
Ma tutti quei pensieri mi stavano facendo girare la testa. Meglio tornare a casa, ficcarmi sotto le lenzuola e aspettare che l’effetto della canna svanisse. L’indomani forse sarei stata più razionale… o meno razionale, che a pensarci bene era meglio. Buonanotte piccoli attori in erba, la mia performance per ora finisce qua. Ci rivedremo su un altro palco… questo si è fatto già troppo affollato…
  
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