Ancora noi
Capitolo 3 - Cuore
Bella
Tutum, tutum,
tutum...
Il rumore del battito del mio cuore si confondeva a quello delle mie dita,
che da ore ormai tamburellavano sulla mia gamba in un ritmo incessante e
nevrotico. L'intero abitacolo era riempito da quel suono. La Mercedes
sfrecciava a tutta velocità sull’autostrada quasi deserta. Era il secondo
giorno di viaggio. Il giorno precedente avevamo percorso metà della strada che
ci divideva da Denali in metà del tempo necessario:
ventiquattro ore di viaggio ridotte a meno di dodici. Normale velocità di
crociera per un vampiro.
Quando il buio era tornato a ricoprire il paesaggio, che si faceva via via
sempre più bianco, Carlisle aveva abbandonato l’autostrada, fermando la
macchina all’entrata di un Hotel. Aveva
insistito perché dormissi in un letto vero e perché facessi i miei esercizi per
favorire la circolazione come da programma. In tutti questi mesi non mi aveva
mai permesso di saltarli. Mai. Secondo il centro di riabilitazione di Seattle,
la mia condizione non era necessariamente permeante. Immaginai che, se anche
fosse stato possibile un miglioramento, ci sarebbero voluti anni, considerando
che ero rimasta mesi in ospedale – guarire da fratture multiple in quasi ogni
osso del corpo era un processo lungo e doloroso.
Avevo iniziato la riabilitazione da meno di un anno, ma, sempre secondo gli
onnipresenti camici bianchi, pur non potendomi dare certezze, con molto
esercizio e tanta, tanta tenacia e buona volontà, avrei avuto buone possibilità
di recuperare gran parte delle mie capacità motorie. Evitai di spiegare loro
che le mie capacità motorie non erano molto sviluppate già prima
dell’incidente, non credo avrebbero capito. Ma nonostante le infinite ore di
fisioterapia a cui sottoponevo le mie gambe, i miei arti inferiori non davano
cenno di voler collaborare o, forse, come sosteneva il mio padre/medico/vampiro,
era la mia mente che non trovava la giusta motivazione. Non lo sapevo. Ma avrei
comunque continuato a provare, più per non deludere Carlisle che per vero
personale desiderio di riuscita.
Carlisle avevo scelto un lussuoso Hotel, a sei ore dal confine tra il
Canada e l’Alaska. Inutili le mie proteste o il tentativo di spigargli che non
era necessario spendere centinaia di dollari per permettermi di dormire una
notte sola, inutile cercargli di fargli capire che un motel sarebbe stato lo
stesso, considerando che ero così stanca che avrei potuto dormire anche in auto
senza il minimo problema. Avevo tenuto a
fatica gli occhi aperti mentre mi obbligavo a ingurgitare ciò che lui aveva
ordinato per me con il servizio in camera, dopodiché ero letteralmente crollata
in un sonno tormentato. Quella mattina mi ero svegliata tra le braccia di
Carlisle che mi scrutava serio. L’aria più preoccupata del solito. Non c’era
bisogno che dicesse nulla, sapevo esattamente cosa era successo, anche se non
ne avevo memoria, se non sprazzi di immagine buie e confuse. Succedeva di
continuo, ancor prima dell’incidente, ma dopo la morte di Charlie, ero anche
peggiorata: crisi respiratorie notturne, attacchi di panico, convulsioni, urla.
Ad ogni risveglio le braccia di Carlisle a circondarmi, nel vano tentativo di
darmi conforto. Lui li chiamava: terrori notturni.
Come sempre dopo i miei risvegli in quelle mattine, mi accarezzava i
capelli, mi dava un bacio sulla fronte e mi depositava nuovamente sul letto
scomparendo nel nulla un istante dopo. Nessun commento, nessuna parola, nulla.
Solo il mio senso di colpa a farmi compagnia, che cresceva a dismisura proporzionalmente
con la sua preoccupazione.
Oggi era un nuovo giorno. L’ultimo giorno di viaggio verso la nostra famiglia.
Tutum, tutum,
tutum...
Sobbalzai quando la mano fredda di Carlisle sfiorò la mia, nel tentativo di
calmarmi.
«Scusami, ti sto facendo impazzire» mormorai lasciando che la vergogna per
la mia ostentata incapacità umana di controllare il nervosismo si palesasse
sulle mie guance.
Sorrise, con quel suo modo che sembrava illuminare la stanza, facendomi
sentire subito al sicuro e meno sola.
«No, ma sono preoccupato per te, sei troppo agitata»
Sospirai affranta. Come dicevo, sempre più preoccupato.
«Lo so» Eccome se lo sapevo. Sentivo il cuore premere prepotente contro la
cassa toracica pronto a esplodere da un momento all’altro, il piede - in realtà
completamente immobile - nella mia mente si muoveva incessantemente contro lo
zerbino dell’auto sotto i miei piedi, in un ritmo veloce, eco di quello della
mia mano sudata ma dai polpastrelli gelati, che ancora insisteva nel suo
incrollabile tamburellare.
Tutum, tutum,
tutum...
«Potrei darti un calmante se vuoi...»
Storpiai il naso al solo pensiero. Altri medicinali. Ne avevo presi
talmente tanti negli ultimi mesi, che avrei potuto richiedere una laurea a honorem
causa in farmacologia. No, decisamente non ne volevo altri.
«No, grazie Carlisle. Sto bene» mentii.
Non sembrava affatto convinto ovviamente, ma annuì lo stesso. Sapevo non
avrebbe insistito. Il suo rispetto per le mie decisioni – per quelle di
chiunque in realtà - era disarmante, anche se il suo istinto naturale di
risolvere i problemi lo spingeva a convincermi ad ubbidirgli, rimaneva sempre
composto e silenzioso. Tenendo per se la sua frustrazione. Mai una volta mi
aveva fatto pressioni per accettare un idea che non condividevo rispettando con
educazione e pazienza le mi decisioni.
«Certo, come vuoi» Appunto.
Sospirai tornando a guardare la strada che scorreva veloce. Eravamo in
macchina da ore ormai - era pomeriggio inoltrato, solo tre brevi soste di pochi
minuti per le mie necessità umane avevano interrotto il pressare costante del
piede di Carlisle sull’acceleratore - e considerando la sua guida, che non era
diversa da quella del resto della famiglia, non doveva mancare poi molto.
Forse un paio d’ore.
Strinsi le labbra, nervosa, cercando di non mettermi a urlare. Tra poco
avrei dovuto rivedere tutti i Cullen. Non ero pronta,
semplicemente non ero pronta. Ma lo sarei mai stata? Probabilmente no.
La mano di Carlisle riprese posto sul volante, lasciando la mia, che si unì
di nuovo al mio cuore, riprendendo subito il suo tamburellare.
Tutum, tutum,
tutum...
«Ci saranno tutti vero?» Il labbro mi doleva per quanto forte lo stavo punzecchiando,
non osavo nemmeno immaginare in che condizioni dovesse essere a quest’ora. Non
era proprio quello che volevo chiedergli comunque.
Carlisle non si scompose: «Si, tutti»
Strinsi di più i denti. Pregai di non sanguinare eccessivamente, non
sarebbe stata proprio una buona idea.
«Ehm...anche, anche Edwa...» il suo nome mi si
strozzo in gola, insieme all’ondata di dolore che portava con se. Carlisle
mosse quasi impercettibilmente gli occhi verso di me. Un occhiata veloce,
discreta, paterna «...anche lui? Ne sei sicuro?» continuai, appena mi sembrò di
aver riacquistato una briciola di controllo sulle mie corde vocali. Mi aveva
già detto che sicuramente lo avrei rivisto, aveva cercato di prepararmi. Eppure
speravo ancora di sottrarmi a quel confronto. Non avrei sopportato di vedere il
disgusto nei suoi occhi. O peggio…l’indifferenza. Rabbrividii.
“...tu non sei la persona giusta per me...”
“...il mio mondo non è fatto per te...”
«Hai freddo?» chiese evitando di rispondere. Scossi la testa ribattendo
alla sua domanda e allo stesso tempo cercando di scacciare i ricordi. Tornai a
guardarlo. Tornai a guardare mio padre. Il volto angelico di un uomo appena sbocciato,
strappato la vita prima ancora di riuscire a trovare il tempo di vivere la sua
maturità, intrappolato per sempre in una pelle morta ma dalla bellezza
incantatrice. Un uomo in grado di distruggerne un altro con una semplice carezza,
ma che a dispetto della sua natura potente e mostruosa regalava amore, dolcezza,
comprensione e speranza a chiunque ne avesse bisogno: a una madre che aveva
perso il suo bambino e la voglia di vivere, a un ragazzo orfano, dimenticato,
morente, in un letto di ospedale, a una ragazza nel fiore degli anni spezzata
dalla brutalità animale dell’uomo e a una bambina con il cuore spaccato da un
amore impossibile che piangeva sola invocando un padre che non avrebbe fatto
ritorno.
Carlisle. Mio padre.
Strinse leggermente il volante, anche se la sua espressione rimase
immutata. La compostezza che lo distingueva sembrava staccarsi un pezzo alla
volta dal suo corpo, man mano che l’auto macinava chilometri. Mi chiesi come ci
si dovesse sentire sapendo di essere diretti verso l’amore della propria
esistenza, una amore con il quale fino a diciotto mesi prima si divideva ogni
cosa, ogni gesto, ogni pensiero, ogni bacio, ogni attimo di vita rubato a un
mondo mortale, troppo stretto per un amore che non ha fine. Mi chiedevo che
suono avrebbe avuto il suo cuore se avesse potuto battere ancora, solo una
volta. E che suono avrebbe avuto il mio se si fosse fermato? E perché non si
era fermato? Quale cosa mi era rimasta in questa vita, per la quale valesse la
pena lottare, per quale cosa il mio cuore si ostinava a vivere, giorno per
giorno, palpito dopo palpito?
Per chi batti ancora stupido cuore? Lui non ci vuole più…lui non ci ama più…
“…sono stanco di fingere un identità che non è mia…”
“… è l’ultima volta che mi vedi. Non
tornerò…”
Tutum, tutum,
tutum...
«Sei nervoso?» chiesi per spezzare il silenzio e il filo dei miei pensieri
che stavano per portarmi violentemente verso mete che non volevo esplorare.
Mi fece un sorriso stanco, poi i suoi occhi fuggirono. Mi sembrò strano,
come se ci fosse qualcosa che non voleva dirmi o non poteva. Se c’era una cosa
che sapevo di Carlisle era che odiava mentire alla sua famiglia, odiava mentire
a me. Un pensiero fuggevole mi investì in tutta la sua potenza crudele e
distruttiva. Boccheggiai, aggrappandomi con ferocia al bracciolo dell’auto. La
voce allarmata di Carlisle mi arrivò ovattata alle orecchie un istante dopo.
«Bella?»
Serrai gli occhi sgranati e deglutii rumorosamente, mentre l’eco di un
ricordo lontano si aggirava indisturbato nella mia mente.
“…a quelli come me basta poco per trovare una distrazione…”
Trovare una distrazione…
Distrazione.
Tutum, tutum,
tutum... Tutum, tutum, tutum... Tutum, tutum, tutum...
Lo stridore dei freni mi risvegliò come da un
brutto sogno. Sbattei le palpebre tornando lucida, mentre le lacrime scendevano
silenziose, rigandomi il viso.
«Bella? Mi senti? Bella? Isabella, guardami.»
Mi voltai ritrovandomi davanti due occhi attenti
che mi scrutavano. Allungò una mano sulla mia fronte, poi sul mio collo, un
tocco veloce fugace, poi mi strinsero il polso, un istante. Infine, si allungarono aprendo veloci il
cassettino davanti alle mie gambe, e l’istante dopo un candido fazzolettino bianco
accarezzò gentile le mie guance, portando via le lacrime.
«Ecco.» disse con un sorriso, infilandosi in
tasca il fazzolettino. L’attimo dopo avevo un bottiglietta tra le mani. La
guardai stupefatta, ancora un po’ intontita. Da dove era uscita?
«Bevi un po’ di succo di frutta bella, ti farà
bene»
In un gesto meccanico svitai il tappo della
bottiglia e me la portai alle labbra. Bevvi avidamente e la finii in un attimo.
Carlisle sorrise. Il paesaggio intorno a noi era fermo, una distesa infinita di
bianco. Ci eravamo fermati.
«Meglio?» mi chiese serafico. A volte avevo la
sensazione che pensasse di parlare con una pazza. Le sue reazione erano troppo
controllate.
Annuii e serrai le labbra. Le parole che
premevano a uscire dalla mia bocca a formare una domanda scomoda, rimasero lì,
ferme sulla punta della lingua. Ero incapace di dirle ad alta voce. Ero
incapace di esprimere il terrore che provavo solo immaginando quell’ipotetico
scenario. Eppure…eppure questo avrebbe spiegato molte cose: la ritrosia di
Carlisle a parlare di lui in mia presenza, la capacità con la quale non
rispondeva alle mie domande sul nostro incontro ormai prossimo, deviando il
discorso in altre direzioni, il suo non riuscire a guardarmi negli occhi quando
di notte mi ritrovavo ad urlare disperata il nome di suo figlio, pregandolo di
tornare da me, pregandolo di non lasciarmi. E di nuovo quella parola vorticò
nella mia testa: Distrazione.
«Che cosa è successo
Bella?» Mi sentivo leggermente ferita dal suo comportamento. Mi stava
praticamente portando alla forca. Non potevo pensare a quello che avrei trovato
al mio arrivo. Possibile che Carlisle sapesse e avesse comunque insistito tanto
per potami con lui? Il dolore mi colpì come una stilettata al cuore. L’immagine
di Edward felice, con al braccio una ragazza immortale, bellissima, intelligente,
forte, perfetta come lui, perfetta per lui, mi invase la mente
appannandomi la vista come sale negli occhi. Edward e un'altra donna. Edward e
una compagna. Edward e una vampira. Edward e la sua distrazione. Ignorai
la sua domanda, ingoiai la mia codardia e puntai i miei occhi scuri e piccoli,
nei suoi grandi e luminosi.
«Che cosa mi
aspetta Carlisle?»
Silenzio.
«Carlisle. Per
favore.» Dovevo sentirlo. Avevo bisogno di sentirlo, per sapere. Io dovevo
sapere.
Ancora
silenzio.
«Si tratta di
Edward giusto?» Ancora silenzio. «Ha trovato una compagna vero? È questo che
non hai mai voluto dirmi? È questa la tortura a cui Alice vuole sottopormi con
questa messinscena? Perché? Non capisco? Spiegami. Cosa speri di ottenere così?
È una trovata medica?»
Sempre
silenzio. Mi guardava dispiaciuto, sofferente e impotente, occhi d’ambra
liquidi per lacrime che non potevano essere versate, mi guardava come un padre
che osserva sua figlia soffrire per un male troppo grosso, un male che nemmeno
lui, con tutto l’amore che aveva da offrire, poteva guarire, mi guardava come
il mio papà, mi guardava come Charlie. Lo sguardo sperduto, preoccupato, dopo l’abbandono
di Edward, lo sguardo rassegnato di colui che sa che non può nulla per
allievare un dolore troppo grande per essere capito, per essere guarito, troppo
grande persino per essere vissuto.
«Carlisle…ti
prego»
Chiuse gli
occhi per un istante, dolorante. Come se stesse cercando di decidere quale
decisione prendere e la scelta lo stesse dilaniando.
«Non dovrei
parlartene.» mormorò roco, senza riuscire a guardarmi negli occhi. «Non spetta
a me. Non spetta a me farti conoscere la verità. La sua verità.»
La sua verità?
Non capivo di cosa stava parlando, quale verità? Lo guardavo ad occhi
spalancati in attesa di uno sguardo, un sussurro, qualcosa, qualsiasi cosa
potesse dare una conferma ai miei pensieri. Il mio cuore non osava sperare in
una smentita.
«Carlisle, ti
prego» lo implorai, udendo appena le mie parole, quasi nascoste dal frastuono
del mio cuore. Le macchine sfrecciavano veloci accanto a noi, fermi, immobili,
rinchiusi in quell’abitacolo trasformato in un confessionale, incuranti del
mondo che andava avanti intorno a noi. Persi ognuno nel proprio dolore.
«Ho paura della
sua reazione, della tua. Ho detto ad Alice di non intromettersi, di non forzare
la mano del destino. Ma conosci tua sorella, quando si mette in testa qualcosa,
non è possibile fermarla.» Parlava in fretta, concitato, senza curarsi di
capire se lo stessi seguendo, sembra preso da una strana frenesia «Ma gli
mancate tanto sai? Tutti e due. Tu e Edward, siete così importanti per lei.
Come per me. È anche a me manca Edward. È mio figlio, ed è solo, da qualche
parte…ha sbagliato, lo so, ma è mio figlio…e Esme,
soffre così tanto…e Emmett…e Jasper, anche Rosalie…a modo
suo.»
Carlisle
continuava, perso in un fiume di parole. Sembrava le avesse tenute dentro per
un tempo infinito ed ora, ora che la diga era stata spezzata, non poteva fare
altro che lasciarle uscire, impetuose, indomabili, come un fiume in piena
spazzavano via ogni silenzio, ogni segreto, ogni paura. Ma la mia mente
vorticava insieme alla sua, cercando di dare un senso a quell’oceano di parole,
cercando di collocarle al loro posto, senza impazzire dietro al loro
significato. Ma qualcosa più di tutto aveva attirato la mia attenzione: “è
solo, da qualche parte”.
Solo. Edward
era solo. Come me. Solo. Da qualche parte.
Da qualche
parte.
Continuavo a
ripetere quelle parole, cercando di dar loro un senso, ma la mia mente non
sembrava in grado di produrre nulla che avesse realmente un senso.
«Da qualche
parte?» mi sentii chiedere, prima ancora di pensare di farlo. Carlisle si
arrestò, immobile come una statua bellissima, come una pietra durissima, come
una montagna maestosa, come un vampiro.
«Come?» chiese
di rimando dopo un secondo. Puntai lo sguardo dritto nel suo. Un lampo di pentimento
sul suo volto, subito seguito da uno di rassegnazione. Non avrei lasciato
correre. Lo sapeva lui. Lo sapevo io.
«Bella, ti
prego, è giusto che te ne parli lui. Lo vedrai tra poco. Te lo assicuro. Alice
me lo ha confermato.»
«Hai detto che
era da solo! Da qualche parte! Che significa?!» ero leggermente isterica, me ne
rendevo perfettamente conto, ma la mia ansia era incolmabile. Cosa era successo
al mio Edward? Cosa lo aveva spinto a starsene da solo…lontano, lontano
abbastanza perché suo padre o la sua famiglia ignorassero la sua ubicazione? Conoscevo
Edward, lui amava suo padre, amava la sua famiglia, cosa poteva essergli
successo per rinunciare a loro.
«Bella calmati.
Non agitarti.» mi liberai dalle sue mani che erano corse sulle mi spalle, in un
vano tentativo di fermare i miei tremori.
«NO. NO.
Dimmelo! Dimmelo! Voglio saperlo! Che significa!? Dimmelo!» Respiravo
affannosamente, le lacrime scendevano senza che potessi far nulla per fermarli,
il cuore mi batteva così forte che mi faceva male. Portai una mano al petto per
riflesso, nel vano quanto stupido tentativo di alleviare il dolore. Carlisle
inspirò bruscamente, sembrava terribilmente spaventato dalla mia reazione e
terribilmente indeciso su cosa fosse giusto fare. Improvvisamente si passò le
mani tra i capelli, esattamente come avrebbe fatto un umano sull’orlo di una
crisi di nervi. In quel gesto mi ricordò così tanto Edward che fu quasi
doloroso guardarlo. Si mosse di nuovo, veloce, afferrandomi ancora per le braccia
impedendomi di agitarmi. Il movimento improvviso mi tolse il fiato per un
attimo.
«Va bene Bella.
Va bene. Ha vinto. Ti dirò quello che sta succedendo, ma prima tu ti calmi. È un
patto che facciamo. D’accordo.»
Strinsi gli
occhi e presi fiato, cercando di imprigionare l’aria nei miei polmoni
abbastanza a lungo per permettermi di parlare.
«Da-da-d’accordo.»
Edward
Settecentoventi giorni, 21 ore, 31 minuti
e 44 secondi.
Emicrania. Era
quello che mi sussurrava la ragione in questo momento. Il dolore pulsante, la
mente confusa, gli occhi neri nonostante la caccia, le membra stanche, la
spossatezza. Emicrania.
Ero in Alaska
da... da un po’. Il viaggio non era che una macchia confusa nella mia memoria.
Corsa, corsa, caccia, corsa. Il tutto mischiato con parole, parole
irricordabili, parole che non arrivavano mai ad essere assorbite dalla mia
mente.
Alice.
Alice era con
me. Un bacio sulla guancia. Un carezza sulla nuca. Ancora corsa.
Occhi tristi.
Occhi di mia sorella. La pioggia. Il sole. La notte. Il giorno. Le nuvole. La neve.
Casa. Mamma. Neve. Neve. Neve.
Aurora. Rosso.
Bianco. Raggi rossi su neve bianca. Bianca come la pelle di una giovane donna
dai capelli castani e gli occhi di cioccolato. Rosso come il liquido che scorre
sotto le vene di una pelle diafana, sottile, fragile. Rosso come il sangue che
le imporpora le guance dopo una parola sussurrata, dopo un bacio rubato.
“Il crepuscolo” sussurra
la mente di mia madre. Aurora. Bella. Risponde, muta, la mia.
La mia mente.
Perforata da
migliaia di pensieri, domande, preoccupazioni, preoccupazioni per me, da ore. Voci
riempivano i vuoti lasciati tali da troppo tempo. Le loro voci. La mia
famiglia.
Io. Chiuso in
un religioso mutismo. Non volevo, non potevo, parlare con nessuno. Non ne avevo
forza, né volontà.
La mia mente
aveva registrato variazione innegabili nelle persone che mi circondavano. Cambiamenti
avvenuti dopo quel giorno nel bosco. La mia famiglia era cambiata. Quando ero
arrivato qui, in Alaska, nella nostra vecchia casa, avevo subito notato una
mancanza importante, mio padre, Carlisle, non c'era. La mia coscienza, il mio
pilastro, la metà buona del mio mostro.
Mi erano
bastati pochi pensieri rubati, per capire che non era solo assente, ma mancava
da tempo. Lo leggevo nei pensieri pieni di interrogativi dei mie fratelli, in
quelli preoccupati e nostalgici di Esme. Tuttavia la
mente di mia sorella, l'unica che avrebbe potuto darmi delle risposte, era
stranamente...sfuggevole. Cercava di evitare di pensare a qualcosa, ma ero
troppo apatico, e troppo disinteressato per impegnarmi a scoprire di cosa si
trattasse.
Quella mancanza
mi aveva scosso, sottraendomi per pochi secondi alla mia agonia, poi tutto era
crollato di nuovo. Come prima. Peggio di prima.
Mi mancava la
mia sofferenza, la mia solitudine, il mio purgatorio. Un purgatorio dove potevo
vivere ogni istante nel ricordo dei suoi sorrisi, delle sue risate, del tocco
delle sue labbra sulle mie.
Bella...
Settecentoventi giorni, 21 ore, 33 minuti
e 18 secondi.
E poi
finalmente silenzio. Piano piano avevano smesso di fare domande, rassegnati al
fatto che comunque non avrebbero ricevuto risposta. Li ringraziai mentalmente.
Lasciando libera la mia immaginazione di richiamare ancora il suo ricordo a
farmi compagnia.
Volevo toccarla
ancora, anche solo una volta, per poter sentire il suo profumo, così dolce e
così tentatore. La mia droga. La mia estasi.
Bella...
In piedi, in
veranda, con lo sguardo perso nel paesaggio freddo e bianco dell'Alaska - lo
stesso che avevo fissato a lungo per ore, quando ero scappato da lei, quel
giorno, subito dopo la lezione di biologia più lunga della mia vita, lo stesso
paesaggio che mi aveva mostrato la via da percorrere, lo stesso che mia aveva
spinto di nuovo da lei – li immobile, osservavo il tempo passare.
Settecentoventi giorni, 21 ore, 39 minuti
e 13 secondi.
In lontananza
un rumore di pneumatici che sfrecciava sull'asfalto coperto di neve. Non ci
badai, era un rumore come tanti, o almeno non ci badai finché non sentii i
pensieri della mia famiglia martellarmi il cranio.
Erano in
fermento. Sospirai seccato.
“Finalmente,
mi è mancato così tanto” Esme.
Quindi era
Carlisle. Rimasi immobile, vedendo i membri della mia famiglia accalcarsi, uno
dopo l'altro, sul ciglio della strada, in attesa, impazienti di un padre che
faceva ritorno.
Un pensiero
però, un pensiero volutamente rivolto a me, richiamò il mio interesse.
“Edward...sta
calmo” Alice.
Ansimai. Di che
parlava adesso? Da quando ero arrivato ero rimasto qui, su questa veranda a
fissare il vuoto. Non avevo mai parlato, non avevo mai mosso un solo muscolo,
non avevo rivolto nulla a nessuno. Solo un sorriso, ad Esme,
per farla felice. Era stata dura già solo fare quello, ogni relazione con il
mondo esterno, con la realtà, la realtà in cui lei non c'era, mi infieriva un
immenso dolore. Morte, ti aspetto. Mi senti?
Vidi nella
mente di Alice formarsi l'immagine di me, che confuso le porgevo la mia
domanda.
“Capirai...solo
cerca di...non fare...niente di stupido”
Ancora pensieri
trattenuti.
Annuii appena.
Nessuno si
accorse di nulla. Come sempre quando io e lei comunicavamo.
Non avevo la
minima idea di quello che stava dicendo, ma annuii comunque sperando che mi
lasciasse in pace.
Ovviamente
avevo sperato troppo.
“Avresti
almeno potuto cambiarti, da quanto tempo indossi quei vestiti?”
Non risposi.
Alzò gli occhi
al cielo. “Va bé non importa, non lo noterà
nemmeno”
Alzai un
sopracciglio. Come se a mio padre potesse importare cosa indossassi. Perchè era così insistente? Perché non mi lasciava solo?
“Eccoli!”
Eccoli.
Plurale. C'era qualcun altro? Non feci in tempo a finire il pensiero che un
suono, un suono che avrei riconosciuto in mezzo a una folla di mille altri
suoni, mi colpì in pieno petto. Era vita, era amore, era morte, era tormento.
Era paradiso. Era inferno.
Tutum, tutum,
tutum...
Il suo cuore. Il mio cuore. Bella.
Le forze mi
vennero meno, tante erano le emozioni che mi attraversarono in quel momento,
troppe per un vampiro. Le mie mani si artigliarono alla grossa trave di legno
che reggeva il tetto della veranda, in un disperato tentativo di sostegno, per
impedirmi di crollare a terra, in ginocchio. Scricchiolò sotto la mia presa.
Animata da una
forza più grande della mia volontà, la mia testa si voltò lentamente, a seguire
quel dolce suono ipnotico, in grado di riportare in vita il freddo cuore di un
vampiro e di scaraventarlo all’inferno.
Profumo di
fresia.
Bella.