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Autore: bluefireflies    02/05/2014    5 recensioni
| Harry\Louis | conteggio: ~3.311k | Protagonista e narratore: Niall | Note: ambientazione americana|
"E non volevo andarmene da lì, perché arrampicarmi ai ricordi della mia felicità, era ciò che mi riusciva meglio.
Io avevo il mio non nulla da portare avanti. La mia inutilità nella società da crescere. Eppure mi mancava tutto. Mi mancava l’amore e mi mancava il sorriso. (...)
E loro erano lì, con l’amore dosato al punto giusto per provocare brividi e a scatenare orchestre e sinfonie che non esistevano.
I proprietari dell’unica specie di amore rimasta, perché le altre erano andate in via d’estinzione. Gli abitanti di New York li osservavano in modo strano, forse troppo.
Due ragazzi che si tenevano per mano e ridevano come se della distruzione che avevano attorno non gliene potesse fregare assolutamente nulla. Io li ammiravo e li osservavo da lontano tutte le volte che ne avevo la possibilità. Cercavo di assorbire un po’ del loro amore come fanno le spugne marine con l’acqua salata."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Niall Horan
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note autore: 
Vi dico solo che questa è la mia prima OS larry che scrivo, ma diciamo che mi sono dedicata di più al personaggio di Niall e che ho voluto dare spazio ad una realtà che molto spesso trascuriamo. 
Spero riusciate a capire il messaggio che ho provato a trasmettere tra le 3000 e passa parole e spero riusciate a leggere anche tra le righe ;)
Il titolo della OS è stato preso da una canzone di Ellie Goulding che si intitola, appunto, figure 8. C'è anche una frase, nel testo, che riprende un verso di questa canzone.
Spero vi piaccia e niente, buona lettura


                                                                                 [dedicata a S. che c'è sempre senza saperlo.]


 

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6 ottobre, h19:34

Il cielo è grigio sopra New York.

 

 

Pioveva anche quel giorno.

Pioveva su una città che, di bello e puro, non aveva più niente; nemmeno gli abitanti.

 

New York si disintegrava giorno dopo giorno e le famiglie crescevano i bambini raccontando loro che, la patina grigia sopra il cielo, era la scia delle fatine dei sogni e non lo smog che rischiava di soffocarli tutti.

I bambini crescevano illusi e i politici illudevano i genitori, invece, convincendoli che un giorno si sarebbe sistemato tutto.

Anche i media facevano la loro parte, evitando di parlare di argomenti seri che rischiavano di turbare i cittadini riguardo il governo che si occupava di loro.

Così la popolazione di New York aveva imparato a cancellare dalla mente la rovina che li inseguiva di soppiatto, la consapevolezza di un tenore di vita sbagliato e i sensi di colpa per aver causato tutto. Perché la colpa era anche loro e del loro bisogno psicologico di costruire palazzi ovunque, di produrre più prodotti possibili, di inventare qualche nuova fonte di energia per far andare avanti il tutto, del gas delle loro macchine e del cibo spazzatura di cui non potevano fare a meno.

Avevano iniziato, così, ad allontanarsi dalle loro colpe e dall’idea che quella situazione  fosse solo e lontanamente opera loro.

Gli alberi si seccavano, ma la colpa era certamente della pioggia incessante e non dell’inquinamento.

La polpa dei pesci era nera e non più bianca, ma erano difettosi loro e quello non era certo petrolio.

I fiori appassivano di continuo e la colpa non era dell’inquinamento, naturalmente.

 

La Grande Mela andava via via disintegrandosi e la gente usciva di casa con la solita maschera di indifferenza mista ad illusione, come se quella fosse una semplice pioggia, piuttosto che la distruzione che loro stessi avevano creato.

I cittadini buttavano la spazzatura per strada, si insultavano tra di loro e continuavano a produrre prodotti da esporre sugli scaffali. Volevano tutti l’ultima novità sul mercato e così compravano, accumulavano e buttavano.

Dello schifo che produceva questa routine, non importava a nessuno.

 

 

Mi ero fermato ad scrutare il riflesso del mio viso dentro una pozzanghera di acqua sporca. Avevo gli occhi spenti e il colorito della pelle somigliava esageratamente al bianco di un lenzuolo appena lavato. Mi sembrava lontana anni luce l’ultima volta che l’azzurro dei miei occhi aveva risaltato contro lo specchio. Le labbra secche e piene di tagli e morsi causati dal mio tremendo vizio di morderle e tirarle. I capelli biondi ormai scoloriti che mi ricadevano in faccia.

E quello non sembravo più io.

 

La spensieratezza si era estinta in modo alquanto strano e rapido, insieme ad altre cose importanti e necessarie.

Come la libertà, ad esempio.

E la vita non aveva modo di essere chiamata tale, se la libertà non regnava in essa. Il mondo che significava cosa eccezionale, corpo celeste, esempio di vita, non aveva più nessuna delle tre cose.

Speravo che l’America fosse l’unica a galleggiare in una situazione del genere. E no, in un periodo ultra tecnologico come quello, non sapevo cosa stesse succedendo nel pianeta terrestre. Avevo smesso di accendere la televisione e di comprare i giornali. L’avevo fatto perché nessuna notizia positiva circolava e ciò che sentivo erano solo morti, inquinamento, incendi, slavine e morte, tristezza e morte.

Eppure alla società non sembrava importare, se dopo una serie di notizie del genere, parlavano di qualche nuovo apparecchio tecnologico o di cosa facessero i divi di Hollywood.

 

E non volevo andarmene da lì, perché arrampicarmi ai ricordi della mia felicità, era ciò che mi riusciva meglio.

Io avevo il mio non nulla da portare avanti. La mia inutilità nella società da crescere. Eppure mi mancava tutto. Mi mancava l’amore e mi mancava il sorriso. Ma l’amore mancava a tutti, anche perché gli avvocati erano i più felici della popolazione, tra divorzi e sentenze.

Era ormai un sentimento sottovalutato e inutile, quello che mi aveva portato in America, anni prima.

Si stava disintegrando anche quello e dovevo farmene una ragione, smettere di cercarlo di giorno e di notte come se, mettendolo in serra, potesse crescere e maturare.

Sembrava essercene rimasto solo un po’, in mezzo a tutta quella distruzione che incombeva su quella città che aveva fatto sognare le persone, in precedenza. Perché New York di persone ne aveva fatto sognare tante e ora quei sogni erano sepolti nella valle dell’inutilità.

Sembravo l’unico sognatore rimasto al mondo, ormai. Ero l’unico che alla domanda “che fai nella vita?” avrebbe volentieri risposto “sogno.”

E ne ero tremendamente orgoglioso, perché il mio sognare senza interruzioni, era raro, raro e impossibile.

Sognavo anche di diventare il poco amore rimasto in mezzo a quella desolazione.

 

 

Quella mattina mi ero semplicemente trascinato nella routine apatica e insensata che ero costretto a compiere. Non potevo e non volevo fare altro, ad essere sincero.

Mi stavo trascinando per le vie di New York con passo lento e svogliato, senza badare ai pedoni che mi sfrecciavano davanti, tirati a lucido come una macchina in carrozzeria, con sguardo scocciato e irritato perché mi limitavo a camminare lentamente. Ero uscito di casa senza nemmeno guardarmi allo specchio perché non avevo la forza necessaria per esaminare le conseguenze della mia insonnia, un giornale sotto braccio che avevo poi buttato nella spazzatura, perché della mia musica non c’era altro che un misero articolo di qualche riga.

Alla fine potevo sognare quanto volevo, ma non avrei comunque risolto nulla. Tra sognare nel sonno o nella realtà, non c’era differenza; la società era capace di strapparmi via anche quelli, come una sveglia rumorosa che ti riscuote malamente del sonno perché ‘svegliati, hai di meglio da fare’.

Ma di meglio non c’era niente.

 

Avevo anche provato a cercare la felicità nel reparto surgelati del supermercato –durante una sbronza pessima- ma ciò che avevo ricevuto in cambio era stata una busta di minestrone surgelato e un ‘ti consiglio di andare a dormire’ del commesso.

Era ormai un abitudine ubriacarmi fino allo sfinimento e domandare ai passanti quale fosse il treno che portava verso la felicità, non ricevendo mai risposta, se non sguardi scandalizzati e facce schifate.

Una sera mi ero seduto su una panchina già occupata da un ragazzo sulla ventina e- con ancora la mia bottiglia di vodka tra le mani- gli avevo fatto notare che il luccichio nel fondo della fontana di fronte a noi, erano le monete e non i desideri espressi da chi le lanciava. Lui aveva sorriso, forse per la pena che provava verso di me e aveva annuito, soffiando un ‘l’ho sempre pensato’ che si era volatizzato insieme alla brezza notturna.

 

Desideri e sogni erano pur sempre la stessa cosa; l’illusione trasformata in un nulla volteggiante come il ragazzo che, dopo una nottata intera tra confessioni e la bottiglia di vodka passata da una mano all’altra, se n’era andato, lasciando il nulla dietro di sé.

Il nulla totale che circondava le persone come un velo pietoso. Io che magari da quel nulla cercavo di farne tutto.

 

Delle mie canzoni e dei miei testi troppo malinconici e tristi, non importava a nessuno. E alla fine non m’importava neanche se tutto ciò che volevo era solo osservare l’unica goccia d’amore rimasta in mezzo a tutto quel fumo nero.

L’amore alla fine era come l’acqua; aveva il suo ciclo continuo di vita e non si distruggeva mai. L’amore allo stato gassoso che entrava nei polmoni, quello allo stato liquido che ti scivolava sulla pelle e quello allo stato solido che stava dentro le ossa. Non nel cuore ma dentro alle ossa.

 

E loro erano lì, con l’amore dosato al punto giusto per provocare brividi e a scatenare orchestre e sinfonie che non esistevano.

I proprietari dell’unica specie di amore rimasta, perché le altre erano andate in via d’estinzione. Gli abitanti di New York li osservavano in modo strano, forse troppo.

Due ragazzi che si tenevano per mano e ridevano come se della distruzione che avevano attorno non gliene potesse fregare assolutamente nulla. Io li ammiravo e li osservavo da lontano tutte le volte che ne avevo la possibilità. Cercavo di assorbire un po’ del loro amore come fanno le spugne marine con l’acqua salata. A volte li seguivo addirittura, rimanendo a distanza di sicurezza per non farmi notare.

Potevo benissimo definirmi un ladro d’amore.

 

Dalle persone che mi circondavano sentivo solo disprezzo, ma preferivo di gran lunga definirla gelosia, perché ormai nessuno aveva ciò che loro si portavano dietro come una scia di profumo. E si vedeva da lontano che si erano attaccati le promesse addosso con dei lucchetti immaginari.

 

In quel momento non facevano altro che camminare sorridendo e scambiandosi sguardi che parlavano una lingua ancora non tradotta dagli archeologi.

Le loro risate avevano fatto sorridere anche me, facendomi portare gli angoli delle labbra verso l’alto, ad imitare le mezzelune. Sorridevo e li guardavo mentre passeggiavano lentamente tra la gente col volto spento e col passo spedito. Venivano osservati solo distrattamente, da sguardi quasi scandalizzati perché di triste e monotono, quei due ragazzi, non avevano neanche la pelle.

Erano un germoglio tra le foglie secche dell’autunno. Erano ciò che avrei guardato per ore, senza mai stancarmi.

Portavano un sorriso nelle mie giornate senza senso, poi se ne andavano e ricadevo dentro di me, il cielo tornava grigio, le persone continuavano la loro routine di illusioni e l’aria tornava a odorare di smog e inquinamento.

La primavera finiva.

 

23 novembre, h11:27

Il palazzo di fronte prende fuoco.

 

 

 

Quel giorno non pioveva.

Ero sveglio dalle cinque del mattino anche se, in teoria, lo ero dalla notte prima, alle tre. Soffrivo di insonnia da mesi e dormire mi risultava impossibile. Avevo quindi passato la notte e la mattina tra un bicchiere di latte freddo e la lettura di qualche pagina di un vecchio libro.

 

Erano le 10:59 quando, con sguardo spento e occhiaie profonde, mi ero concesso una sigaretta sul balcone, nonostante il freddo pungente di dicembre.

Ed era lì che era successo, sotto i miei occhi che non trovavano pace e forza di dormire. Le fiamme mi avevano quasi incantato mentre il palazzo di fronte al mio iniziava ad annerirsi e sgretolarsi, sotto la forza del fuoco che distruggeva tutto. Ero rimasto ad osservare, con la pelle tiepida e l’odore di bruciato ad infilarsi prepotentemente nei vestiti.

Come un semplice spettatore su una poltrona del cinema, ero rimasto ad osservare e a sentire le sirene che riempivano le strade del centro, arrivando ovattate fino alle mie orecchie.

Nessun cameramen o giornalista aveva osato avvicinarsi per scriverne un articolo, ma la verità era che la loro schizofrenia verso la realtà, riusciva sempre ad avere la meglio su di loro.

Così li avevo visti andarsene da chissà quale parte, per portare sui giornali o alla televisione qualche articolo su un argomento a caso che non fosse New York e la sua rovina.

Ero scoppiato a ridere di fronte ad un palazzo che bruciava, tra le urla degli abitanti e le sirene dei vigili del fuoco. Non era una risata di divertimento, quella, era una risata piena di amarezza verso una città che ormai andava via a via sparendo.

Alla gente nemmeno importava del posto in cui vivevano, se avevano le loro macchine di lusso e gli apparecchi elettronici più costosi e all’avanguardia. 

Mi facevano tutti schifo e avevo voglia di vomitare.

Mi facevo schifo anche io, che non ero riuscito a mantenermi la felicità stretta nelle ossa.

 

3 dicembre, h13:13

La terra trema.

 

 

 

New York tremò per la terza volta nel giro di 24h, ma a parte qualche crepa nel terreno e qualche casa sottosopra, nessuno sembrava aver cambiato routine.

Erano le 13:13 e il ristorante nel centro di Notting Hill, non aveva perso la sua clientela per l’ultima scossa di magnitudo 5,2.

Il mio frigo risultava privo di ogni tipo di cibo commestibile che non fosse latte o barrette di cioccolato, così mi ero trascinato al ristorante in centro, per non chiudermi in casa da solo a parlare con il silenzio.

Preferivo essere solo in pubblico che esserlo fisicamente, abbandonato da ogni tipo forma di vita sulla terra. Avevo la fobia di restare da solo, l’avevo sempre avuta, eppure mi ero obbligato ad abituarmici.

 

La bistecca poco salata davanti a me sembrava essersi già raffreddata da parecchio, ma ero troppo impegnato ad osservare di nascosto lo spruzzo di primavera che sedeva a pochi tavoli lontani da me.

Avevo capito che il ragazzo riccio si chiamava Harry -che veniva storpiato dall’altro in una specie di ‘Harreh’ con le vocali strascicate tipiche dello Yorkshire- e che aveva scuri capelli ricci e occhi a cui mi risultava ancora difficile attribuire un colore solo.

L’altro era più basso di lui di qualche spanna e lo osservava con sguardo assorto e dannatamente perso.

Mi sentii male solo a guardarli, dimenticandomi della bistecca che era ormai immangiabile.

Assorbire il loro amore nelle vene, era ciò che avevo imparato a fare col passare dei mesi. Quell’amore che risultava troppo per chiunque e che traboccava dai bicchieri, scivolando sul pavimento a impregnandosi ovunque.

 

Alle 14:02 il locale si era ormai svuotato e i due ragazzi avevano abbandonato il tavolo da più di 20 minuti, eppure non avevo intenzione di alzarmi.

Ero rimasto lì seduto per un tempo imprecisato, con lo sguardo inghiottito dai pensieri e la bistecca fredda come ghiaccio.

Il mondo andava avanti, il tempo mi scorreva accanto, ma volevo solo vomitare.

 

15 dicembre, h17:44, c’è un tornado oltre la costa.

 

Avevo acceso la televisione dopo 63 giorni, 4 ore e 23 minuti che non toccavo il telecomando e, come sorpresa, mi ero ritrovato l’annuncio di un tornado che si avvicinava alla città col passare delle ore.

Lo stesso tornado aveva distrutto buona parte dell’America del sud e si avvicinava impetuoso verso New York, trascinando nel suo vorticare qualsiasi cosa.

Fu facile, per me, capire che era arrivata l’ora di lasciarmi tutto alle spalle e di prendere il primo volo verso il cambiamento.

Fu altrettanto difficile, però, accettare la realtà che in quel momento mi offuscava la mente, non permettendomi alcuna distrazione.

Non mi sentivo pronto per lasciarmi alle spalle New York e tutti i ricordi che si nascondevano negli angoli delle strade, sotto le macchine e dentro i cassetti delle case. I ricordi che mi erano sfuggiti di mano, scappandomi lontano per rifugiarsi ovunque, senza darmi modo di vivere in modo sereno, per quanto fosse impossibile.

Non potevo prenderli e chiuderli sotto chiave perché ormai erano ovunque; nel vento e nel polline dei fiori.

Perché eravamo tutti fatti di una sostanza che volava nel vento e increspava la superficie marina.

E io ero fatto di ricordi e risentimento.

 

Fu quel giorno, alle 17:44 di un martedì pomeriggio, che presi la mia decisione definitiva, quella che mi avrebbe portato ovunque, ma lontano dal territorio americano.

La decisione che mi avrebbe fatto salire su un aereo diretto ovunque o da nessuna parte. Avrei abbandonato i ricordi tra la polvere di una città che si sgretolava, speranzoso di trovare rifugio in un posto dai prati in fiore e il cielo azzurro.

 

                                                     ______

 

L’odore tipico degli aeroporti mi si era riversato contro, come una folata prepotente di vento. L’odore di centinaia di persone che in quel momento attraversavano l’androne dell’aeroporto, trascinandosi dietro valigie e borsoni dalle misure spropositate.

Mi erano sempre piaciuti gli aeroporti, forse perché in quelle persone c’erano spruzzi di colore sotto forma di emozioni, come se sui loro volti ci avesse dipinto Klimt, scambiandoli per una tela bianca.

 

Faceva tremendamente freddo e mi ero stretto nella felpa extra large che portavo, mentre mi dirigevo verso il tabellone delle partenze, per scegliere la destinazione da prendere.

 

 

 

Charlotte

Roma

Monaco

Mosca

Oslo

Atena

 

 

 

Cosa potevo scegliere come nuovo inizio?

Forse tutto o forse niente, perché non mi sentivo pronto per abbandonare quella parte di me che si era aggrappata al cemento sulle strade di New York.

Un passo indietro per la paura.

Due passi indietro per i ricordi prepotenti che mi offuscavano la vista.

Tre passi indietro verso l’uscita dell’aeroporto, verso la rinuncia per una realtà diversa, forse migliore.

Un quarto passo attutito da una persona da profondi occhi azzurri e un sorriso pieno di aspettativa, sogni e nuove speranze.

-Scusa, io…Io non volevo.- Una scusa sussurrata a labbra chiuse, la mia. Una scusa verso una persona che aveva assistito alla mia rinuncia, alla mia disfatta delle armi nel bel mezzo del campo minato.

Il quarto passo verso la resa che era stato quasi fermato da uno dei due proprietari dell’amore che mi faceva da nutrimento. Due corpi ricchi d’amore così vicini a me da farmi sentire nocivo.

 

Un sorriso sincero di quelli che stanno quasi a dire ‘ho così tanta felicità dentro che niente può farla spegnere’. –Figurati, non c’è problema.-

 

Io che però ero ancora insicuro verso le mie scelte e sul fatto che chi mi aveva fermato erano le uniche due persone con cui avrei voluto iniziare un percorso nuovo. Due persone senza la quale, andare avanti privo della loro essenza, mi avrebbe fatto tremendamente male.

-State partendo?- Una domanda sussurrata guardando prima uno e poi l’altro, con la paura tremenda negli occhi di un abbandono nella città che mi stava consumando come fa il vento con le rocce.

L’avevo chiesto come fossimo amici da sempre, come se ci conoscessimo da così tanto tempo da faticare a calcolarlo.

Una risata tutta fossette e freschezza accompagnata da un –Andiamo a Mosca e tu?-

Mosca, Mosca, Mosca.

E io dove vado? Dove sto andando? Che ci faccio qui?

-Io non lo so, non… Voglio andare via da qui, ma non sono sicuro di esserne capace. A vivere di nuovo, intendo.-

Le parole che mi erano state strappate via come il tornado che si avvicinava a New York stava facendo con gli alberi. Le parole sradicate dal terreno da due persone con gli occhi chiari come i fondali marini e con il loro rincorrere l’amore fino a formare un 8.

 

Il tempo necessario per uno sguardo pieno di conversazioni silenziose e un successivo –Se ti va puoi venire con noi. Sai com’è, non c’è due senza tre e le avventure vanno vissute in compagnia, capisci cosa intendo?- Un altro sorriso ad accecarmi la vista. Le fossette dell’altro ragazzo accompagnate da un veloce annuire.

Io? Proprio io? Davvero?

Il cuore aveva smesso di battere per poi ripartire prepotente nel petto. Riuscivo a sentirlo rimbombare nelle orecchie fino ad attutire ogni rumore esterno.

-Io… Posso?- L’avevo chiesto sentendomi un bambino che viene accontentato dalla mamma, mentre mi girava la testa e mi sentivo quasi felice.

Una risata bassa a solleticarmi la pelle, per poi ricevere come risposta l’annuire di entrambi.

-Comunque io sono Louis e lui è Harry.-

I sorrisi a sfarfallare tra la gente e i colori a riacquistare consistenza.

Un sorriso di quelli veri ad illuminarmi il volto, accompagnato da una mano tesa e da un esageratamente allegro –Niall.- che sembrava quasi urlato.

 

Il destino si era divertito a giocare con me, regalandomi quello su cui avevo rimuginato e sognato silenziosamente da mesi.

Una vita nuova con accanto un esempio da seguire e un amore da assorbire fino all’ultima goccia. Il momento adatto per dimenticarmi dei ricordi nascosti negli angoli di una città che non mi sarebbe più appartenuta. Il nocivo del sangue da disinfettare con l’aiuto di qualcuno che non fosse più la solitudine.

Lo spazio necessario per imparare ancora a sorridere e per guardare qualcuno farlo.

Una rinascita come ad imitare le fenici che rinascono dalle ceneri.

 

Fu da quel momento che dimenticai gli incendi, l’inquinamento , le bombe e i tornado. Fu quando atterrai a Mosca e mi accolse il cielo azzurro con le distese di prati e fiori ovunque, che mi resi conto che non c’era più un Io, ma un Noi.

 

L’amore a rincorrersi fino a formare un 8, un 8 dentro al quale potevo vivere anche io.    
  
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