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Autore: marani    06/05/2014    1 recensioni
Il primo dei due racconti che fa parte della mia personale 'bilogia' dedicata alle due persone che mi hanno messo su questo mondo. Un 'posto' anomalo e magico. Un bizzarro testamento verbale. Una tormentata discesa nel profondo dei rimpianti e dei rimorsi, alla ricerca di una innocente fanciullezza che razionalmente parebbe persa per sempre. A meno che...
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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4.

(TLAC)
Perché non sono mai andato oltre ? Mmh, bella domanda, di quelle da cento milioni. Se voi conoscete la risposta, fortunatissimi. Per quel che mi riguarda, non ne ho la più pallida idea. Ci ho pensato su, ci mancherebbe, dandomi di volta in volta dell’assurdo, del cretino o del codardo, anche se quest’ultima definizione presuppone una controparte di cui si abbia paura, mentre quel viottolo è tutto fuorchè una cosa spaventevole. Ci ho rimuginato su per gran parte della notte, a volte, ma forse solo perché avevo esagerato con la peperonata a cena, e in altri momenti ci pensavo talmente su da caricarmi come un pugile in vista del match per la corona mondiale. Stasera ci vado, mi ripetevo compilando bollettini e libretti di assegni dietro il vetro del mio sportello, stasera arrivo là e, senza neanche rallentare, sfreccio oltre il ponticello, fermando la bici solo una volta giunto sulla sommità dell’argine, dove potrò finalmente vedere… Non l’ho mai fatto. Non l’ho ancora fatto. Oh certo, ci sono state occasioni in cui mi sono spinto sino all’imbocco del ponte, e una volta in cui ero particolarmente ispirato (avevo sognato Sandra, e quel modo tutto suo di osservarmi piegando un po’ la testa, come se mi studiasse ancora dopo secoli di vita insieme) ho appoggiato il palmo della mano su una delle pietre della spalletta. Era calda di sole, come doveva essere, e ruvida e reale.
(TLAC)
(RIAVVOLGIMENTO. ASCOLTO)
(TLAC)
Ho voluto riascoltare quest’ultima parte, dato che mi era uscita tutta d’un fiato quasi senza che me ne accorgessi. Non ho niente da rettificare, se non che anche quel reale mi è scappato fuori del tutto spontaneo, pur rendendomi conto della sua palese assurdità. Non so se vi ho dato questa sensazione, ma non volevo affatto trasmettervi l’impressione che stiamo parlando di un sogno, o un’apparizione magica… Ad ogni modo per alcuni giorni, dopo la seduta fotografica, non ho potuto fare il mio solito giretto serale. Un pomeriggio ha fatto quattro gocce, e non amo particolarmente pedalare sotto l’acqua (sono della generazione dei "Corri piano se no sudi" e dei "Rimettiti immediatamente la canottiera !") e poi ho dovuto occuparmi di una delle solite crisi di mia madre, per evitare che facesse impazzire troppo gli infermieri e i volontari della casa di riposo in cui è ospite. Immagino vi starete aspettando ora la balbettante ammissione che l’impossibilità di fare una capatina sino al viottolo abbia scatenato in me un’irrefrenabile crisi isterica, simile all’astinenza di un tossicodipendente… Mi dispiace deludervi, ma non è accaduto niente di così morboso. Anzi, non è successo proprio niente di niente. Sì, d’accordo, un pelo mi era dispiaciuto, ma nulla di più di un’assennata e normalissima delusione per non poter vedere una cosa particolarmente piacevole. Mi "consolai", sempre per modo di dire, con la foto che avevo attaccato al pannello degli appunti nel mio striminzito sportello bancario. E con la sua "gemella" sulla lavagnetta della cucina. Beh, ve lo detto che avevo scattato due pose, per sicurezza, e non vedo perché avrei dovuto buttarne una. A tratti, quando non c’era nessun cliente davanti a me, mi ritrovavo ad osservarla (ad osservarla normalmente, non "ipnotizzato" o "ammaliato", tanto per esser chiari). Nonostante non fossi per niente un Oliviero Toscani dal punto di vista fotografico (oltre che un Sean Connery da quello estetico), la foto rendeva tutto sommato abbastanza giustizia al luogo, anche se ritenevo umilmente che buona parte della sua riuscita era dovuta all’indiscutibile bellezza del soggetto. Quello che suonava del tutto bizzarro, a pensarci bene, era che un’ipotetica didascalia a quell’immagine non sarebbe affatto stata "Paesaggio italiano - Toscana" o "Landscape of Sussex", bensì una molto meno suggestiva "Z.A.I. di Bugano - frazione di Torri di Arcugnano".
Ecco, l’ho detto, più o meno, dove si trova quel posto. Beh, poco male, non era mia particolare intenzione di fare il misterioso, né tantomeno di tenere per me questa informazione. In fondo quel viottolo non è certo nascosto, né segreto, sta là e chiunque lo può vedere con i propri occhi, se crede, quando meglio gli aggrada, mattina, pomeriggio o sera… E’ buffo, non ho mai provato alcuna curiosità di farvi una capatina dopo il tramonto. Ecco, lo sapevo, adesso starete pensando tutti che qualcosa… a livello del mio subconscio… mi ha prudentemente consigliato di stare alla larga da quel posto al primo calar delle tenebre… Uff, ve l’ho detto, non ho nessun motivo di ritenere che ci sia qualcosa di inquietante, di minaccioso, o ancor meno di stregato, in quel pezzo di campagna. E’ possibile che
(forse)
un attimo... azzardo qui un’opinione personale, magari un po’ prematura… sarebbe il caso di fare ancora due chiacchiere, prima di scoprire le carte in tavola, ma se il mio soliloquio mi ha condotto sin qui… dunque, in totale franchezza, alla luce di tutto quello che ho dedotto sino ad oggi, è possibile che io prenda in considerazione l’ipotesi che quel posto sia in grado di… come dire… di fare qualcosa, anche se metterei all’istante la mano sul fuoco che non si tratta di niente di negativo o maligno.
Oh, e questa l’ho detta !
Tornando a noi, lo ribadisco ancora una volta, chiunque passando di là (anche in auto, basta che non vi distraiate al punto da farvi arrotare da un tir impaziente, e può succedere, non mi stancherò mai di ripeterlo) può voltare la testa e farsi riempire gli occhi e il cuore di ’sì tanta bellezza. E’ capitato a me, e non sono neanche l’unico (poi ne parliamo), e se voi al contrario ci tenete la mortadella sui vostri, di occhi… beh, senza offesa, ma non è certo colpa mia… Il meccanismo è talmente semplice e lineare: fate un salto fin là, date un’occhiata al ponticello… e lo attraversate. Tac. E che ci vuole ? Io, ad esempio, che sto qui tanto a fare il saccente, non ci sono ancora riuscito. Non so cosa me lo abbia impedito, se mi è mancato il coraggio (coraggio di che ?) piuttosto che la curiosità o la forza di volontà. Boh. Non mi è venuto di farlo e tanto fa.
Sapete, ci ho riflettuto su, e non mi crea particolari problemi l’eventualità di passare per sciroccato. Per tutta una serie di motivi. Primo, perché se qualcuno… chissà chi, poi… sta ascoltando queste mie frasi registrate, vorrà dire che il sottoscritto, bene o male, non è più in circolazione, e quindi... In secondo luogo, poi, non credo di trovarci niente di così disdicevole, nell’essere matti. Ci sono un sacco di tipi di "mattitudini". I calpestaneonati e gli abbattigrattacieli di cui sopra, ad esempio (quelli sono matti veri, e cattivi, per giunta. Di quelli sì, che c’è da averne paura, altro che di un innocente viottolo). Ma c’è anche gente che parla con i gatti, e si diverte ad abbracciare gli alberi, e pensa che calpestare i segni di giunzione tra le lastre di un marciapiede possa causare sconquassi indicibili. Mia madre, per dirne una, il più delle volte mi scambia per qualcun altro e mi chiama Gianni o Alfredo (i nomi di suo marito e di suo fratello) ma mai al mondo oserei pensare che le manchi qualche rotella, per questo. Se sono matto e questo fa sì che comunque io non arrechi il minimo danno ad alcuno, riuscendo nel contempo ad allacciarmi le scarpe, a compilare bollettini per il versamento nei conti correnti, e ancora a tenere un comportamento civile e cordiale con la gente che mi circonda… beh, allora mi metto in nota per la qualifica di picchiatello !
Decidendo così di correre il rischio di passare per tale, vado avanti con l’esposizione delle mie personali teorie riguardo a quel delizioso viottolo.
Dunque… prima Teoria Vicariana su dove finisce il mondo: quel posto così denominato è reale, sta al chilometro tot della statale Riviera Berica e non fa assolutamente niente per sottrarsi agli sguardi dei passanti.
Postulato: evidentemente è un problema dei suddetti viandanti il riuscire a vederlo o meno. Forse è necessaria una particolare condizione dell’animo. Può essere che occorra averne voglia, di vederlo, oppure c’è un momento, uno stato d’animo, un dato grado di umidità, o di luminosità (magari di luminosità interna, anche se io mi sento tutto fuori che rilucente) che fa si che ciò possa avvenire. Se c’è, tanto per mettere le mani avanti, io ne sono all’oscuro.
Seconda Teoria: quel viottolo, e il ponticello che porta ad esso, sono assolutamente percorribili, non sussistono impedimenti di sorta, sotto forma di cani ringhianti o contadini armati di forcone, in definitiva nulla che ci vieti di salire sull’argine e dare un’occhiata a quel che c’è al di là (presumibilmente una piatta distesa di campi coltivati) e se qualcuno non riesce a compiere i passi necessari (sto alzando la mano come uno scolaretto diligente) dipenderà forse dal fatto che
Che non sono pronto. Sì, lo so che suona alquanto deludente come analisi finale, e che non sa per niente da formula scientifica (né tantomeno magica) ma questo è tutto quello a cui sono arrivato.
Vi dicevo di mia madre. E’ricoverata (anche se la Direzione della casa di riposo preferisce considerarla "ospite") in una struttura assistenziale a pochi isolati da dove abito. Un pensionato, un ospizio, nè più nè meno. Non cambia il senso delle cose. Un veciodromo, lo chiamava uno che conoscevo. Sono anni che è ospite, da poco dopo che è mancato mio padre. Abitavano in un minuscolo appartamentino al piano rialzato di una di quelle case del vecchio quartiere dei Ferrovieri… avete presente, no ? Quello che sembra in tutto e per tutto un quartiere operaio inglese, con i fabbricati di mattoni rossastri e le porte d’ingresso tutte uguali e anonime come file di soldati impettiti. Hanno vissuto là, assieme, con tre o quattro gatti, a seconda, e le loro rigogliose piante di fiori coltivate su un minuscolo terrazzino che dava sulla via (rigogliose mica per niente, visto che per tutta la loro vita hanno gestito una fioreria) fino al giorno in cui un infarto si è portato via mio padre. Per mia madre, testarda come tutti gli anziani che hanno penato per guadagnarsi da vivere e crescere i propri figli, non era prevista alcuna soluzione alternativa, perlomeno diversa dal fatto che lei avrebbe continuato ad abitare nella casa che aveva diviso con l’uomo della sua vita, continuando imperterrita a far sloggiare i soriani dal divano riparato da un telo di plastica. E a far sbocciare peonie e campanule, ciclamini e geranii in un tripudio di colori e profumi che faceva bonariamente avvelenare il fegato alla mia invidiosa moglie. Per un pò è filato tutto liscio. Io e mio fratello Federico ci alternavano per capitare "casualmente" da quelle parti (guai a farsi sgamare che la visita non fosse per niente casuale o disinteressata, ma bensì un’odioso sopralluogo di controllo, come se lei, che ci aveva messo al mondo e nutrito e vestito ed educato, non fosse in grado di badare a sè stessa), quando non ci riunivamo là con le nostre famiglie per qualche ricorrenza particolare. Poi sono cominciati i problemi, dapprima in sordina, subdolamente camuffati da banali incidenti. Il telecomando della tivu "dimenticato" da qualche parte, nel bagno o dentro un cassetto. Un intervento urgente per correre là col secondo mazzo di chiavi, per permetterle di rientrare in casa dopo che sbadatamente si era tirata la porta alle spalle. Il giorno d’inverno che una telefonata preoccupata dei vicini ci costrinse ad andarla a recuperare mentre passeggiava in vestaglia sul prato spelacchiato e ghiacciato del parco giochi che sorgeva al centro del quartiere, capimmo che le cose non stavano affatto andando bene. Quando la avvolsi nel mio giubbotto per evitare che si trasformasse in un surgelato di madre, sbraitandole contro a metà tra l’indignato e il preoccupato, lei mi guardò con uno sguardo perso e desolato, sostenendo, candida ma risoluta, che se non si fosse affrettata a correre ad aprire la fioreria, la figlia dell’avvocato Peron non avrebbe mai ricevuto in tempo il boquet per il suo attesissimo matrimonio. Come avrete capito, la primogenita del legale in quel preciso istante, o giù di lì, stava probabilmente festeggiando le proprie nozze d’argento, se tutto era filato liscio, e la fioreria dei miei aveva lasciato il posto ad un negozio di dischi da tempo immemorabile.
Da quel momento in avanti, come un microscopico sassolino rotolante che abbia come unica colpa quella di essere l’innesco di una valanga inarrestabile e disastrosa, le cose cominciarono a precipitare. Gli episodi di smemoratezza (di assenza, come li definì malinconicamente mio fratello Federico dopo avervi assistito senza che la "sorvegliata speciale" se ne accorgesse) presero ad assumere valenze decisamente preoccupanti. Il poco affascinante gioco di prestigio conosciuto come "portentosa sparizione del telecomando" andò in scena ancora in un paio di occasioni, prima di diventare definitivo una domenica di fine novembre. E la volete sapere una cosa ? Non venne più ritrovato. Le minuziose ricerche da parte di una solerte task-force costituita da Sandra e il sottoscritto, da mio fratello con sua moglie Lisa, più il determinante contribuito del piccolo Armando, il loro figlioletto di otto anni, che si intrufolava con comico impegno in ogni anta di armadio e sportello di mobile (mentre mia madre al centro della sala, smarrita e fragile da strizzare il cuore, insisteva a spergiurare di non averlo toccato. E guai a metterlo in dubbio, anche solo con un’alzata di sopracciglia un po’ troppo ostentata) non diedero il minimo risultato positivo. E tantomeno durante i cupi e polverosi giorni in cui io e mio fratello ci siamo massacrati in una colossale ripulita al minuscolo appartamento, all’indomani del ricovero di mia madre (del diventare ospite) in casa di riposo. Il ricercato non saltò mai più fuori.
Le cose… le piccole cose, i lievi spostamenti… le bizzarrìe…niente di eclatante o drammatico, e proprio per questo ancora più agghiaccianti… di cui io e Federico abbiamo dovuto prendere atto in quella nostra opera di bonifica… Ritengo del tutto fuori luogo spendere adesso ulteriori parole per puntualizzare qualcosa di più, al riguardo, e soprattutto che sia ininfluente ai fini di questa mia… relazione. Ed oltretutto, a voler dire le cose come stanno, il mio desiderio più pressante vorrebbe essere quello di evitare che quei ricordi si facciano troppo strada all’interno della mia testa (e della mia anima), perché ancora oggi, ad anni di distanza, conservano tutto il loro maligno potere di lacerare e straziare con aculei intrisi di bruciante veleno. Piccole cose, ve lo garantisco, ma con tutta l’orrenda capacità di connotare, come inattaccabili indizi di un delitto perfetto, la lucida ed inesorabile dipartita di un essere umano verso l’oblìo. Ci sono volte, dopo che magari ho esagerato con le strigliate a mia madre in seguito a qualche sua "escandescenza" un po’ troppo oltre le righe, in cui mi ritrovo impalato nel soggiorno di casa. A fissare il mio, di telecomando, diligentemente parcheggiato al proprio posto ufficiale sul bracciolo di sinistra del divano. Me ne rimango lì, con lo sguardo appannato, a lambiccarmi il cervello nel chiedermi che razza di fine abbia fatto, quell’apparecchietto pieno di pulsanti colorati. Dove diavolo possa essere finito. E ogni volta non riesco a fare a meno di immaginare la minuscola figura della donna che mi ha donato la vita, di vederla afferrare quell’aggeggio, portandoselo con sè nei borbottanti andirivieni all’interno dell’appartamento (e del terrazzino ? All’esterno della via ?) sino a lasciarlo cadere. Lasciarlo cadere dove ? Dove, mamma, in quale misteriosa piega del tempo e dello spazio hai fatto sparire quel dannato telecomando ?
A quel punto mi riscuoto, mentre i turbolenti pensieri si dissolvono come effimere bolle di qualche magma ribollente, e procedo lungo la mia grigia giornata, dandomi sonoramente del coglione, nel profondo della mia anima, per aver sbraitato ancora una volta contro quella creatura indifesa e senza colpa che se ne sta là, ospite di quel… quella specie di limbo in terra…
La decisione del ricovero è stato sofferta ma inevitabile, anche a sentire il professionale parere del medico di famiglia. Non sarebbe stato salutare attendere che le piccole cose si tramutassero in grandi, rischiando di divenire pericolose, con la concreta possibilità che altri oggetti, ben più importanti, seguissero le orme dell’aggeggio atto a cambiare canale. Che so, il libretto della pensione piuttosto che i gioielli di famiglia a cui mia madre era molto affezionata. Poca roba, non certo il tesoro della Corona britannica, che comunque non era il caso di metterli in condizione di finire la loro luccicante esistenza in un’aiuola dei giardinetti, o in qualche altro posto ancora meno decoroso. E poi in quella casa i gatti avevano preso il sopravvento, "subodorando" forse lo scemare dell’autorità della loro stranita padrona, e più di qualche volta l’avevano battuta sul tempo, balzando sulla tavola per far fuori lo scarno pasto che lei si era preparata, sfrontati e perfidi come solo i felini sanno essere. Fummo costretti ad appoggiarci ad una struttura assistenziale, volenti o nolenti. Checchè se ne dica, certe cose non si possono improvvisare, soprattutto nei riguardi di situazioni così degenerative. E poi, con tutta la buona volontà, a quel tempo sia io che Sandra stavamo fuori casa per lavoro per la maggior parte del tempo, e i metri quadrati dell’appartamento di mio fratello bastavano a fatica per sé e la sua poco numerosa famiglia.
Mio Dio… me ne rendo conto, non sono tenuto a dirvi tutto, a raccontarvi per filo e per segno ogni sventura della mia vita come se queste fossero delle memorie autobiografiche anziché il pretesto per parlarvi di quello che ho scoperto. Per questo vorrei… con tutto me stesso, lo vorrei… che la mente non continuasse a proiettare immagini di momenti e situazioni in grado di spaccarmi il cuore. Ma non ce la faccio, proprio non ci riesco… Dio santo, avreste dovuto vederla, persa nel suo cappottino verde, la borsetta stretta al petto come se contenesse segreti fondamentali per la salvezza del mondo, immobile ad aspettare sulla porta di casa. Quando io e mio fratello siamo scesi dall’auto, avvicinandoci come insensibili poliziotti in borghese, lei aveva preso a cianciare su suo marito Gianni che non riusciva mai ad arrivare puntuale, nemmeno se avesse dovuto andare in chiesa a sposarsi, e poi che bisognava assolutamente ricordarsi di passare in fioreria ad attaccare il riscaldamento, e tutto ciò ci aveva fatto scambiare un’occhiata eloquente, sottolineata da un sofferto sospiro di sollievo. Non era il massimo, sentire la propria madre borbottare dal sedile posteriore riguardo a persone ed avvenimenti ormai trascorsi da tempo immemorabile (parlarne come se gli avvenimenti dovessero ancora succedere, e le persone nominate, in quel preciso istante sotto il marmo di una tomba a godersi un meritato riposo, le avessero assicurato che sarebbero passate a farle visita quanto prima) ma in quel modo ci risparmiavamo l’eventuale, gravosa responsabilità di essere obbligati a motivare cosa ci costringeva a "strapparla via" da tutto quello che possedeva. Anche se una volta arrivati nell’ampio e asettico parcheggio della casa di cura, mentre l’aiutavo a scendere dallo scomodo abitacolo della Opel Tigra di Federico, lei mi aveva posato sull’avambraccio una mano fragile come la zampetta di un uccellino. Mi aveva guardato (e già il fatto che lo sguardo le si era fatto limpido, senza la vitrea estraneità che accompagnava quei suoi sproloqui temporali, aveva fatto accelerare in modo allarmante i battiti del mio cuore) sussurrando con una vena di supplica nella voce: Non vuoi mica far finire qui la tua mamma, vero Marchino-amore ?
L’unica cosa che mi riuscì di fare, tormentandomi tra i denti l’interno della guancia mentre una marea improvvisa di lacrime inopportune tentava di sgorgare come zampilli di fontana dai miei occhi, fu un sorriso beota e vuoto. Mio fratello, dall’altro lato dell ‘auto
(Federico-amore, secondo l’esclusivo vezzeggiativo materno che si portava dietro sin dall’infanzia)
non aveva ovviamente sentito nulla e io, per un fulmineo quanto travolgente istante, provai nei suoi confronti uno slancio di odio accecante, per aver avuto la casuale fortuna di non essere lui il destinatario di quell’inattesa e straziante invocazione di angoscia. Subito dopo, una professionale impiegata della struttura, vestita di rigoroso blu, si fece incontro, scortata dalla caposala, una sorta di Arnold Schwarzenegger in abiti da suora, e i timidi tentativi di mia madre di far valere le proprie ininfluenti ragioni furono soffocati in un consumato turbinìo di frasi a prova di anziano renitente. Si troverà benissimo qui da noi, e Vedrà con quante simpatiche signore potrà fare conoscenza, tanto per fare qualche banale esempio. E poi la peggiore, la più falsa e indisponente. Le sembrerà di essere come a casa. Il mio impulso nel sentire quelle parole, represso a fatica per non saltare al collo di Miss Tailleur blu e Sorella Terminator, fu di esplodere in un velenoso A casa ci si sente di essere se si è circondati dalle proprie cose, dalle foto del matrimonio nella cornice d’argento e la gondola comprata durante il viaggio di nozze, e non in una cosa a metà tra la stanza d’ospedale e una cella d’isolamento !!!. Non feci nulla di tutto ciò, naturalmente, limitandomi a seguire il drappello che si era mosso in direzione dell’edificio, scortando mia madre come fosse il pericolo pubblico più innocuo del mondo.
(TLAC)
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Scusate. Mi sono fatto prendere la mano. Mi succede ogni volta, e non credo sia il massimo affidare ad una registrazione la propria voce lagnosa e ingolfata di lacrime. E’ da un po’ che cerco di capire se parte della decisione di approfondire la mia curiosità nei confronti di quel viottolo (buona parte) ha a che fare anche con la situazione di mia madre, e subito dopo mi chiedo chi diavolo sto cercando di prendere in giro… E’ talmente evidente. So di essere fatto piuttosto male, ma mi è impossibile tenere un comportamento distaccato e impersonale riguardo a quel posto… parlo dell’ospizio… e alla condizione di lei. Cerco di ripetermi che spesso può essere inevitabile, e che oltretutto è una cosa assolutamente naturale. Che anche questo fa parte della vita. In fondo non siamo la prima né l’ultima famiglia che si sia trovata di fronte ad un tale tipo di decisione. Ma è proprio più forte di me. Non so se c’è qualcuno al mondo che si trovi a proprio agio di fronte alla sofferenza e al decadimento (se ci sguazza, magari) ma di sicuro non si tratta del sottoscritto. Lo dico chiaro e tondo. Ricapitolando, non sono né Sean Connery, né Oliviero Toscani. E ancora meno Madre Teresa di Calcutta. Non entro volentieri in quel posto. Lo faccio perché devo, perché non sarebbe giusto che se ne occupasse in toto mio fratello (né tantomeno mi pare il caso di abbandonarla al suo destino, ci mancherebbe, anche se nove volte su dieci mi scambia per qualcun’altro) e poi perché ritengo che non si possa rifuggire da tutto, nella vita. Ma mi costa enorme sofferenza, lo ammetto, in costante aumento ad ogni occasione in cui varco la soglia di quel posto. Fin che ho avuto l’immensa fortuna di avere a fianco la mia amata Sandra ne ho approfittato bassamente, nascondendomi nella sua ombra (senza il minimo dubbio, era una persona mille volte migliore di me) e lasciando che fosse lei a fare il "lavoro sporco". Mi dava l’impressione che riuscisse a sopportarlo meglio (e la vigliacca giustificazione con cui cercavo, inutilmente, di ingannare la mia sporca coscienza era che lei non ne era coinvolta a livello affettivo quanto me), dedicandosi a quell’incombenza se non con piacere, perlomeno con ammirevole coscienziosità. Io, nei limiti del possibile, me ne stavo alla larga da quei gironi danteschi che, per quanto tirati a lucido e disinfettati e luminosi, celavano un sottofondo di disperazione e sofferenza in grado di paralizzarmi. Forse rendendomi inconsciamente conto di quanto quelle stanze, quei volti rugosi, quelle bocche spalancate e bavose, quegli occhi disperati e vivi, fossero in realtà uno specchio, un volto a cui prima o poi tutti siamo destinati ad assomigliare. Perlomeno i più (o i meno, a seconda dei punti di vista) fortunati. Sono pienamente conscio che qualcuno, in qualche modo, deve farsi carico di questo tipo di problema, a meno di non voler prendere in considerazione bizzarri "esilii forzati" in uso presso antiche tribù primitive nei confronti di chi è giunto al termine del proprio cammino in questa vita. Immagino anche, che se e quando mi troverò io in quelle condizioni, sarò profondamente grato a chi si farà il mazzo per imboccarmi di minestra, per pulire gli effetti delle disfunzioni di un corpo ormai fuori controllo, per tenermi la mano nel momento del distacco. Solo che non sono in grado di farlo a mia volta. Non reggo il confronto con la sofferenza, col disfacimento, con l’inesorabile perdita di facoltà che sono l’essenza stessa dell’essere umani. E’ una debolezza di cui prendo atto, e della quale mi assumo pienamente le mie eventuali responsabilità. C’è chi non è in grado di sopportare la vista del sangue, o degli insetti e dei serpenti. A me succede la stessa cosa con l’inesorabile appassire della vita umana. Non mi spaventa la morte, è un concetto che non mi turba in maniera particolare, se non nei modi. Dio, o chi per Lui, forse è stato un po’ troppo creativo in questa particolare branca del progetto-uomo, mettendo in circolazione tutta una serie di spiacevoli "effetti collaterali" a cui la scienza ha dato nomi ostici e inquietanti… Alzaimher, Parkinson, affezioni tumorali per tutti i gusti… Potrebbe trattarsi della codarda "strizza" di uno che per una trentina d’anni si è ciucciato via un pacchetto di nicotina al giorno, ma qualcosa di più standardizzato, e soprattutto di molto meno devastante, forse sarebbe stato meglio. In fondo si viene al mondo in una sola maniera, non in varie combinazioni più o meno dolorose, e non sarebbe affatto male se anche la dipartita fosse dignitosa allo stesso modo. Una "dolce morte", magari nel sonno, forse sarebbe chiedere troppo, ma qualcosa di altrettanto istantaneo e poco impegnativo (e del tutto indolore, quale caratteristica fondamentale) potrebbe magari insegnare ai noi pavidi umani di avere un po’ meno terrore della Nera Signora. Un colpo secco e via che si va. O al limite, se il buon Dio aveva proprio voglia di farsi due risate, che so, una piccola "esplosione", l’importante è che fosse rapida e incruenta. Bam ! Cos’è stato ? E’ andato nonno ! Condoglianze !
Okay. Noto, con un certo sollievo, che sono ancora in grado di scherzarci su, e di parlarne a cuor leggero. E’ importante, direi. Allontana il sospetto, da me stesso in primo luogo, che la vita solitaria e monotona stia causando "crepe" particolarmente allarmanti nella mia tenuta mentale. Ci dò un taglio (almeno per il momento, per il proseguo della faccenda non ci metterei la mano sul fuoco) alla menata di mia madre e del posto in cui è ricoverata. Sono problemi miei, che forse, alla mia età, non hanno più margini per essere risolti, ma solo accettati con filosofia. Se ti deprime tanto vederla là dentro, potevi tenertela a casa, potrebbe obiettare qualcuno meno diplomatico di altri. Come ha fatto mio fratello un po’ di tempo fa, stufo di sentirmi rimuginare sempre il solito, trito discorso. Ci ho pure litigato, in seguito a questa sua spazientita reazione. E non ho certo intenzione di mettermi a questionare ora, qui, con degli interlocutori che non conosco, di cui non vedo le facce e che non so neanche se, prima o poi, esisteranno realmente.
La pianto con i piagnistei anche se, a dire il vero, in questo momento gli occhi mi lacrimano per il sonno… sono le… vediamo un po’… però, mezzanotte e quaranta… e la schiena costretta su questa scomoda sedia del soggiorno ha preso a inviarmi vibrate e dolorose proteste… Chiudo qui, per il momento, anche se ho il fondato sospetto che in quest’ultima seduta mi sia molto più "frignato" addosso, invece di fornire dettagli esaurienti e imparziali sull’argomento di cui sappiamo. Nel caso, chiedo scusa per la pallosità. In fondo, gli ipermercati forniscono "pacchi" di audiocassette in offerta speciale, per saziare la mia inguaribile logorrea, e poi esiste sempre un bel tasto di avanzamento veloce, a salvaguardia di un vostro, ipotetico "colpo di sonno".
Che, guarda caso, in questo istante sta abbattendo il sottoscritto. Vedi un po’ come va la vita, a volte, no ?
Buonanotte, signori, o buongiorno, o buon qualunque momento sia questo in cui mi state ascoltando, e a presto.
(TLAC)

5.

(TLAC)
Per tutto il tempo prima di tornare a sedermi su questa mia ormai consueta postazione, mi sono lambiccato il cervello su come proseguire il discorso. E’ impensabile che io vada ogni volta a riascoltarmi tutto quello che ho inciso fino al momento in cui interrompo la registrazione. Poteva andare bene per i primi dieci minuti di audiocassetta, ma a questo punto dovrei prendermi le ferie, per avere tempo sufficiente. Ed oltretutto il parlare "a vanvera", senza il minimo schema organizzato che ponga dei tempi e dei modi ben precisi, mi fa correre il concreto rischio di infognarmi in una melma di discorsi campati in aria, di frasi troncate a metà, senza capo né coda, di riflessioni molto personali e ben poco costruttive. Possiedo ancora sufficiente amor proprio per vergognarmi, e chiedere scusa, dell’assurdo sproloquio su case di riposo e modi di passare a miglior vita in cui mi sono esibito nell’ultima occasione. Nel quale sono addirittura arrivato a dare una burbera tiratina d’orecchie all’operato del nostro buon Padreterno. Ve l’ho detto. Fate dare aria alla bocca di un uomo, e bisognerà abbatterlo per farlo tacere. Senza peraltro esser giunti a conoscenza di quello che intendeva comunicare. Di certo andrebbe meglio se potessi, in qualche modo, rispondere a domande precise, sull’argomento, ma gli unici esseri viventi presenti in questo momento oltre al sottoscritto sono un sonnecchiante Albertone e un paio di mosche ronzanti e fastidiose. E nessuno di loro mi sembra particolarmente interessato a tartassarmi di interrogativi più o meno pertinenti.
Okay… magari si potrebbe provare ad inventarseli… Vediamo… qualcuno, dotato magari di un pizzico di attenzione in più, potrebbe esordire con A chi ti riferivi, quando hai detto di non essere l’unico, ad aver notato quel posto ? Mmh, buona domanda. Che mi fa capire che è giunto il momento di parlare del vecchio. Dunque, non so se ve ne ho accennato, in precedenza… vado a memoria… ma nei pressi del viottolo sorge una casa. Non ne fa parte (nel senso che non dà l’idea che il terreno su cui sorge il viottolo appartenga ed essa, e viceversa) tanto che è molto più in linea col resto dell’ambiente circostante. Vale a dire che è proprio bruttina. Non so che fine abbiano fatte le belle fattorie delle nostre zone, se mai ce ne sono state, ma quell’abitazione è ben poco affascinante, un parallelepipedo di cemento (con degli orrendi inserti di finta pietra a vista che peggiorano la situazione) scrostato e bisognoso di una decisa ritinteggiatura. E poi, quale inevitabile ciliegina su una pessima torta, una dotazione completa di quegli inguardabili infissi in alluminio alle finestre, che c’entrano col resto della casa come i classici cavoli a merenda. Anche il piccolo appezzamento di terreno intorno all’edificio, che chiamare giardino mi sembrerebbe eccessivo, pare volutamente essersi messo in sintonia con l’andazzo, esibendo una spelacchiata parodia di prato in cui becchettano una manciata di galline annoiate. Chiaro che a confronto con l’idilliaco spettacolo del ponticello e dell’argine tutto ciò diventa ancora più sgradevole, in primo luogo, e poi ben poco evidente. E’ una sorta di strano circolo vizioso: se ti lasci abbindolare dalla sgraziata zona industriale non noterai mai il viottolo, e se invece hai la fortuna di apprezzarne la presenza, tutto il resto passa in secondo, terzo e anche decimo piano. In ogni caso, un tardo pomeriggio in cui mi ritrovavo come al solito impalato ai bordi della ciclabile, con gli occhi fissi sul culmine del declivio al di là del ponte, come se da un momento all’altro dovesse fare capolino la carrozza di Cenerentola trainata da torme di topini bianchi, qualcuno parlò dietro le mie spalle. Immagino di esser sobbalzato come un ragazzino beccato a sbirciare le pagine proibite di un giornale per adulti, mentre con le guance infiammate mi voltavo in direzione della voce.
P-prego ?, balbettai confuso, dato che per la sorpresa non avevo per niente registrato il senso della frase rivoltami. A pochi passi da me scorsi, nell’ordine, un’enorme bicicletta da uomo, che dava l’idea di pesare due tonnellate (e di non essere per niente fantascientifica) dietro la quale sostava un ometto piccolo piccolo. Il cranio quasi del tutto calvo, fatta eccezione per una chierica di capelli grigiastri, sembrava quasi riverberare nella luce del tramonto estivo, e sul naso sfoggiava il più grande paio di occhiali da presbite che avessi mai visto. Poteva avere grosso modo un’ottantina d’anni (in seguito, conoscendolo meglio, potei verificare l’esattezza di quella mia stima preliminare), e in quel preciso istante mi fissava da sotto in su con sguardo divertito e bonario.
S-salve…, aggiunsi spiazzato, dato che al momento non pareva avere intenzione di riformulare la frase appena pronunciata. Elegante nella sua semplice camicia bianca a sottili righine gialle, fresca di stiratura, le maniche rimboccate con cura sugli avambracci asciutti, attese ancora un secondo prima di aprire bocca:
Fa effetto anche a lei, vero ?, disse infine, ammiccando in maniera complice con i grandi occhi espressivi, resi ancora più evidenti dalle spesse lenti degli occhiali. Io impiegai qualche attimo prima di realizzare il senso di quella domanda, mentre un leggero velo di rossore tornava a colorarmi le gote, neanche quel bizzarro omino mi avesse manifestato solidarietà riguardo a qualche pratica sconveniente e solitaria. La biglia luccicante che aveva come testa indicò con un pizzico di maggior veemenza in direzione del viottolo, e ancora una volta i maxi-occhioni ammiccarono divertiti. "A ‘sto punto tanto vale ammettere come stanno le cose", ricordo di aver pensato, anche perché tutta un’improvvisa serie di pressanti interrogativi in merito aveva preso a scalpitare da qualche parte nella mia testa.
Beh... sì, è notevole…, fu tutto quello che azzardai di replicare, con la circospetta prudenza di uno che esprima un complimento nei confronti di una bella donna, non essendo per niente sicuro di rivolgersi magari al marito, è… è di sua proprietà ?
L’omino appoggiò con cura la mega-bicicletta, che ovviamente non aveva in dotazione alcun cavalletto (niente fronzoli, per carità), alla recinzione rossa di ruggine di un giardino. Infilò una mano ampia e nodosa nelle profondità delle tasche dei pantaloni, estraendovi un grosso fazzoletto appallottolato con cui prese a strofinarsi la pelata lucida di sudore:
Di… mia proprietà ?!, ripetè divertito, assaporando quella strana ipotesi come fosse stato un frutto succoso, oh mio Dio, no… tutto ciò che rientra nei miei possedimenti è racchiuso all’interno di quel cortile, indicò il giardinetto brullo usato a mò di pascolo dalle galline, sul davanti della casa, e poi… che bizzarrìa… poter pensare che quel posto appartenga a qualcuno…
A proposito di bizzarrìe, quella fu la prima di una serie futura e nutrita di affermazioni, da parte di quello strano omino, che mi avrebbero lasciato un bel po’ perplesso, anche se quella nella fattispecie, a dire il vero, non mi impressionò particolarmente. Non più di altre che avrei ascoltato proseguendo nella frequentazione, prima che arrivassi quasi ad abituarmici. L’ometto, che si chiamava Aristide (non ricordo se mi avesse specificato anche il cognome… probabilmente sì, solo che io non l’ho registrato), di anni 72 per l’appunto, ex-meccanico in pensione, che viveva tutto solo nella casa alle nostre spalle (tutte informazioni che raccolsi in quella e in successive chiacchierate) parve quasi rendersi conto dell’opinabilità di quella sua descrizione:
Non è affatto un appezzamento di terreno privato…, precisò cordiale, mentre in me non si acquietava l’impressione che stesse eseguendo un’abile retromarcia verbale, …gli argini di solito sono di proprietà del demanio, anche se da un po’ di anni, da quando hanno realizzato quelle casse di espansione per il controllo delle alluvioni, più giù verso Debba, questo in particolare non serve più a molto… se ne sta là, come una scrupolosa sentinella di un avamposto in cui ormai non succederà mai più niente…, distolse lo sguardo dal declivio erboso, piantando gli occhioni da cartone animato nei miei, …da queste parti l’han sempre chiamato il posto dove finisce il mondo. E’ bizzarro, non trova ? Ma, mi dica, è già stato su là a dare un’occhiata ?
Ancora una volta quella domanda diretta e inattesa, che aveva quale argomento il tratto di terreno davanti a noi, mi fece trasalire come se l’eventuale risposta sottindendesse la confessione di chissà quale devianza.
I-Io ?!, balbettai sentendomi assolutamente assurdo, mentre mi frugavo nella testa alla ricerca di una risposta il meno compromettente possibile, Oh no !, sbottai frettoloso, tentando di alleggerire la tensione (che probabilmente avvertivo solo io) con una battuta di spirito, figurati se corro il rischio che il signor Gino Demanio se la prenda con me !
Il vecchietto ridacchiò deliziato, neanche mi fossi esibito nella battuta più esilarante di tutti i tempi, mentre io decidevo di rendergli pan per focaccia:
E lei ?, sibilai con un pizzico di incomprensibile perfidìa, come a volerlo punire di quella sua sfrontata curiosità. La domanda non parve impressionarlo più di tanto. Finì di ridacchiare con calma, asciugandosi l’angolo di una palpebra (il dito indice, non appena sotto l’effetto della lente degli occhiali, parve ingigantirsi alle dimensioni di un wurstel color rosa), prima di replicare a sua volta:
No, nemmeno io, affermò sereno e, a quanto pareva, assolutamente sincero. Non che mi convincesse troppo, era chiaro. Voglio dire, uno ci abita giusto davanti, chissà da quanti anni poi, e non gli è mai venuto il ghiribizzo di compiere tre o quattro passi in più, sino alla sommità dell’argine ? Improbabile, decisamente improbabile, e l’impulso fu quello di farglielo presente, se lui non avesse proseguito:
Le suona poco credibile, vero ?, disse, mentre le sopracciglia gli si alzavano in un arco espressivo che non poteva non renderlo simpaticissimo, mah, cosa vuole… due persone che s’incontrano per caso, due perfetti sconosciuti… a proposito, il mio nome è Aristide…
Marco Vicario, borbottai preso alla sprovvista, afferrando la mano che mi stava porgendo. La sua stretta era salda e asciutta, tipica di chi ha passato la vita a lottare contro bulloni e viti recalcitranti.
Piacere, disse cortese, riprendendo il discorso, in ogni caso, dicevo, due persone che non si conoscono affatto, che scambiano un paio di cordiali battute in attesa che arrivi l’ora di cena… che scopo avrebbero, di mentirsi l’un l’altro ?
A me venne da replicare che, proprio perché si trattava di un’incontro casuale, non sarebbe stato affatto anormale che uno dei due (magari particolarmente bizzarro, ma questo me lo sarei tenuto per me) decidesse di sparare… come dire… qualche frase ad effetto per impressionare l’interlocutore. Lui non mi dette il tempo di tradurre in frasi quel ragionamento:
So cosa sta pensando, proseguì con un largo sorriso sul volto tondeggiante, un simpatico vecchietto, magari un po’ toccato, che abita in quella vecchia casa da… vediamo un po’… fffiuuu, almeno cinquantacinque anni… è parecchio improbabile che non conosca i dintorni come le proprie tasche…
Mmh… più o meno… a parte la parte riguardante il "toccato"…, mi affrettai a replicare io, col preciso obiettivo di comunicargli che non lo ritenevo affatto tale. Lui sbirciò con noncuranza l’orologio sul polso abbronzato:
Signor… Marco… posso chiamarla così, vero ?, il tono di voce, fino a quel momento disinvolto e divertito, mutò lievemente. Non al punto da velarsi di connotazioni seriose o tantomeno inquietanti, ma superando il netto confine tra lo scambio di un paio di cordiali battute e qualcosa di molto più simile ad una confidenza personale. Quella almeno fu l’impressione che ne ricavai, unitamente ad un sottile senso di delusione nel rendermi conto che l’occhiata all’orologio sottindendeva la conclusione della nostra breve chiacchierata, vediamo come riuscire a spiegarle… vede, a mio modesto modo di vedere, questo viottolo è particolare e normale nello stesso tempo. Particolare perché è di un’indubbia bellezza, ma soprattutto in virtù dell’inspiegabile fatto che… la gente pare non vederlo… Eppure è lì… in "ghiaia e terra", come dire… e questa è anche la sua componente di assoluta normalità… a volte me ne sto qui appoggiato alla bicicletta, e osservo le persone passare. Sa cosa avviene ? Che guardano dappertutto, quella dannata strada trafficata, i capannoni industriali dall’altra parte, persino la mia ben poco affascinante dimora… i più cordiali mi dedicano un cortese cenno di saluto… ma nessuno, o quasi, che posi l’occhio sul ponticello. Mi rendo conto che suonerà alquanto bizzarra, come affermazione
(Non più di tanto, pensai io ascoltando quelle parole, anzi, proprio per niente)
ma l’unica, sconsolante conclusione a cui sono giunto è che… non ci sia più spazio per cose del genere…, alzò un braccio in direzione del viottolo, …il mondo si è messo a correre, e ha troppo poco tempo per sprecarlo in maniera così inconcludente… E’ triste, ma è la realtà… Poi, ogni tanto, qualcuno riesce a ritagliarsi un attimo sufficiente per poterne apprezzare la presenza… com’è successo con lei…, quel riferimento così diretto mi fece provare uno strano brivido a metà tra l’orgoglio e la commozione, …mi lasci indovinare, non è la prima volta che viene qui, vero ?, non si curò di lasciarmi lo spazio di una conferma o meno, …e questo potrebbe essere importante… Glielo ribadisco, anche se la cosa potrà sembrare alquanto anomala: non sono mai andato fin lassù, che ci voglia credere o meno. E badi bene, non perché me ne sia mancata la curiosità, o il desiderio, ma piuttosto, come dire, la capacità di poterlo fare. Adesso si è fatto un po’ tardi, devo rientrare a preparare la cena per Stella e Romeo e Taddeo, altrimenti prendono a salirmi dappertutto (la rispettabile età del mio interlocutore, tale da escludere l’esistenza di una prole, e la poco desiderabile esperienza acquisita con i gatti di mia madre, mi fecero ipotizzare che si stesse riferendo ad una tribù di felini) ma, se crede, potremmo riparlarne. Quando le va, tanto non è che io abbia in programma una crociera nel Mediterraneo, in questo periodo. Se crede, ripeto, nessuno la obbliga, anzi, siamo in un paese democratico, e lei è libero di comportarsi come ritiene meglio. Al limite anche di pensare di aver fatto la poco gradita conoscenza col "matto" della Riviera Berica, una volta imboccata la strada del ritorno. Ora però la devo proprio salutare…, la sua mano aperta e cordiale si risollevò nella mia direzione, …grazie della chiacchierata, signor Marco, e mi auguro di riincontrarla ancora…
Mentre quelle ultime frasi prendevano a vorticarmi in testa come foglie secche sollevate da un refolo di vento, in un turbine mentale che non si sarebbe acquietato sino al mio arrivo a casa, afferrò il mastodontico manubrio della bici (ebbi l’impertinenza di chiedermi come diavolo riuscisse a salirci ma, data la vicinanza con la sua destinazione, il dubbio rimase tale) e si diresse verso la sua abitazione.
A quel punto risalii in sella e mi diressi in direzione della città.
(TLAC)
 
  
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