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Autore: Carlos Olivera    07/05/2014    2 recensioni
Tratto dal Capitolo 1
In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.
Era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.
Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili; di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale.
A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione, rassomigliando alle ali di un angelo.
Nelle pubblicità delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell'Inferno
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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1

 

 

In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.

Ultimo ritrovato nel campo dell’ingegneria aerospaziale, era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.

Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.

Con cinque ponti passeggeri, tre ponti equipaggio e due ponti macchine, il Megonia aveva una capacità d’imbarco pari a cinquemila persone, ovvero circa la metà della maggior parte degli altri velieri, ma ciò nonostante restava la nave da crociera più ambita, soprattutto dalla nobiltà e da tutti coloro che in Generale potevano permettersi di tirare fuori i soldi necessari.

La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili, che in nome di una maggiore capacità d’imbarco finivano talvolta per apparire pesanti, quasi sciancate, con quei loro lucernari mastodontici e le ampie vetrate che somigliavano a gigantesche gobbe di cammello.

Il Megonia di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola non troppo alta che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale su cui confluivano, attraverso varie balconate disposte ad altezze regolari, tutti i ponti passeggeri; vi si poteva arrivare con un ascensore apposito, che partendo dalla base della possente scalinata che collegava tra di loro i vari balconi permetteva di raggiungere quello più alto, da dove si aveva la miglior vista possibile, ma più in Generale lo spettacolo offerto dal cosmo era più o meno ammirabile da tutti i punti del salone, oltre che dalle numerose altre vetrate disposte un po’ dappertutto in tutti i punti della nave.

A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi ben oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione; rassomigliavano alle ali di un angelo, ed in effetti a ciò in un certo senso servivano, fungendo all’occorrenza da sostegno alle vele solari che protendendosi da barbiglio a barbiglio potevano essere dispiegate in qualunque momento.

L’unico neo era costituito dalla torre di comando, in cima alla quale vi era il ponte ufficiali, che svettando proprio sopra la vetrata panoramica ne limitava un po’ la visuale, ma la sua stessa figura, così possente ed aggraziata, con quella cupola trasparente a svettare sulla sommità, in un certo senso costituiva un ulteriore elemento di fascino.

Il Comandante del Megonia, Gerome La Hire, era uno dei più capaci ufficiali che la marina amalteca avesse mai avuto, e lo provava il fatto che malgrado non avesse ancora compiuto cinquant’anni gli era stata messa in mano l’ammiraglia della flotta civile, un privilegio che fino ad anni recenti era stato riservato solo ad arzilli ufficiali alle soglie della pensione.

Conosceva la nave come le sue tasche, le voleva bene come ad una figlia, ed aveva il massimo rispetto e stima di tutti i suoi uomini, a cominciare dal Primo Ufficiale Alex Shawn.

Insieme avevano condotto il Megonia attraverso le più disparate rotte del sistema solare, ma quella salpata all’inizio dell’estate dell’Anno Solare 170 era una crociera molto speciale.

La destinazione, la luna minore Erithium, non era insolita; insolito era semmai lo spettacolo che i ricchissimi passeggeri imbarcati in quell’occasione erano sul punto di godere da una prospettiva di assoluto privilegio: la Nascita di Erithium.

Ogni cinquantanove anni, era stato stimato, a seguito di un particolare allineamento di Celestis e dei suoi due satelliti, i raggi del sole colpivano direttamente Erithium invece della sua sorella maggiore, illuminandolo in modo ancor più violento del solito e facendo così scintillare come non mai i suoi vasti giacimenti di krylium; ma il vero spettacolo era un altro, perché comportandosi come una lente Erithium proiettava un cono di luce verso Neos, la cui l’atmosfera contenente la polvere di krylium che la gemella disperdeva ininterrottamente attorno a sé provocava una vera e propria pioggia di luce: questa poi andava a ricadere proprio sul Mare di Venere, un immenso cratere naturale la cui forma richiamava, per l’appunto, una figura umana con le braccia protese verso l’alto, facendola risplendere di quella stessa luce azzurra che come una stampa di stagliava ben visibile sulla superficie bianco-grigiastra.

Uno spettacolo assolutamente impagabile, e che oltretutto, verificandosi sulla faccia nascosta di Neos, risultava invisibile dal pianeta, lasciando a chi non aveva migliaia di Kylis da investire in un biglietto evento per un viaggio unico al mondo la magra consolazione di poterlo seguire alla televisione grazie alle immagini dei satelliti.

Certo, navigare nello stretto cunicolo che separava le due lune, tra detriti e correnti gravitazionali anomale, non era impresa da tutti, ma nulla che l’esperto Comandante La Hire non sapesse gestire, e la sera prevista per il grande spettacolo tutto era assolutamente in ordine.

Il ristorante di prima classe sul ponte principale, addobbato per la festa, sembrava il salotto buono di un palazzo reale, tra gioielli, vestiti sfavillanti, cibi e bevande di lusso e tanti, tantissimi volti noti; della politica, dello spettacolo, dello sport. C’era perfino qualche rappresentante della MAB, la cui autorità a livello internazionale negli ultimi anni era in rapida e continua ascesa, tanto da aver trasformato Caldesia, la sua roccaforte, nel faro politico ed istituzionale dell’intero pianeta.

La contessa Johanna Sauchel, fresca moglie in seconde nozze di Balthus Weilmann, Conte di Bonnestal e Cavaliere dell’Ordine Coloniale di Amaltea, era impegnata come al solito a bisticciare con la figliastra Hilda, otto anni e un temperamento peperino ereditato dalla madre, la compianta contessa Weilmann; al tavolo da poker sulla balconata superiore Richard Song, giocatore professionista di Ebridan, stava spennando a dovere gli ingenui di turno, trovando in Philippe Reynar, vicesindaco di Kyrador, il primo vero avversario da qualche anno a quella parte; Georg Gullit, sommelier con trent’anni di esperienza, faceva la spola da un tavolo all’altro consigliando ad ogni nutrito gruppo di commensali il vino più adatto alle rispettive esigenze, perdendosi in lunghe conversazioni inerenti al suo fantastico lavoro; Raoul Montero, umile cameriere di seconda categoria, si godeva per quanto possibile quel piccolo momento tra i grandi del mondo, insperatamente guadagnato grazie a quella fastidiosa febbre parainfluenzale che già dal quarto giorno di viaggio aveva preso a fare vittime tra lo staff, personale di sala compreso.

«Signore e signori!» annunciò la specialissima animatrice della serata, la famosa attrice e cantante Ashley Tunderscott «Sincronizzate gli orologi! Mancano esattamente cinque minuti alla Nascita di Venere!».

Il pubblico intero si alzò dai propri tavoli pronto a brindare, e mentre al centro del salone il timer iniziava a scandire i secondi Ashley Tunderscott annunciò l’arrivo del Comandante La Hire in persona, che come in un gioco di prestigio comparve da un istante all’altro sul palco in un turbinio di suoni, luci e vapore, sotto applausi scroscianti.

«Buonasera, gentili ospiti» disse facendo loro un rispettoso inchino. «Vi ringrazio per essere intervenuti così numerosi, in quello che è un evento che ad oggi in pochissimi sono stati in grado di osservare in prima persona.» quindi, iniziò a raccontare. «Secondo la leggenda, Venere, la dèa della bellezza, nacque da una conchiglia, emergendo dalla spuma del mare.

La sua bellezza era tale che non appena posò gli occhi sul mondo, questo si riempì di luce e di colore, e tutte le forme di vita intonarono canti di gloria per la venuta della dèa.

I nostri antenati che vivevano sulla Terra coniarono questa leggenda per celebrare la grandezza e la bellezza del mare, ma anche in ossequio ai molti misteri ed al fascino che esso esercitava in quanto distesa sconfinata tutta da esplorare.

Oggi, molte cose sono cambiate, ma la leggenda è rimasta la stessa. L’infinità del mare è stata sostituita da quella del cosmo, la conchiglia è diventata grande come una luna; ma Venere, la Dèa della Bellezza che porta la luce e la gioia nel mondo, lei continua ancora a rinascere, oggi come allora.

E quindi, è giunta per noi l’ora di salutare la sua nuova rinascita, e di ringraziarla per le infinite meraviglie che riempiono il nostro mondo.

Salutiamo la Nascita di Venere!».

Ad un cenno del Comandante, le immense vetrate del ristorante vennero scoperte dall’abbassamento dei pannelli protettivi, giusto in tempo per assistere in diretta all’arrivo del primo raggio di sole, che rimbalzando su Erithium colorandolo di azzurro vivo puntò diritto verso Neos, prendendo a delineare in modo sempre più nitido la figura di Venere che, come nel mito, emergeva dalla sua conchiglia nel mezzo dell’oceano stellare, benedicendo tutto e tutti.

Gli applausi per il Capitano furono presto sostituiti da grida di esclamazione, e quasi tutti si affrettarono a raggiungere il miglior punto d’osservazione possibile accalcandosi davanti ai vetri.

Le altre navi, che non potevano vantare la stessa affidabilità del Megonia, erano costrette a rimanere più lontano, e così per quei pochi fortunati si trattò di un’esperienza quasi da favola, da raccontare negli anni a venire a nipoti e pronipoti.

Anche il Capitano, che come tutti assisteva alla Nascita di Venere per la prima volta in vita sua, cercava per quanto possibile di godersi quel momento, quando una chiamata inopportuna sul suo comunicatore disturbò la sua contemplazione proprio sul più bello.

«Cosa c’è, Shawn?» rispose

«Comandante, scusi se la disturbo» disse dalla plancia il Primo Ufficiale «C’è qualcosa che non và nella sala dei server di controllo. Non riusciamo a metterci in contatto con Oskar e Wilbur.»

«Staranno godendosi il momento come tutti gli altri. Non è il caso di preoccuparsi.»

«Lo pensavo anch’io, le comunicazioni si sono spente di colpo, e poco prima che succedesse Oskar ha detto che Wilbur si stava sentendo male».

Il Comandante rimuginò contrariato, masticando imprecazioni varie.

Quella dannata febbre che era spuntata proprio nel momento sbagliato, e se non fosse stato per le direttive provenienti dalla compagnia che avevano tassativamente proibito il ritorno in porto avrebbe immediatamente ordinato di virare la rotta alle prime avvisaglie di una probabile epidemia.

I medici di bordo avevano parlato di una banale influenza, neanche troppo aggressiva, ed era anche per questo che la compagnia non se l’era sentita di annullare quella che si proponeva di essere la crociera del secolo, pena la perdita di fiumi di soldi tra biglietti, cause legali varie e diritti televisivi per il documentario che si stava girando.

Se non altro isolare i contagiati, quasi tutti dell’equipaggio, nelle proprie cabine o nell’infermeria si era rivelato efficace, perché dopo di allora i nuovi casi erano sensibilmente calati, ma occorreva affrontare rapidamente ogni imprevisto, anche per evitare che i passeggeri scoprissero cosa stava accadendo.

«D’accordo, vado a controllare».

 

Dileguatosi rapidamente, senza dare nell’occhio, La Hire prese l’ascensore di servizio fino al Ponte H, e percorso un lungo corridoio raggiunse infine la porta che immetteva nella sala centrale di controllo.

Qualche anno prima un pazzo aveva cercato di prendere il comando di una nave da crociera per commettere un eclatante atto di protesta, e da allora le norme di sicurezza che regolavano l’accesso alle zone più sensibili e vitali, dal ponte di comando alla sala macchine, erano state severamente amplificate.

La sala centrale era il cuore della nave.

Da lì si poteva controllare qualsiasi cosa, dagli impianti di alimentazione ai sistemi di sicurezza ed emergenza, fin’anche alla distribuzione dell’ossigeno, anche se quest’ultima era comunque dotata di sistemi di emergenza che le permettevano di funzionare in modo autonomo in caso di necessità.

Così come per il ponte, la sala macchine e altre zone calde, l’accesso era regolato da un codice di sicurezza, noto solo al personale che lavorava in ogni singolo settore. Solo il Comandante aveva i codici di tutte le zone, quindi per La Hire non fu un problema ottenere l’accesso.

L’interno, dominato al centro dal nucleo di memoria, che come una gigantesca clessidra svettava verso l’alto tramutando la stanza in una sorta di grande anello, era stranamente scuro, e tutte le luci apparivano staccate, ma i monitor dei computer e gli altri sistemi sembravano tutti operativi.

Il silenzio era totale.

«Wylbur. Oscar.» disse il Comandante addentrandosi nell’oscurità «Tutto ok?».

Nessuno rispose.

«Mi hanno chiamato dal ponte. Hanno detto che vi siete spenti di colpo. È successo qualcosa?».

D’improvviso, qualcosa di unto e scivoloso fece slittare in avanti il piede di La Hire, anche se grazie ai suoi riflessi il Comandante riuscì a restare in piedi.

«Al diavolo!» brontolò contrariato «Che avete fatto, avete pisciato per terra?».

Più per caso che per vera volontà l’occhio del Comandante andò a trovare il responsabile di quel fuori programma, ma come il suo sguardo riuscì a fendere il buio al suo interno comparvero uno sgomento ed un terrore senza confini.

«Oh, mio Dio…».

 

Il dottor Mark Curtis aveva trattato altre volte casi di epidemie sviluppatesi a bordo di navi da crociera o vascelli mercantili, e la sua condotta era sempre stata esemplare.

Tutti coloro che avevano contratto quella strana febbre erano stati confinati nella zona di quarantena del Ponte C, nei pressi dell’infermeria della nave, da dove non era loro consentito uscire vista anche l’estrema facilità di contagio.

I malati accusavano febbre, un po’ di tosse e dei dolori addominali, ma niente di particolarmente serio, tanto che qualcuno era già stato dimesso non appena i sintomi più evidenti si erano affievoliti, e dopo l’iniziale superlavoro anche il vario personale infermieristico aveva iniziato a tranquillizzarsi.

La situazione si era a tal punto tranquillizzata che il dottore aveva anche trovato il tempo di seguire a sua volta la Nascita di Venere dalla vetrata dell’infermeria assieme ai suoi collaboratori.

«Toglie il fiato, davvero.» disse il dottore, che non si stancava mai di ammirare le meraviglie che il cosmo era in grado di offrire.

Ma d’improvviso, proprio nel bel mezzo dello spettacolo, il suo comunicatore e quelli di tutti i presenti presero a suonare come tanti allarmi.

«Presto, dottore!» urlò un infermiere entrando nell’infermeria quasi sfondando la porta «Ci sono problemi!».

Quello che Curtis trovò tornando nella zona di quarantena, però, andava oltre qualunque cosa si sarebbe mai potuto immaginare.

Da un momento all’altro, e per ragioni inspiegabili, quasi tutti i pazienti erano improvvisamente peggiorati. Una semplice febbre si era tramutata di colpo in una intensa vampata, i dolori addominali in spasmi lancinanti, e le urla di dolore erano tali da risultare assordanti.

Alcuni poi accusavano tremendi dolori alla testa, altri ancora arrivavano a tossire litri di sangue minacciando di soffocare.

«Soluzione Beta e venti unità di tirvazina, subito!» sbraitò il medico buttandosi sul paziente più vicino, un’addetta alle pulizie tra i primi a venire contagiata.

Ma fu tutto inutile.

Mark vide quella poveretta arrivare quasi a spezzarsi la schiena in preda a tremende convulsioni, vomitarsi addosso tutto il sangue che aveva in corpo, quindi, rivolti gli occhi all’indietro, spirare senza vita sul suo letto con un’espressione spaventosa, urlante, e a nulla valsero i tentativi di rianimarla col defibrillatore.

«Fanculo!» urlò Mark fracassando a terra una siringa di vetro.

Quasi contemporaneamente, le urla che riempivano la stanza echeggiando dai vari stanzini recintati da tendaggi si acquietarono o scomparvero del tutto, come se tutti quei poveri sventurati si fossero coordinati per arrivare nello stesso istante all’appuntamento con la morte, improvvisa ed implacabile.

Avvinto, come ogni altra volta che aveva visto un paziente morirgli davanti, il dottore fece per dirigersi dove vi era ancora bisogno di lui, quando d’un tratto, come per incanto, un tintinnio riecheggiò nello stanzino.

Voltosi verso i macchinari, però, Mark si accorse che di magico quel suono non aveva nulla; semmai, era altamente inquietante.

L’elettrocardiogramma era assolutamente piatto, come si conviene ad una persona defunta, ma di contro l’elettroencefalogramma, dopo aver taciuto per un po’, aveva preso a segnalare attività cerebrale in corso; era debole, ma c’era, e con il passare dei secondi, invece che acquietarsi, sembrò prendere vigore.

Com’era possibile?

«Ma che diavolo…»

 

Riavutosi dallo sgomento, ma con una strana paura nel cuore che montava sempre più, quasi a volerlo mettere in allarme, il Comandante La Hire seguì, dapprima con gli occhi e poi a piccoli passi, quella innaturale linea rosso opaco, che come una mano di pittura su un muro scolorito risaltava sul grigio del pavimento metallico, avventurandosi sempre più in profondità verso il centro della stanza.

Poi, indistinto, si udì un suono, come di qualcosa che si strappava, solo pochi passi più in là, oltre il cuore dell’impianto che copriva la vista; La Hire vi girò attorno, i nervi tesi e le tempie rigate dai sudori freddi, ma ciò che vide andava ben oltre la dimensione del tollerabile, scivolando in quella dell’incomprensibile, oltre che dell’orrore.

Oskar era a terra, morto, gli occhi fuori dalle orbite e la bocca innaturalmente aperta, aperto come un animale da macello, gli intestini scoperti e anneriti dal contatto con l’aria; e Wilkins, il suo amico Wilkins, era sopra di lui, le mani affondate nel braccio destro ridotto ad un moncherino e il viso, mostruoso, completamente nascosto dal suo sangue, impegnato a spolpare la parte di osso ancora attaccata al corpo come un leone farebbe con la propria preda.

La Hire era così atterrito e sconvolto che non gli riuscì di parlare, né di muoversi, almeno fino a quando Wilkins non sollevò gli occhi accorgendosi della sua presenza. Per fortuna, da esperto combattente ed eccellente soldato quale era, i suoi riflessi erano più che attenti, così quando Wilkins, con un’agilità ed una forza quasi innaturali, gli saltò addosso con espressione demoniaca, fu abbastanza rapido da riuscire ad afferrarlo, evitando di venire azzannato alla gola.

«Wilkins, che stai facendo?» urlò tentando di allontanarlo.

Ma il marinaio non rispose, limitandosi ad emettere sinistri gemiti e rantoli da animale, mentre imperterrito continuava a tentare di vincere la presa della sua vittima nel tentativo di morderla, tanto che alla fine La Hire non ebbe altra scelta: afferrata saldamente la testa di Wilkins vi esercitò tutta la pressione possibile, e finalmente quella specie di abominio, emesso un ultimo gemito, si accasciò a terra con il collo spezzato in più punti.

Il Comandante rimase a lungo immobile, atterrito dall’orrendo spettacolo che aveva davanti, ma poi, cercando di richiamare a sé tutto l’autocontrollo di cui disponeva, si avventò subito sui sistemi di controllo per dare l’allarme.

Anche la consolle era imbrattata di sangue, e alcune parti erano danneggiate; doveva esservi stata una lotta davvero feroce, che Oskar aveva perso solo dopo avervi profuso tutte le energie di cui disponeva.

«Ponte di comando, mi sentite?» disse aprendo il collegamento diretto col ponte dopo aver ripristinato del tutto le funzioni operative

«La ricevo, Comandante.» disse Shawn apparendo sul monitor «Cosa è accaduto?»

«Shawn, contatta subito il dottor Curtis. Massima priorità. È accaduto qualcosa a Wilkins. Temo che quella che abbiamo a bordo non sia affatto una semplice influenza. Dobbiamo…».

La Hire non ebbe il tempo di finire la frase.

Con gli intestini quasi completamente a penzoloni, un braccio ridotto ad un moncherino e varie altre ferite in tutto il corpo, Oskar si avventò sul suo Comandante proprio come aveva fatto Wilkins, gli occhi neri come la notte e la faccia ridotta ad una maschera demoniaca; questa volta La Hire, colto alla sprovvista, venne sopraffatto quasi subito, e come se una sfilza di paletti gli fossero stati violentemente piantati il corpo si vide portare via un’intera porzione di spalla all’altezza del collo, prendendo a spruzzare fiumi di sangue sotto lo sguardo, attonito ed impotente, del suo secondo.

Nel venire buttato in avanti il Comandante azionò inavvertitamente l’altoparlante, e così tutti, nei ponti passeggeri come nel resto della nave, poterono udire le sue urla spaventose, da far gelare il sangue, mentre Oskar gli strappava letteralmente la carne dal corpo un pezzo per volta.

Con la forza della disperazione La Hire si buttò all’indietro nel tentativo di allontanare Oskar, che nel mentre gli era di fatto salito in groppa in preda alla sua famelica furia, ma perso l’equilibrio rovinò senza scampo contro la sottile lastra di vetro protettivo che ricopriva il nucleo di energia, fracassandolo e finendo arrostito vivo assieme al suo aggressore per le scariche di energia che come una scossa elettrica folgorarono entrambi.

Il corto circuito si propagò in un lampo per tutta la nave, e da un istante all’altro nel salone delle feste tutti si ritrovarono al buio, con le sole luci di emergenza a fornire un po’ di chiarore.

A quel punto, il silenzio spaventoso generatosi al suono delle urla del Comandante attraverso i microfoni si tramutò in un coro di urla spaventate.

Gli inservienti e il personale di bordo tentarono di riportare la calma, e per un attimo sembrò che quella massa esagitata potesse in qualche modo venire controllata, ma la realtà era che la situazione era tutt’altro che semplice, soprattutto a causa dell’impossibilità di comunicare con il ponte di comando.

«Le linee sono isolate.» disse uno sollevando la cornetta, e visto che tra i membri dell’equipaggio presenti non ve n’era nessuno dotato di poteri magici non si poteva neanche ricorrere alla telepatia.

La situazione sembrava sul punto di calmarsi, quando da una porta chiusa, una delle molte che immettevano nel ristorante, prese a giungere un rumore strano, come di qualcuno che vi batteva per farsi aprire, attirando l’attenzione di quelli più vicini.

Questione di un istante, e i battenti furono praticamente divelti da cinque o sei creature abominevoli, quasi dei mostri, che senza indugio saltarono addosso agli ospiti più vicini, buttandoli a terra e prendendo a sventrarli con morsi ed unghiate, mentre quei poveri sventurati urlavano dal dolore implorando di essere salvati.

Da uno stato di calma apparente si passò al panico più totale, e tutti presero a correre in ogni direzione nel tentativo di salvarsi da quei mostri, che come uno sciame di mosche attirate da una carcassa stavano arrivando da ogni dove bloccando quasi tutte le possibili vie di fuga.

Nessuno o quasi si curava degli altri.

Quello che contava era solo salvarsi la vita.

La contessa Sauchel, nonostante tutto, tentò di tenere Hilda stretta a sé, ma la bambina approfittò di un momento di esitazione per divincolarsi e correre alla ricerca del padre, scomparendo a sua volta nella calca che nello stesso tempo trascinò letteralmente via Johanna verso una delle poche uscite sicure; Philippe Reynar riuscì a strappare una donna dalle grinfie di uno di quei mostri spaccandogli in testa una sedia, e aiutata la donna a rialzarsi la prese sottobraccio allontanandosi assieme a lei; Georg e Raoul si incontrarono nella ressa, con il primo che stortosi una caviglia e debilitato dall’età dovette appoggiarsi al secondo per riuscire a fuggire; Richard Song dovette trascinare via a forza una donna il cui marito era stato tra i primi a venire sbranato, riuscendo ad allontanarla dal cadavere giusto un attimo prima che questo si rianimasse cercando di assalirla.

Come nel salone, la stessa scena si ripeté praticamente in ogni angolo raggiungibile della nave.

I mostri seguitarono a crescere rapidamente di numero, e in poco tempo dilagarono in tutti i settori, dalle zone cabina al quartiere dei locali, dalle piscine al parco artificiale, facendo scempio di tutto ciò che avesse anche solo una parvenza di commestibile, inclusi gli esseri umani; di quella grandissima parte tra passeggeri ed equipaggio che non riuscì a mettersi in salvo alcuni, poco dopo la morte, si unirono agli assalitori, mentre altri, la maggioranza, finirono dilaniati prima ancora di potersi rialzare.

Nelle pubblicità e nei depliant delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell’inferno.

 

  
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