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Autore: marani    08/05/2014    1 recensioni
Il primo dei due racconti che fa parte della mia personale 'bilogia' dedicata alle due persone che mi hanno messo su questo mondo. Un 'posto' anomalo e magico. Un bizzarro testamento verbale. Una tormentata discesa nel profondo dei rimpianti e dei rimorsi, alla ricerca di una innocente fanciullezza che razionalmente parebbe persa per sempre. A meno che...
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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mondo 8.

(TLAC)
Okay. Da dove riprendiamo? Allora… più o meno una decina di giorni fa, il vecchio se ne salta fuo­ri all’improvviso con un’altra delle sue. Mi chiede a bruciapelo se, se­condo me, non sarebbe stato bel­lo poter ipotizzare che quel posto, il viottolo e tutto il re­sto, non facesse solo una cosa in particolare (misteriosa a tal punto che nemmeno noi sapevamo di cosa stessimo parlando, non è assurdo?), ma ben­sì che fosse in gra­do… come dire… di esaudire qualsiasi desiderio uno avesse in mente. Io lo fis­­sai col so­lito arco convergente delle sopracciglia, in un’espressione che mi viene ogni qualvolta ho l’impressione di esser preso per i fondelli. Nella fattispecie da quel tizio. A­ri­sti­de sostenne il mio sguardo indagatore con la consueta espressione impenetrabile, ap­pena solcata da un sorrisetto troppo lie­­ve per essere ostentatamente canzonatorio. Fru­gai nella mente alla ricerca di una rispostaccia che fos­­se sufficiente, nell’eventualità di essere vittima di una burla, a tirarmene fuori non troppo turlupinato. Optando poi, chissà perché, per una bizzarra analisi… diciamo scientifica… di quell’azzardata af­­­fermazione. Mmh…,borbottai grattandomi il mento ispido di barba da rasare, per cui, vediamo co­s’abbiamo… la probabilità che quel viottolo sia in grado di, nell’ordine, non far niente… fare qual­co­sa di speciale, e di cosa si tratti è tutto da dimostrare, op­pure, udite udite, fare TUTTO. E’questo che intendeva ? Lui ridacchiò sotto i baffi che non aveva, alimentando la diffidente sensazione che stesse mettendo in atto uno dei suoi giochetti preferiti ai danni del sottoscritto. Non ho detto che sia co­­­sì, puntualizzò pedante, ma solo che sarebbe bello pensarlo
(Dannato vecchiaccio, sei veloce a far retromarcia, pensai io velenoso)
co­sì, tanto per parlare… Lei, per esempio (ci davamo ancora del rispettoso lei, pur beccandoci a vol­te come vecchie comari litigiose) se potesse esprimerne uno e solo uno, di desiderio, cosa chiederebbe?
Quella domanda, diretta e inaspettata come una secchiata d’acqua gelida, ebbe il potere non solo di dis­sipare le mie paranoiche congetture sul fatto o meno di essere vittima di una presa in giro, ma an­che e soprattutto di lasciarmi senza parole. Il vecchio giochetto dell’unico desiderio… quante volte lo abbiamo fatto nella nostra vita? Milioni? Per quel che mi riguarda, penso proprio di sì. Anzi, in al­cune occasioni è stato alquanto interessante, e a volte divertente, verificare come può cambiare il punto di vista in me­rito a seconda del trascorrere dell’età (intorno ai sedici anni, interrogato sulla que­stione dai compagni di scuola, la mia preferenza era caduta su essere invisibile nello spo­gliatoio fem­minile della palestra) o degli eventi che la vita ci pone davanti. In quel mo­mento, vedovo cinquantenne in dirittura d’arrivo al pre-pensionamento, solo con an­ziana madre instabile e spelacchiato beagle a carico, quale poteva essere l’unica co­sa a cui anelare con tutto me stesso, secondo voi? Im­magino non occorra star qui a spe­cificarlo, considerando per di più l’alto grado di “follia” nel so­lo pensare una cosa del genere. Cose fuori dalla realtà. Cose da matti.
La dannata questione posta, per un istante (breve, fugace ma assolutamente i­ne­briante) mi fece qua­si sperare che le cose potessero essere proprio così. Fu un attimo, co­me dico, poi feci di tutto, attraverso il to­no di voce e l’espressione del viso, per co­municare allo spiritosone che era un giochetto che non mi di­vertiva per niente. Penso possa immaginare cosa vorrei, ribattei glaciale, non credo sia tanto difficile da immaginare, e non mi sembra proprio il caso di spenderci parole, soprattutto in virtù del­l’as­soluta assurdità di questa cosa... Lui borbottò qualche mezza frase a volume troppo bas­so per capire se stesse o meno porgendomi delle scuse. Era solo una cosa innocente, priva di…, bor­bottò visibilmente ab­bacchiato. Mi frugai dentro, per stabilire se la mia reazione non fosse stata in ogni caso troppo ag­gressiva, ma in tutta onestà l’irritazione mi impedì di valutarlo con imparzialità. Vagheggiamenti di anziani che hanno tempo da perdere, riprese lui, come cercando di mettervi una tardiva pezza, non so… forse come dice lei è una cosa discutibile, ma non ha idea di quante vol­te mi ci so­no lasciato in­castrare
(Piantamola qui!, aveva sibilato una voce da qualche parte dentro la mia testa)
sa­rà anche una fantasia da sciocchi… ma io desidererei con tutto me stesso che potesse tornare mia mam­ma…
Distolsi la faccia, per nascondere l’istintiva espressione d’insofferenza che mi aveva colto. Sentire quel vecchio barbogio affermare una cosa del genere, col tono di voce pia­gnucoloso come se avesse ap­pena spento tutte le candeline del settimo compleanno meno una, mi faceva ribollire il sangue nel­le vene. L’impulso sarebbe stato quello di borbottare lì qualche tipo di giustificazione, un appuntamento che mi ero scordato, il gas lasciato aperto, e allontanarmi alla velocità della luce da quel bizzarro (a dir poco) per­sonaggio il cui unico scopo nella vita sembrava essere quello di farmi perdere tempo e pazienza. M’imposi di darmi una calmata, e di comportarmi in maniera più o­biettiva e tollerante. In fondo eravamo due persone sole, con i nostri difetti e le nostre pa­turnie (nemmeno io ero un caratterino facile, quando mi ci mettevo, anzi) e non era af­fatto tutto da buttare in quella nostra pre­caria e insolita frequentazione. Anche se l’ir­ritazione in seguito a quell’episodio faticava a sopirsi, lavorando sotto come una bra­ce nascosta e inestinguibile. Cosa le costa farlo, allora?, la frase, partita pacata, pre­se ad incendiarsi subito in una sorta di rovente ripicca, voglio dire, perché non pro­varci ?! Male che vada se ne sta lassù a godersi il panorama e la brezzolina della se­ra, e poi se ne tor­na a casa soddisfatto di aver vinto una fobìa che si portava dentro da tutta la vita…, scrutai nel suo sguardo vitreo alla ricerca della certezza che la mia pro­vocazione avesse fatto centro, ripeto, ma­le che vada…se, al contrario, le stupidaggini, calcai in maniera forse eccessiva su quella parola, che ci stiamo raccontando…beh, fossero reali… Non riuscii a concludere la frase. Mi sembrava così dan­natamente fuori di zucca da tentare di tutto pur di non cascarci dentro. Lui si lasciò an­dare contro la rete di recinzione, che s’incurvò gemendo sotto il suo modesto peso. Come il temporale di al­cu­ne settimane prima aveva fatto con l’afa, anche quell’improvviso mutamento di umore raffreddò in maniera sensibile la nostra discussione. Si pas­sò una mano malferma sulla pelata madida di sudore. Oh, non creda che non ci ab­bia pensato, biascicò poi con un viso spiacevolmente pallido, per in­numerevoli giorni, e altrettanti notti insonni, anche per via di alcune cose che…Non concluse quella frase, e io ero ancora troppo alterato per insistere su quello che intendeva dire, anche se ripensandoci in seguito ebbi la netta impressione che fosse un particolare importante. Lui riprese. Ci ho ri­muginato su fino a farmi venire il mal di testa, fantasticandoci, an­che se mi rendevo conto che era la cosa più folle del mondo… Una pazzia, o forse un sogno. Ma se non possiamo neanche più so­gnare, cosa ci resta, in questa inutile vi­ta ? In maniera del tutto inaspettata, la faccenda stava iniziando a rivestirsi di sgradevoli sviluppi esistenziali, mentre prendevo atto con sgomento che il mio at­tacco gra­tuito aveva causato un disagio pari almeno a quello che avevo provato io. E il fatto che il ri­sultato fosse un salomonico pareggio non mi consolava per niente. E sa qual è il motivo… il motivo reale, al di là di tutte le balle su incapacità e paralisi varie, che mi ha impedito di fare questa sem­plice verifica, come la chiama lei ? Eh ? Lo vuole sa­pere ?, insistette con voce piagnucolosa. Io non pro­vavo la minima attrazione nel ve­nire messo a conoscenza di quella confidenza, proprio per niente. Anzi, l’unica cosa che avrei desiderato in quel momento sarebbe stato che quella paranoica con­versazione in cui ci eravamo invischiati non fosse mai cominciata. Vuole che glielo dica ?, mormorò an­cora una volta, fissando con occhi spenti le avviluppanti spire di un’edera selvatica arrampicarsi den­tro e fuori i rombi della rete di recinzione. Non lo vo­levo sapere. Non sapevo di cosa si trattasse, ma qualcosa, una sgradevole sensazione di metallico in bocca, come se avessi succhiato una manciata di monetine, mi suggeriva che la risposta non mi sarebbe affatto piaciuta. Non mi era chiaro nemmeno il per­­ché, allora, mentre in questo momento sono arrivato a capire che si trattava dello stes­so, i­dentico motivo per cui nemmeno io sono riuscito a salire quello stronzissimo ar­gine. Per ora, al­meno. Non vo­levo co­noscere la sua versione dei fatti, in ogni caso, e sta­vo quasi per farglielo presente, ma il vecchio non me ne lasciò il tempo. Perché se, co­me dice lei, la cosa dovesse funzionare…beh, sarebbe me­ra­viglioso, ci mancherebbe altro, non trova ? Ma è l’effetto opposto che mi terrorizza: come potrei tor­narmene giù, e riprendere la vita di tutti i giorni, se invece NON SUCCEDESSE UN BEL NIENTE ?!?
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Possibile? Voglio dire, possibile che la stessa motivazione valga per me? E che la mia esistenza sia talmente vuota e insipida da portarmi ad abbracciare le deliranti teorie di un vecchio semisconosciuto?!? Beh, oddìo, non che la mia vita sia poi tutta ‘sta gran cosa, sono il primo a rendermene conto, ma in ogni caso non ho mai sofferto per questo. Né tantomeno mi sono balenate in testa idee estreme di aprire il gas e salutare tut­ti. Mai, nemmeno in momenti in cui ero fermamente convinto che trovare la forza per farlo sarebbe stato il minore (e il più inebriante) di tutti i mali. Non sono mai arrivato a pensare di poter riincontrare la mia adorata Sandra se non, forse, attraverso il me­todo tradizionale, di­­ciamo. E anche per quello non è che sia particolarmente fiducioso, la mia fede è alquanto latitante, non accompagno nemmeno più mia madre alla mes­sa domenicale nella cappellina della casa di riposo. C’è sempre il rischio che si metta a sbraitare che non le va a genio quel prete perché è lo stesso che s’intrufola di not­te in camera sua per rubarle gli ori. E purtroppo questo non era un ipotetico e­sempio, ma un desolante episodio di “vita vissuta”. D’accordo, il fatto di sperare in una vita oltre la morte non ha poi un prezzo troppo alto, in fondo dubito che ci sarà uno sportello-reclami nel caso le co­­se non vadano proprio come ci hanno insegnato a dot­trina. E’ la solita storia del gatto che si mor­de la coda. Se nell’aldilà non ci dovesse es­sere proprio un bel niente, non saremmo neanche in gra­do di verificarlo. E’un concetto troppo semplice (o troppo complicato) per essere compreso da noi stupidi umani. In ogni caso posso garantire che non ho cercato altre scorciatoie per arrivare da mia mo­­glie, né naturali né ancora meno artificiose. Non ho mai preso in considerazione l’i­dea del sui­cidio, co­me vi ho appena detto, né sono andato a spendere milioni per or­ganizzare sedute spiritiche e tentativi di contatti con l’oltretomba. Sono vedovo, solo, so­vrappeso, pelato ma ritengo di a­ve­re ancora tut­te le cellule cerebrali in piena efficienza. E allora perché quelle folli tiritere di Aristide su viottoli ma­gici, desideri esauditi e balle varie mi stavano rincretinendo a quella maniera ? Perché, ve­dete, an­che se mi vergogno molto a dirvi quello che sto per affermare (pur se anch’io, come il mio de­­gno compare di fantasie, da un po’ di tempo ho leggermente variato il mio punto di vi­sta, per via di alcune cose che) quel pensiero mi era entrato in testa, come un tarlo ma­ligno e insistente, costringendomi a tornare sull’argomento nei momenti più disparati. Era una continua e irrisolta lotta tra quell’ipotesi assurda e legioni di pensieri ra­zionali che cercavano con tutte le forze di farla fuori. Riu­scendovi, nella quasi totalità delle volte, ma era solo una vittoria di Pirro. Perché, vedete, quell’idea fissa aveva una ca­ratteristica determinante: era immortale. Fingeva, la stronza, di soccombere sotto i col­­pi della presunta ragione, calpestata a morte da pensieri tipo Ma ti pare che a cin­quan­t’anni ti met­ti a credere alle favole? oppure Che sia il caso di farsi vedere da qualcuno che possa prendersi cu­ra di un evidente esaurimento nervoso ?, salvo poi ri-bal­zare su più arzilla e combattiva di prima, vi­sto che aveva fatto solo finta di essere pas­sata a miglior vita.
Ci pensavo, ci pensavo fino a farmi venire un’emicrania con le contropalle. Senza giungere al benchè minimo chiarimento con me stesso. L’ho cercato pure negli occhi pro­fondi e perduti di Sandra, nel­la minuscola foto sulla lapide della sua tomba, senza e­sito, nonostante in passato mi avesse aiutato a venire fuori da ben altri abissi di di­sperazione. Di solito me ne sto seduto sul marmo freddo (lo so che non è proprio irreprensibile, come comportamento, e difatti più di qualche vecchiottella mi gra­tifica di un’occhiata non troppo amichevole, ma Sandra era tutto il mio mondo, dovunque essa sia, e quindi ho tutto il diritto di spaparanzarmi là), e tutti i miei turbolenti pensieri, a po­co a poco, si acquietano, e dentro di me comincia a farsi chiaro. Di solito, ripeto, ma non in quel particolare frangente. Lo sguardo di mia moglie mi fissava senza dire as­solutamente nulla. Non mi diceva provaci, ma nemmeno lascia perdere. Non suggeriva togliti quella idea balzana dalla testuggine, con quel suo esclusivo modo di chiamare la mia capoccia, ma ancora meno perché no? Ero solo, in tutti i sen­si, e l’eventuale decisione spettava esclusivamente a me. Decisione di che, porca di quella puttana? Di far due passi su un argine erboso per andare a rimirare un panorama di campi coltivati a soia e granturco, o invece di… Ancora oggi, lo trovo talmente fuori di cervello da non riuscire nemmeno a pronunciarlo a voce alta. E questo è normale, no? Mentre nello stesso tempo il pensiero-tarlo, giusto al cen­tro della testuggine, scava e scava e scava. E questo invece, sarete d’accordo con me, è assolutamente folle.
Non ho più voglia di pensarci. Me ne vado a letto. Sperando di riuscire a dormire. E, nel caso, di non sognarlo anche stanotte.
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9.

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Dopodichè, le cose hanno cominciato a precipitare. Così, d’improvviso, e senza preavviso alcuno. E co­­sì che di solito va nella vita, no ? Sei lì che ti barcameni senza in­famia e senza lode (il più delle vol­­te senza nemmeno renderti conto di quanta benedizione ci sia, in questa che ti sembra una condizione noiosa e del tutto priva di attrattiva), snocciolando un giorno via l’altro come grani di un barbosissimo rosario, quando, tittidintratto, come diceva un’antico tormentone televisivo, in una pubblicità di mille anni fa, le cose cambiano. E non sempre in meglio. Anzi. Non succede troppo spesso, nel­la vita di noi poveri mortali, che ci capiti una comunicazione notarile an­nunciante una cospicua e­­redità dal classico zio d’America, o il fortunato acquisto del bi­glietto vincente della lotteria di Ca­po­danno. Manco per niente. In genere, sono batoste. E l’unica cosa che le contraddistingue è l’intensità con cui si abbattono sulla no­stra testuggine. Penale da parte del Ministero delle Finanze per in­vo­lontari casini del commercialista, batosta media. Foglietto verde di contravvenzione sotto il parabrezza, l’u­nica volta in cui si è parcheggiato in doppia fila, per un merdosissimo istante, batosta lie­ve. Qualcosa che non va nelle ultime analisi, fatte così tanto per sicurezza, da parte dell’altra metà e­­satta della nostra esistenza…Ohi ohi, preparate bende e cerotti, perché stavolta è in arrivo il BA­TO­STONE !!! Succede. E’ del tutto inutile star lì a re­cri­minare. Prima o poi tocca a tutti, chi più chi me­no. So che ci sono sfortunati sui qua­li la vita o il destino o il caso picchia più del dovuto (e di quanto meritino), ma in ge­nerale ognuno riceve la propria equa dose di fortune e sfighe. E forse… o an­­che sen­za il forse… questi tre livelli di batoste (sì, tutte e tre, anche se nel caso del “batostone”oc­­corre un bel po’ di lavoro in più affinchè la cosa faccia effetto) servono proprio come efficacissimi mec­­canismi per farci “rivalutare”il tran-tran di cui sopra. “Si sta­va meglio quando si stava peggio”, è un bel modo di dire, e anche “Una volta toccato il fondo si può solo risalire”.
Un'altra legge fondamentale della “teoria delle batoste”, elaborata in base ed esclusive e inevitabili test sulla propria pelle, sostiene che amino venire a farci visita in gruppo. Co­me una bella improvvisata di lontani parenti sgraditi e invadenti. E questa “visita di cor­tesia”,nel mio caso specifico, ha vi­sto come indesiderati partecipanti un improvviso aggravamento delle condizioni mentali di mia ma­­dre, sempre più spesso costretta a let­to da massicci interventi di calmanti, per evitare che facesse del male a sé stessa e a­gli altri. Come prima cosa. In secondo luogo, un’ancora meno prevedibile “cre­pa” nel­la corazza di raziocinio e forza di volontà che mi ero faticosamente costruito, allo sco­po di tener testa alle caustiche controffensive della nostalgia di mia moglie (ohi ohi, è quella sì che era una cosa che faceva male, dannatamente male, anche perché ero convinto da qualche tempo di essere riuscito a smorzarne i rigurgiti più dolorosi). E in ultimo, ma solo perché coinvolgeva una persona che avevo conosciuto da molto me­no tempo, quello che è capitato al vecchio Aristide. Le avvisaglie che qualcosa non an­dava le ebbi circa una settimana fa, per l’esattezza un lunedì sera, durante il so­lito gi­retto in bici. Non l’avevo visto nel fine-settimana, a causa di un’insistente perturbazione di fi­ne estate, che aveva imperversato con pioggia e temperature autunnali ben po­co affascinanti. Avevo ap­pena appoggiato i piedi a terra, fuori dalla rete di recinzione, quando la figura che si affrettò ad u­scire dalla casa di Aristide mi lasciò spiazzato per alcuni, lunghi secondi. Voglio dire, l’amico non era certo un giovanotto, con i suoi 72 anni portati comunque con invidiabile disinvoltura, ma la figura traballante che si di­resse nella mia direzione sembrava dimostrarne almeno il doppio. La sua e­spressione era sofferente, il colorito spiacevolmente terreo, quasi grigiastro, e mi strinse il cuore nel ve­dere come trascinava i piedi sul vialetto ghiaioso che portava al cancello. Abbozzò un mezzo sorriso, per niente rasserenante, leggendo nei miei occhi tut­to lo sconcerto per quell’improvvisa trasformazione. Tirò un lungo respiro incerto, come se gli costasse una fatica immane anche solo riempirsi i polmoni d’aria, prima di parlare. Mi rendo conto dal suo sguardo che il mio aspetto deve rispecchiare in pieno come mi sento, esordì con voce fioca e sofferente. Io non riuscivo a capacitarmi dello stato in cui pareva versare l’arzillo vecchietto che avevo lasciato in ottima forma non più tardi di due giorni prima. A-Aristide… Dio mio…, non riuscii di fare a meno di e­scla­mare, Cosa… cosa le è capitato ? Si sente male ? Lui ebbe il pudore di non farmi no­tare tutta la scontata ovvietà di quella mia infelice domanda. O forse il debito di e­ner­gie era talmente elevato, da non poterne sprecare neanche una goccia per uno dei no­stri soliti battibecchi. Si appoggiò alla rete, dando l’impressione di aggrapparvisi co­me la rigogliosa edera che ne infestava la parte inferiore, passandosi una mano cal­losa sul petto scarno. Non è stata una buona domenica, per niente, mormorò. Le grosse dita da ex-meccanico picchiettarono in corrispondenza dello sterno. Questa vecchia pompa sfiatata che chiamano cuore ha fatto le bizze, l’altra notte, spiegò. Qualcosa, che tecnicamente poteva essere de­fi­nito un sorriso ma che non ci assomigliava affatto, gli increspò il volto cereo, come un’antica ferita ri­apertasi improvvisamente. La sa la battuta, no ?, disse ancora, cercando forse di tirarmi su il morale in qualche maniera (di tirare su il morale a me !), se il cuore fa le bizze, io prenderei una guattro sdagioni ! Un patetico gemello di quel sorriso nato male fiorì anche sulle mie, di labbra, ma solo per un involontario moto di emulazione. Al di là delle burle, al di là delle freddure più o meno raggelanti, le condizioni di salute dell’uomo mi preoccupavano non poco. Mi mi­se al corrente di com’erano an­date le cose, ansimando e prendendosi lunghe pause nel racconto. Disse che già in passato il cuore gli aveva dato dei problemi, tanto che prendeva dei farmaci appositi per tenere la situazione più possibile sotto controllo. Nella notte tra sabato e domenica si era svegliato con la caratteristica, oppressiva sensazione di peso sullo stomaco. Non aveva perso tempo, nel dubbio, affrettandosi a chiamare la guardia medica. Il medico di turno, giunto a casa sua, aveva preferito non ri­schiare, richiedendo l’intervento di un’ambulanza. Ho visto l’alba al Pronto Soc­corso, proseguì con invidiabile spensieratezza, anche se sinceramente avrei preferito go­dermela in riva al mare… mi hanno fatto un sacco di domande, un bell’elettrocardiogramma completo ed esauriente, e poi mi hanno tenuto… com’è che han detto… in os­servazione per un bel po’ di ore… Ma sa, cosa vuole, in ospedale non hanno tempo da perdere, per cui o fai qualcosa di particolare per suscitare il loro interesse, tipo tentare di ti­rare le cuoia, o altrimenti fai presto ad andare giù nella classifica d’interesse… Mi hanno detto di ”riguardarmi”, e mi hanno spedito a casa… E difatti sono qui che mi “riguardo”…
Qualcosa, nelle sue parole, non mi convinceva troppo. Sì, d’accordo, negli ospedali, e nei Pronto Soc­corso in particolare, non brillano sempre per premurosità e sensibilità, in fondo hanno il loro bel da fare per fronteggiare nel migliore dei modi ogni tipo di e­mergenza, ma la sbrigativa conclusione del racconto del vecchio… non so come di­re…mi dava molto più l’idea che avesse insistito lui per cam­biare aria. Magari firmando per essere dimesso nonostante il parere contrario dei sanitari… Bor­bottai lì le so­lite frasi di circostanza, ancora choccato da quella situazione, raccomandandogli di non fa­re sforzi, di tenersi controllato. Che sì, avevano ragione quelli dell’ospedale, a di­re che doveva dar­si una regolata. La faccia gli si corrugò in un’espressione sconsolata. Se il tragitto da dentro fin qui al cancello va considerato come una faticaccia im­proba “da cui riguardarsi”… beh…forse sa­rebbe meglio mettersi a ballare il boogie-boogie fino a farselo scoppiare, ‘sto cuore… almeno fin che tien botta ce la si spassa… Restammo in silenzio, uno di fronte all’altro. Sulla ciclabile alle no­stre spalle transitò un rumoroso drappello di ragazzini in sella a biciclette di varie forme e co­lori, e le loro risate spensierate parvero persistere nell’aria anche dopo la loro scomparsa dietro i filari di vi­ti. Perché non po­ter restare a quell’età a vita ?, pensai con as­so­luta mancanza di originalità. Nel frat­tempo, il silenzio tra me e Aristide sembrava quasi essere una presenza fisica, tangibile. Di cosa dia­volo parli con uno che ha appena rischiato di lasciarci le penne ? Non certo dell’ultimo, stupido sce­neggiato tivu. O del­­l’estate che sembrava inesorabilmente finita (soprattutto utilizzando il termine “fi­nita”, per carità !). Né tantomeno di uno stupido viottolo presunto magico, non vi pare ? Non vi pa­re ?!?
E se quello fosse stato il momento ideale per caricarmi in spalla il vecchiotto (già era un pe­­so-piu­ma, e poi immagino che la disavventura passata lo avesse prosciugato an­cora un pelo) e cor­­rere a gam­be levate al di là di quel ponticello ? Se non succedeva nul­la, amen. Ma se al contrario quel posto qual­­cosa faceva… Non mi mossi, perdendo l’u­nica occasione a mia disposizione per tentare un “colpo di mat­to” del genere, anche se in quel momento ne ero assolutamente all’oscuro. E, soprattutto, era una cosa che non gli auguravo per niente. Ri­ma­si lì, a frugarmi nella mente alla ri­cerca di una parola, di una frase, di un argomento, anche stupido (si­curamente stupido) che frantumasse quell’orrenda sensazione di impotenza e paralisi. Frugai e rifrugai, ma all’interno della mia scatola cranica pareva esserci solo aria e qualche balocco di polvere. La brutta copia di Aristide re­sta­va aggrappato alla rete di recinzione come vittima di un in­­can­tesimo “pietrificante”, facendo ba­le­nare nella mia men­te immagini non richieste di deportati ebrei dietro il filo spinato dei lager. Dalla por­ta socchiusa della cucina sbucò fuori un gattino, molto più piccolo de­gli abituali frequentatori a quattro zampe, che dopo aver annusato un po’ l’aria decise di accomodarsi sulle zampe posteriori, al cen­tro degli scalini. Aveva il pelo quasi totalmente nero, fatta eccezione per una minuscola macchiolina a forma di stella al centro del petto. Sbattei le palpebre, come se fos­si al cospetto di un miraggio, anziché di una presenza reale. Ehi, mi sbaglierò ma quello sembra pro­prio la copia ridotta di Ste­lla !, esclamai, per la prima volta in vita mia grato ad un puzzoso felino, per avermi dato lo spunto per rompere quell’inquietante silenzio, che sia un suo cucciolo ? A­ri­sti­de gettò una rapida occhiata dietro le spalle. Oh bè, suppongo di sì, dichiarò convinto, anche se sa co­m’è… i gatti in campagna… non si ha proprio modo di star dietro alle loro attività procreative… fis­sò an­cora una volta il minuscolo animale intento a passarsi una zampetta dietro le orecchie con minuziosità tutta “gattesca”, in effetti sembrava essere sparita dalla circolazione, la vecchia Stella, e quello è un chiaro in­di­­zio che aveva qualcosa in programma… quello o il fatto di essere finita sotto un camion, di solito… strano, a dire il vero non è ancora saltata fuori, chissà in quale buco è andata a infilarsi…
Io man­co mi ero reso conto che fosse gravida, avrei voluto aggiungere, poi considerai che l’osservazione dei gatti non faceva parte delle mie attività preferite, e sorvolai.
Rimanemmo lì a chiacchierare (e a starcene zitti) ancora per un po’.Lui mi disse di non preoccuparmi troppo, che l’erba cattiva non muore mai. Io ribattei che non mi preoccupava il suo stato di salute in particolare, ma solo il fastidio di dovermi trovare, nel caso, un altro rompianima al suo livello con cui polemizzare. In al­cuni momenti ri­demmo di gusto, e poi “battibeccammo” con somma goduria, come ai vecchi tempi. Do­podichè, mentre l’i­nesorabile accorciarsi delle giornate cominciava a scurire il cie­lo verso ovest (e notoriamente le fan­tascientifiche bici dei giorni nostri non prevedono la pre­­senza del faro, se non su dilettanteschi mo­delli da città), lo salutai, non prima di a­vergli fatto qual­che ulteriore, ansiosa raccomandazione.
Se avessi saputo che era l’ultima volta che lo vedevo, forse… che ne so… avrei detto o fatto qualcosa di più. Ommerda… scusate…
(TLAC)
  
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