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In tutta Celestis non c’era
vascello più splendente del Megonia.
Ultimo
ritrovato nel campo dell’ingegneria aerospaziale, era nato inizialmente come
vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli
armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile,
facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai
vista.
Essendo
nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle
battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era
considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
Con
cinque ponti passeggeri, tre ponti equipaggio e due ponti macchine, il Megonia
aveva una capacità d’imbarco pari a cinquemila persone, ovvero circa la metà
della maggior parte degli altri velieri, ma ciò nonostante restava la nave da
crociera più ambita, soprattutto dalla nobiltà e da tutti coloro che in Generale
potevano permettersi di tirare fuori i soldi necessari.
La sua
forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile
e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre
navi civili, che in nome di una maggiore capacità d’imbarco finivano talvolta
per apparire pesanti, quasi sciancate, con quei loro lucernari mastodontici e
le ampie vetrate che somigliavano a gigantesche gobbe di cammello.
Il
Megonia di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola non
troppo alta che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio
sopra il grande salone centrale su cui confluivano, attraverso varie balconate
disposte ad altezze regolari, tutti i ponti passeggeri; vi si poteva arrivare
con un ascensore apposito, che partendo dalla base della possente scalinata che
collegava tra di loro i vari balconi permetteva di raggiungere quello più alto,
da dove si aveva la miglior vista possibile, ma più in Generale lo spettacolo
offerto dal cosmo era più o meno ammirabile da tutti i punti del salone, oltre
che dalle numerose altre vetrate disposte un po’ dappertutto in tutti i punti
della nave.
A poppa,
enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi ben oltre
il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione; rassomigliavano
alle ali di un angelo, ed in effetti a ciò in un certo senso servivano,
fungendo all’occorrenza da sostegno alle vele solari che protendendosi da
barbiglio a barbiglio potevano essere dispiegate in qualunque momento.
L’unico
neo era costituito dalla torre di comando, in cima alla quale vi era il ponte
ufficiali, che svettando proprio sopra la vetrata panoramica ne limitava un po’
la visuale, ma la sua stessa figura, così possente ed aggraziata, con quella
cupola trasparente a svettare sulla sommità, in un certo senso costituiva un
ulteriore elemento di fascino.
Il Comandante
del Megonia, Gerome La Hire, era uno dei più capaci ufficiali che la marina
amalteca avesse mai avuto, e lo provava il fatto che malgrado non avesse ancora
compiuto cinquant’anni gli era stata messa in mano l’ammiraglia della flotta
civile, un privilegio che fino ad anni recenti era stato riservato solo ad
arzilli ufficiali alle soglie della pensione.
Conosceva
la nave come le sue tasche, le voleva bene come ad una figlia, ed aveva il
massimo rispetto e stima di tutti i suoi uomini, a cominciare dal Primo Ufficiale
Alex Shawn.
Insieme
avevano condotto il Megonia attraverso le più disparate rotte del sistema
solare, ma quella salpata all’inizio dell’estate dell’Anno Solare 170 era una
crociera molto speciale.
La
destinazione, la luna minore Erithium, non era insolita; insolito era semmai lo
spettacolo che i ricchissimi passeggeri imbarcati in quell’occasione erano sul
punto di godere da una prospettiva di assoluto privilegio: la Nascita di
Erithium.
Ogni
cinquantanove anni, era stato stimato, a seguito di un particolare allineamento
di Celestis e dei suoi due satelliti, i raggi del sole colpivano direttamente
Erithium invece della sua sorella maggiore, illuminandolo in modo ancor più
violento del solito e facendo così scintillare come non mai i suoi vasti giacimenti
di krylium; ma il vero spettacolo era un altro, perché comportandosi come una
lente Erithium proiettava un cono di luce verso Neos, la cui l’atmosfera contenente
la polvere di krylium che la gemella disperdeva ininterrottamente attorno a sé
provocava una vera e propria pioggia di luce: questa poi andava a ricadere
proprio sul Mare di Venere, un immenso cratere naturale la cui forma
richiamava, per l’appunto, una figura umana con le braccia protese verso
l’alto, facendola risplendere di quella stessa luce azzurra che come una stampa
di stagliava ben visibile sulla superficie bianco-grigiastra.
Uno
spettacolo assolutamente impagabile, e che oltretutto, verificandosi sulla
faccia nascosta di Neos, risultava invisibile dal pianeta, lasciando a chi non
aveva migliaia di Kylis da investire in un biglietto evento per un viaggio
unico al mondo la magra consolazione di poterlo seguire alla televisione grazie
alle immagini dei satelliti.
Certo,
navigare nello stretto cunicolo che separava le due lune, tra detriti e
correnti gravitazionali anomale, non era impresa da tutti, ma nulla che
l’esperto Comandante La Hire non sapesse gestire, e la sera prevista per il
grande spettacolo tutto era assolutamente in ordine.
Il
ristorante di prima classe sul ponte principale, addobbato per la festa,
sembrava il salotto buono di un palazzo reale, tra gioielli, vestiti
sfavillanti, cibi e bevande di lusso e tanti, tantissimi volti noti; della
politica, dello spettacolo, dello sport. C’era perfino qualche rappresentante
della MAB, la cui autorità a livello internazionale negli ultimi anni era in
rapida e continua ascesa, tanto da aver trasformato Caldesia, la sua
roccaforte, nel faro politico ed istituzionale dell’intero pianeta.
La
contessa Johanna Sauchel, fresca moglie in seconde nozze di Balthus Weilmann,
Conte di Bonnestal e Cavaliere dell’Ordine Coloniale di Amaltea, era impegnata
come al solito a bisticciare con la figliastra Hilda, otto anni e un
temperamento peperino ereditato dalla madre, la compianta contessa Weilmann; al
tavolo da poker sulla balconata superiore Richard Song, giocatore
professionista di Ebridan, stava spennando a dovere gli ingenui di turno,
trovando in Philippe Reynar, vicesindaco di Kyrador, il primo vero avversario da
qualche anno a quella parte; Georg Gullit, sommelier con trent’anni di
esperienza, faceva la spola da un tavolo all’altro consigliando ad ogni nutrito
gruppo di commensali il vino più adatto alle rispettive esigenze, perdendosi in
lunghe conversazioni inerenti al suo fantastico lavoro; Raoul Montero, umile
cameriere di seconda categoria, si godeva per quanto possibile quel piccolo
momento tra i grandi del mondo, insperatamente guadagnato grazie a quella
fastidiosa febbre parainfluenzale che già dal quarto giorno di viaggio aveva
preso a fare vittime tra lo staff, personale di sala compreso.
«Signore
e signori!» annunciò la specialissima animatrice della serata, la famosa
attrice e cantante Ashley Tunderscott «Sincronizzate gli orologi! Mancano
esattamente cinque minuti alla Nascita di Venere!».
Il
pubblico intero si alzò dai propri tavoli pronto a brindare, e mentre al centro
del salone il timer iniziava a scandire i secondi Ashley Tunderscott annunciò
l’arrivo del Comandante La Hire in persona, che come in un gioco di prestigio
comparve da un istante all’altro sul palco in un turbinio di suoni, luci e
vapore, sotto applausi scroscianti.
«Buonasera,
gentili ospiti» disse facendo loro un rispettoso inchino. «Vi ringrazio per
essere intervenuti così numerosi, in quello che è un evento che ad oggi in
pochissimi sono stati in grado di osservare in prima persona.» quindi, iniziò a
raccontare. «Secondo la leggenda, Venere, la dèa della bellezza, nacque da una
conchiglia, emergendo dalla spuma del mare.
La sua
bellezza era tale che non appena posò gli occhi sul mondo, questo si riempì di
luce e di colore, e tutte le forme di vita intonarono canti di gloria per la
venuta della dèa.
I nostri
antenati che vivevano sulla Terra coniarono questa leggenda per celebrare la
grandezza e la bellezza del mare, ma anche in ossequio ai molti misteri ed al
fascino che esso esercitava in quanto distesa sconfinata tutta da esplorare.
Oggi,
molte cose sono cambiate, ma la leggenda è rimasta la stessa. L’infinità del
mare è stata sostituita da quella del cosmo, la conchiglia è diventata grande
come una luna; ma Venere, la Dèa della Bellezza che porta la luce e la gioia nel
mondo, lei continua ancora a rinascere, oggi come allora.
E
quindi, è giunta per noi l’ora di salutare la sua nuova rinascita, e di
ringraziarla per le infinite meraviglie che riempiono il nostro mondo.
Salutiamo
la Nascita di Venere!».
Ad un
cenno del Comandante, le immense vetrate del ristorante vennero scoperte
dall’abbassamento dei pannelli protettivi, giusto in tempo per assistere in
diretta all’arrivo del primo raggio di sole, che rimbalzando su Erithium
colorandolo di azzurro vivo puntò diritto verso Neos, prendendo a delineare in
modo sempre più nitido la figura di Venere che, come nel mito, emergeva dalla
sua conchiglia nel mezzo dell’oceano stellare, benedicendo tutto e tutti.
Gli
applausi per il Capitano furono presto sostituiti da grida di esclamazione, e
quasi tutti si affrettarono a raggiungere il miglior punto d’osservazione
possibile accalcandosi davanti ai vetri.
Le altre
navi, che non potevano vantare la stessa affidabilità del Megonia, erano
costrette a rimanere più lontano, e così per quei pochi fortunati si trattò di
un’esperienza quasi da favola, da raccontare negli anni a venire a nipoti e
pronipoti.
Anche il
Capitano, che come tutti assisteva alla Nascita di Venere per la prima volta in
vita sua, cercava per quanto possibile di godersi quel momento, quando una
chiamata inopportuna sul suo comunicatore disturbò la sua contemplazione
proprio sul più bello.
«Cosa
c’è, Shawn?» rispose
«Comandante,
scusi se la disturbo» disse dalla plancia il Primo Ufficiale «C’è qualcosa che
non và nella sala dei server di controllo. Non riusciamo a metterci in contatto
con Oskar e Wilbur.»
«Staranno
godendosi il momento come tutti gli altri. Non è il caso di preoccuparsi.»
«Lo
pensavo anch’io, le comunicazioni si sono spente di colpo, e poco prima che
succedesse Oskar ha detto che Wilbur si stava sentendo male».
Il Comandante
rimuginò contrariato, masticando imprecazioni varie.
Quella
dannata febbre che era spuntata proprio nel momento sbagliato, e se non fosse
stato per le direttive provenienti dalla compagnia che avevano tassativamente
proibito il ritorno in porto avrebbe immediatamente ordinato di virare la rotta
alle prime avvisaglie di una probabile epidemia.
I medici
di bordo avevano parlato di una banale influenza, neanche troppo aggressiva, ed
era anche per questo che la compagnia non se l’era sentita di annullare quella
che si proponeva di essere la crociera del secolo, pena la perdita di fiumi di
soldi tra biglietti, cause legali varie e diritti televisivi per il
documentario che si stava girando.
Se non
altro isolare i contagiati, quasi tutti dell’equipaggio, nelle proprie cabine o
nell’infermeria si era rivelato efficace, perché dopo di allora i nuovi casi
erano sensibilmente calati, ma occorreva affrontare rapidamente ogni
imprevisto, anche per evitare che i passeggeri scoprissero cosa stava
accadendo.
«D’accordo,
vado a controllare».
Dileguatosi rapidamente, senza
dare nell’occhio, La Hire prese l’ascensore di servizio fino al Ponte H, e
percorso un lungo corridoio raggiunse infine la porta che immetteva nella sala
centrale di controllo.
Qualche
anno prima un pazzo aveva cercato di prendere il comando di una nave da
crociera per commettere un eclatante atto di protesta, e da allora le norme di
sicurezza che regolavano l’accesso alle zone più sensibili e vitali, dal ponte
di comando alla sala macchine, erano state severamente amplificate.
La sala
centrale era il cuore della nave.
Da lì si
poteva controllare qualsiasi cosa, dagli impianti di alimentazione ai sistemi
di sicurezza ed emergenza, fin’anche alla distribuzione dell’ossigeno, anche se
quest’ultima era comunque dotata di sistemi di emergenza che le permettevano di
funzionare in modo autonomo in caso di necessità.
Così
come per il ponte, la sala macchine e altre zone calde, l’accesso era regolato
da un codice di sicurezza, noto solo al personale che lavorava in ogni singolo
settore. Solo il Comandante aveva i codici di tutte le zone, quindi per La Hire
non fu un problema ottenere l’accesso.
L’interno,
dominato al centro dal nucleo di memoria, che come una gigantesca clessidra
svettava verso l’alto tramutando la stanza in una sorta di grande anello, era
stranamente scuro, e tutte le luci apparivano staccate, ma i monitor dei
computer e gli altri sistemi sembravano tutti operativi.
Il
silenzio era totale.
«Wylbur.
Oscar.» disse il Comandante addentrandosi nell’oscurità «Tutto ok?».
Nessuno
rispose.
«Mi
hanno chiamato dal ponte. Hanno detto che vi siete spenti di colpo. È successo
qualcosa?».
D’improvviso,
qualcosa di unto e scivoloso fece slittare in avanti il piede di La Hire, anche
se grazie ai suoi riflessi il Comandante riuscì a restare in piedi.
«Al
diavolo!» brontolò contrariato «Che avete fatto, avete pisciato per terra?».
Più per
caso che per vera volontà l’occhio del Comandante andò a trovare il
responsabile di quel fuori programma, ma come il suo sguardo riuscì a fendere
il buio al suo interno comparvero uno sgomento ed un terrore senza confini.
«Oh, mio
Dio…».
Il dottor Mark Curtis aveva
trattato altre volte casi di epidemie sviluppatesi a bordo di navi da crociera
o vascelli mercantili, e la sua condotta era sempre stata esemplare.
Tutti
coloro che avevano contratto quella strana febbre erano stati confinati nella
zona di quarantena del Ponte C, nei pressi dell’infermeria della nave, da dove
non era loro consentito uscire vista anche l’estrema facilità di contagio.
I malati
accusavano febbre, un po’ di tosse e dei dolori addominali, ma niente di
particolarmente serio, tanto che qualcuno era già stato dimesso non appena i
sintomi più evidenti si erano affievoliti, e dopo l’iniziale superlavoro anche
il vario personale infermieristico aveva iniziato a tranquillizzarsi.
La
situazione si era a tal punto tranquillizzata che il dottore aveva anche
trovato il tempo di seguire a sua volta la Nascita di Venere dalla vetrata
dell’infermeria assieme ai suoi collaboratori.
«Toglie
il fiato, davvero.» disse il dottore, che non si stancava mai di ammirare le
meraviglie che il cosmo era in grado di offrire.
Ma
d’improvviso, proprio nel bel mezzo dello spettacolo, il suo comunicatore e
quelli di tutti i presenti presero a suonare come tanti allarmi.
«Presto,
dottore!» urlò un infermiere entrando nell’infermeria quasi sfondando la porta
«Ci sono problemi!».
Quello
che Curtis trovò tornando nella zona di quarantena, però, andava oltre
qualunque cosa si sarebbe mai potuto immaginare.
Da un
momento all’altro, e per ragioni inspiegabili, quasi tutti i pazienti erano
improvvisamente peggiorati. Una semplice febbre si era tramutata di colpo in
una intensa vampata, i dolori addominali in spasmi lancinanti, e le urla di
dolore erano tali da risultare assordanti.
Alcuni
poi accusavano tremendi dolori alla testa, altri ancora arrivavano a tossire
litri di sangue minacciando di soffocare.
«Soluzione
Beta e venti unità di tirvazina, subito!» sbraitò il medico buttandosi sul
paziente più vicino, un’addetta alle pulizie tra i primi a venire contagiata.
Ma fu
tutto inutile.
Mark
vide quella poveretta arrivare quasi a spezzarsi la schiena in preda a tremende
convulsioni, vomitarsi addosso tutto il sangue che aveva in corpo, quindi,
rivolti gli occhi all’indietro, spirare senza vita sul suo letto con
un’espressione spaventosa, urlante, e a nulla valsero i tentativi di rianimarla
col defibrillatore.
«Fanculo!»
urlò Mark fracassando a terra una siringa di vetro.
Quasi contemporaneamente,
le urla che riempivano la stanza echeggiando dai vari stanzini recintati da
tendaggi si acquietarono o scomparvero del tutto, come se tutti quei poveri
sventurati si fossero coordinati per arrivare nello stesso istante
all’appuntamento con la morte, improvvisa ed implacabile.
Avvinto,
come ogni altra volta che aveva visto un paziente morirgli davanti, il dottore
fece per dirigersi dove vi era ancora bisogno di lui, quando d’un tratto, come
per incanto, un tintinnio riecheggiò nello stanzino.
Voltosi
verso i macchinari, però, Mark si accorse che di magico quel suono non aveva
nulla; semmai, era altamente inquietante.
L’elettrocardiogramma
era assolutamente piatto, come si conviene ad una persona defunta, ma di contro
l’elettroencefalogramma, dopo aver taciuto per un po’, aveva preso a segnalare
attività cerebrale in corso; era debole, ma c’era, e con il passare dei
secondi, invece che acquietarsi, sembrò prendere vigore.
Com’era
possibile?
«Ma che
diavolo…»
Riavutosi dallo sgomento,
ma con una strana paura nel cuore che montava sempre più, quasi a volerlo
mettere in allarme, il Comandante La Hire seguì, dapprima con gli occhi e poi a
piccoli passi, quella innaturale linea rosso opaco, che come una mano di
pittura su un muro scolorito risaltava sul grigio del pavimento metallico,
avventurandosi sempre più in profondità verso il centro della stanza.
Poi,
indistinto, si udì un suono, come di qualcosa che si strappava, solo pochi passi
più in là, oltre il cuore dell’impianto che copriva la vista; La Hire vi girò
attorno, i nervi tesi e le tempie rigate dai sudori freddi, ma ciò che vide
andava ben oltre la dimensione del tollerabile, scivolando in quella
dell’incomprensibile, oltre che dell’orrore.
Oskar
era a terra, morto, gli occhi fuori dalle orbite e la bocca innaturalmente
aperta, aperto come un animale da macello, gli intestini scoperti e anneriti
dal contatto con l’aria; e Wilkins, il suo amico Wilkins, era sopra di lui, le
mani affondate nel braccio destro ridotto ad un moncherino e il viso,
mostruoso, completamente nascosto dal suo sangue, impegnato a spolpare la parte
di osso ancora attaccata al corpo come un leone farebbe con la propria preda.
La Hire
era così atterrito e sconvolto che non gli riuscì di parlare, né di muoversi,
almeno fino a quando Wilkins non sollevò gli occhi accorgendosi della sua
presenza. Per fortuna, da esperto combattente ed eccellente soldato quale era,
i suoi riflessi erano più che attenti, così quando Wilkins, con un’agilità ed
una forza quasi innaturali, gli saltò addosso con espressione demoniaca, fu
abbastanza rapido da riuscire ad afferrarlo, evitando di venire azzannato alla
gola.
«Wilkins,
che stai facendo?» urlò tentando di allontanarlo.
Ma il
marinaio non rispose, limitandosi ad emettere sinistri gemiti e rantoli da
animale, mentre imperterrito continuava a tentare di vincere la presa della sua
vittima nel tentativo di morderla, tanto che alla fine La Hire non ebbe altra
scelta: afferrata saldamente la testa di Wilkins vi esercitò tutta la pressione
possibile, e finalmente quella specie di abominio, emesso un ultimo gemito, si
accasciò a terra con il collo spezzato in più punti.
Il Comandante
rimase a lungo immobile, atterrito dall’orrendo spettacolo che aveva davanti,
ma poi, cercando di richiamare a sé tutto l’autocontrollo di cui disponeva, si
avventò subito sui sistemi di controllo per dare l’allarme.
Anche la
consolle era imbrattata di sangue, e alcune parti erano danneggiate; doveva
esservi stata una lotta davvero feroce, che Oskar aveva perso solo dopo avervi
profuso tutte le energie di cui disponeva.
«Ponte
di comando, mi sentite?» disse aprendo il collegamento diretto col ponte dopo
aver ripristinato del tutto le funzioni operative
«La
ricevo, Comandante.» disse Shawn apparendo sul monitor «Cosa è accaduto?»
«Shawn,
contatta subito il dottor Curtis. Massima priorità. È accaduto qualcosa a
Wilkins. Temo che quella che abbiamo a bordo non sia affatto una semplice
influenza. Dobbiamo…».
La Hire
non ebbe il tempo di finire la frase.
Con gli
intestini quasi completamente a penzoloni, un braccio ridotto ad un moncherino
e varie altre ferite in tutto il corpo, Oskar si avventò sul suo Comandante
proprio come aveva fatto Wilkins, gli occhi neri come la notte e la faccia
ridotta ad una maschera demoniaca; questa volta La Hire, colto alla sprovvista,
venne sopraffatto quasi subito, e come se una sfilza di paletti gli fossero
stati violentemente piantati il corpo si vide portare via un’intera porzione di
spalla all’altezza del collo, prendendo a spruzzare fiumi di sangue sotto lo
sguardo, attonito ed impotente, del suo secondo.
Nel
venire buttato in avanti il Comandante azionò inavvertitamente l’altoparlante,
e così tutti, nei ponti passeggeri come nel resto della nave, poterono udire le
sue urla spaventose, da far gelare il sangue, mentre Oskar gli strappava
letteralmente la carne dal corpo un pezzo per volta.
Con la
forza della disperazione La Hire si buttò all’indietro nel tentativo di
allontanare Oskar, che nel mentre gli era di fatto salito in groppa in preda
alla sua famelica furia, ma perso l’equilibrio rovinò senza scampo contro la
sottile lastra di vetro protettivo che ricopriva il nucleo di energia,
fracassandolo e finendo arrostito vivo assieme al suo aggressore per le
scariche di energia che come una scossa elettrica folgorarono entrambi.
Il corto
circuito si propagò in un lampo per tutta la nave, e da un istante all’altro
nel salone delle feste tutti si ritrovarono al buio, con le sole luci di
emergenza a fornire un po’ di chiarore.
A quel
punto, il silenzio spaventoso generatosi al suono delle urla del Comandante
attraverso i microfoni si tramutò in un coro di urla spaventate.
Gli
inservienti e il personale di bordo tentarono di riportare la calma, e per un
attimo sembrò che quella massa esagitata potesse in qualche modo venire
controllata, ma la realtà era che la situazione era tutt’altro che semplice,
soprattutto a causa dell’impossibilità di comunicare con il ponte di comando.
«Le
linee sono isolate.» disse uno sollevando la cornetta, e visto che tra i membri
dell’equipaggio presenti non ve n’era nessuno dotato di poteri magici non si
poteva neanche ricorrere alla telepatia.
La
situazione sembrava sul punto di calmarsi, quando da una porta chiusa, una
delle molte che immettevano nel ristorante, prese a giungere un rumore strano,
come di qualcuno che vi batteva per farsi aprire, attirando l’attenzione di
quelli più vicini.
Questione
di un istante, e i battenti furono praticamente divelti da cinque o sei
creature abominevoli, quasi dei mostri, che senza indugio saltarono addosso
agli ospiti più vicini, buttandoli a terra e prendendo a sventrarli con morsi
ed unghiate, mentre quei poveri sventurati urlavano dal dolore implorando di
essere salvati.
Da uno
stato di calma apparente si passò al panico più totale, e tutti presero a
correre in ogni direzione nel tentativo di salvarsi da quei mostri, che come
uno sciame di mosche attirate da una carcassa stavano arrivando da ogni dove
bloccando quasi tutte le possibili vie di fuga.
Nessuno
o quasi si curava degli altri.
Quello
che contava era solo salvarsi la vita.
La
contessa Sauchel, nonostante tutto, tentò di tenere Hilda stretta a sé, ma la
bambina approfittò di un momento di esitazione per divincolarsi e correre alla
ricerca del padre, scomparendo a sua volta nella calca che nello stesso tempo
trascinò letteralmente via Johanna verso una delle poche uscite sicure;
Philippe Reynar riuscì a strappare una donna dalle grinfie di uno di quei
mostri spaccandogli in testa una sedia, e aiutata la donna a rialzarsi la prese
sottobraccio allontanandosi assieme a lei; Georg e Raoul si incontrarono nella
ressa, con il primo che stortosi una caviglia e debilitato dall’età dovette
appoggiarsi al secondo per riuscire a fuggire; Richard Song dovette trascinare
via a forza una donna il cui marito era stato tra i primi a venire sbranato,
riuscendo ad allontanarla dal cadavere giusto un attimo prima che questo si
rianimasse cercando di assalirla.
Come nel
salone, la stessa scena si ripeté praticamente in ogni angolo raggiungibile
della nave.
I mostri
seguitarono a crescere rapidamente di numero, e in poco tempo dilagarono in
tutti i settori, dalle zone cabina al quartiere dei locali, dalle piscine al
parco artificiale, facendo scempio di tutto ciò che avesse anche solo una
parvenza di commestibile, inclusi gli esseri umani; di quella grandissima parte
tra passeggeri ed equipaggio che non riuscì a mettersi in salvo alcuni, poco
dopo la morte, si unirono agli assalitori, mentre altri, la maggioranza,
finirono dilaniati prima ancora di potersi rialzare.
Nelle
pubblicità e nei depliant delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato
come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera
dell’inferno.