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Autore: marani    09/05/2014    1 recensioni
Il primo dei due racconti che fa parte della mia personale 'bilogia' dedicata alle due persone che mi hanno messo su questo mondo. Un 'posto' anomalo e magico. Un bizzarro testamento verbale. Una tormentata discesa nel profondo dei rimpianti e dei rimorsi, alla ricerca di una innocente fanciullezza che razionalmente parebbe persa per sempre. A meno che...
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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mondo 10.

(TLAC. RIAVVOLGIMENTO. ASCOLTO)
(TLAC)
Qualcosa di più… E cosa? Non potevo certo caricarmelo sulla bici per tenerlo sotto osservazione, come avevano fatto, forse per troppo poco tempo, al pronto soccorso. E poi lo sapevamo bene tutti e due, la nostra non era né più né meno che una labile frequentazione “da rete di recinzione”. Avrò a­gi­to in maniera superficiale, ma non sono riuscito a farmi venire in mente come faceva di cognome, quella sera, sempre che me l’avesse detto, e questo ha posto fine al mio temporaneo impulso di cercare il suo numero di telefono sull’elenco e chiamarlo per sentire come stava. Sto leggendo un giallo di Connelly, in cui il protagonista ama affermare che, secondo lui, le coincidenze non esistono. Non so se abbia ragione o meno, fatto sta che quando le cose iniziano a prendere una certa piega, forse non è in nostro potere far molto per modificarle. Il martedì mattina, il maltempo che nel week-end a­ve­va rovinato le uova nel paniere (da pic-nic) di molti fece capire alla città di essere stato in realtà so­­lo il blando “promo” di quello che ci aspettava. Iniziò a diluviare sul serio, e anche la temperatura si diede da fare affinchè si parlasse molto di lei. Fino a metà mattina“si vedeva” il fiato, e tutti quelli che fino alla settimana prima si erano lamentati perché era un agosto troppo afoso, ebbero modo di cambiare registro, iniziando a dire peste e corna su un settembre assolutamente anomalo e freddo.
Di con­seguenza, dopo l’ufficio e la visita a mia madre, col piffero che era il caso di inforcare la bici. Mol­­­to meglio il di­vano di casa, con un quanto mai opportuno plaid sulle gambe. Tutta questa manfrina per dirvi che non effettuai alcun passaggio dal vecchio per i tre giorni seguenti. Sì, lo so, se mi sta­­va così tanto a cuore co­me dicevo, avrei potuto anche prender su la macchina e fare un salto fin là. A­­vrei potuto, come no, non c’era niente che potesse impedirmelo. Nessuna misteriosa paralisi sti­le “viottolo”. Non l’ho fatto, e vi dico subito che non ho alcuna intenzione di farmi prender dentro a di­­struttivi sensi di colpa. L’impulso a farlo c’è stato, ma evidentemente non così forte da costringermi a muovere il cu­lo. Non è che abbia vissuto ogni attimo di quei giorni col pensiero fisso della sa­lute dell’uomo. A vol­te mi veniva in mente, magari nello scorgere in banca qualche anziano che fisicamente lo ricordava, e in altre occasioni mi ripetevo che, in fondo, forse non era il caso di lasciarsi prendere da pensieri troppo catastrofici. Aveva ammesso lui stesso che si trattava di episodi già ac­ca­duti in passato, tanto da seguire una terapia ad hoc al riguardo. E poi magari erano stati i miei occhi inesperti a mostrarmelo tanto “malandato”. Non sono medico, di conseguenza ben poco avezzo a stabilire le condizioni fisiche di un sofferente di cuore basandomi esclusivamente sull’aspetto esteriore. C’è gente che sembra pronta per la sepoltura anche solo dopo una notte insonne per via di qualche di­sturbo digestivo. Mi dicevo tutte queste belle cose, mentre contavo con disinvolta professionalità le ban­conote versate dai clienti della banca, o ascoltando il cicaleccìo senza capo né coda di mia ma­dre, inghiottita dalla poltrona della sua stanza, che la faceva sembrare una bambina accomodata sul se­dile di un gigante. Frugavo dentro me stesso alla ricerca di giustificazioni sempre nuove ed efficaci, e ciò sembrava soddisfare i deboli tentativi di protesta della mia coscienza. E poi… voglio dire… non posso tenere sotto controllo tutti gli eventi del mondo, o in generale della mia vita. Ritengo di a­ver ricevuto la mia dose, ottima e abbondante, di energie da spendere per accudire qualcuno. Sono sta­to vicino fino all’ultimo respiro alla mia adorata moglie, e ogni giorno che il Si­gnore manda sulla Ter­ra mi faccio violenza per varcare le soglie di quell’orrido posto in cui mia madre veleggia verso la fine del suo cammino. Dovevo avere un attimo di respiro ! A forza di battere, si piega anche il me­tallo più tenace, materiale del quale di sicuro non sono composto io. In tutta o­nestà… per carità, con tutto il santissimo rispetto… in definitiva si trattava di un simpatico signore che avevo conosciuto da meno di tre mesi, un cordiale chiacchiericcio estivo, ed oltretutto non era certo un giovanottino.
E ancora, e poi la pianto con questo mio ipocrita “stracciarmi le vesti”, non era scritto proprio da nes­suna parte che se avessi fatto qualcosa di più… okay, okay, se avessi fatto qualcosa… le cose sa­rebbero andate diversamente.
Credo di essermi reso conto che qualcosa doveva essere successo, qualcosa di serio, non appena im­boccato il lungo tratto di ciclabile costeggiante la statale. Era venerdì sera, il tempo dava l’idea di es­­­sersi messo in un precario stand-by, con ampi nuvoloni non proprio amichevoli rassegnati per il mo­mento a tenersi alla larga lungo la linea dell’orizzonte. Avevo indossato la mia felpa da mezza stagione, percorrendo il tragitto da casa fino a quel punto con una decisa andatura sostenuta. Non proprio da scampagnata. Una volta superato il ponte di Debba, svoltai a sinistra per immettermi sul tratto di pista che portava al viottolo. Come ripeto, la visione in lontananza della casa di Aristide mi su­scitò una strana sensazione, spiacevole quanto basta. Dal punto di vista generale non aveva proprio niente che non andasse, i balconi dietro i brutti serramenti d’alluminio erano spalancati come sempre, e il fatto che nel piccolo giardino stazionasse solo il consueto gruppetto di galline, al momento, non significava proprio un bel niente. E comunque l’impressione che ne avevo, come se l”abbandono” e il “vuoto” potessero essere connotati, che ne so, da un colore, una vibrazione, una luminosità particolare, non mi stava suggerendo niente di buono. Accostai alla rete di recinzione, come avevo fatto per innumerevoli sere, armeggiando per togliermi il poco dignitoso caschetto protettivo. E fu al­­lora che mi avvidi della figura seduta sugli scalini della cucina, un po’ di trequarti, che non si scorgeva dalla strada a causa di un cespuglio che ne impediva la vista. Si trattava di un ragazzo, dell’età ap­parente di circa 16-17 anni, intento a giocherellare con il cucciolo di Stella. Gli agitava davanti al nasino rosa un lungo stelo d’erba, e il gattino sembrava indemoniato per non riuscire ad afferrarlo tra gli artigli. Non ebbi nemmeno il tempo di chiedermi chi potesse essere. Alzò gli occhi verso di me, fissandomi serio e silenzioso. Io sollevai una mano in cenno di saluto, trasformando subito dopo il mio gesto in un cortese invito ad avvicinarsi. Alle sue spalle, la casa insisteva ad irradiare quella sua desolante aura di vuoto e abbandono, e io avvertii l’interno della bocca inaridirsi co­me se avessi appena percorso una decina di chilometri lungo un’impegnativa salita. Ehi... s-salve !, e­scla­mai con voce malferma, non appena fu nei pressi del cancello, chiedo scusa, il signor A­ristide… è in casa ? Il giovane si scostò con un gesto impacciato il folto ciuffo di capelli che gli era scivolato sugli occhi, lanciando un fugace sguardo alle spalle
(Merda, ricordo nitidamente di aver pensato)
Si accostò ancora un po’ alla rete divisoria, mentre il gattino sugli scalini fissava con sguardo perplesso e deluso il filo d’erba inspiegabilmente inanimato. Tentò di “risvegliarlo” con alcuni rapidissimi colpetti di zampa, non ottenendo alcuna soddisfazione. Buonasera…, mi salutò educato il ra­gazzo, lei… era… un amico ? Quel verbo, pronunciato in forma passata, sembrò cadere tra noi con tut­ta la pesantezza di un immenso macigno. Mi passai una mano sulla faccia improvvisamente ac­cal­data, deglutendo a fatica. Aristide… è… è…, fu tutto quello che riuscii a spiccicare, con la mia so­­lita, detestabile incapacità di pronunciare frasi che, in qualche modo, descrivano realtà oggettive (e impossibili da modificare) di cui io non intendo affatto essere messo a conoscenza. Lui tornò a scru­tare in direzione delle finestre della casa, alla probabile ricerca di un conforto, o un aiuto, da parte di qualcuno che in quel momento non si faceva vedere. Mercoledì mattina, disse, senza il mi­nimo bisogno di dover star lì a specificare dove, come, cosa, chi, il… il cuore… Avvalorò quella sua superflua precisazione battendosi il petto con le dita, in un gesto che mi ricordò in maniera straziante quello fatto del vecchio la sera del nostro ultimo incontro. Avvertii una sorta di capogiro tentare di a­­vere la meglio su di me, e dovetti appoggiarmi pesantemente al sellino della bici, per evitare di fi­nire a gambe all’aria. Il cortese giovane mi invitò ad entrare, offrendosi premuroso di andare a prendere una sedia, ma io declinai quella gentile offerta, anche se in quell’istante sarebbe stato molto me­glio se mi fossi se­duto. Se non addirittura sdraiato. Risposi no, grazie, ritenendo in qualche assurdo mo­do di rendere co­sì onore alla frequentazione “da rete di recinzione” che non avrebbe previsto or­mai al­cun sviluppo fu­turo. E così, mercoledì mattina, magari proprio mentre io mi sorbivo le eterne e im­­mutabili lamentele della contessa Volpi sull’aumento dei tassi d’interesse, quello strano o­mi­no si sentiva male e… e… Sì, certo, non era successo certo a causa delle lamentele dell’anziana no­bile (e an­cora meno perché io non mi ero fatto vivo, forse) ma comunque, per un breve e terribile at­timo, ap­prezzai tutta l’orrenda inutilità della commedia della vita. Passò subito, essendo una rivelazione troppo gravosa per qualsiasi essere umano (venirne esposti più a lungo al suo pernicioso in­flusso può istigare al desiderio di farla finita) ma gli strascichi amari che lasciò in me non si dissiparono tanto facilmente.
Gli occhi mi si velarono, e vi passai sopra il dorso della mano. Tutto lì. Nessuna plateale lacrima ro­tolò lungo le mie guance. Quelle le avevo spese per Sandra e, in certi terribili giorni, per la condizione di mia madre. Però fu sufficiente così, almeno a mio personalissimo parere. Era una frequentazione da “rete di recinzione”, e il dolore che provavo, in intensità e forma, era il giusto tributo nei confronti di quella brava persona. Il giovane mi raccontò di essere il nipote (figlio dell’unica figlia di A­ristide, presumo), che lui e la madre erano stati avvisati dell’accaduto da alcuni vicini, recandosi su­bito all’ospedale per le formalità di rito. Avevano dato disposizione affinchè la salma venisse tu­mulata in un cimitero nella zona in cui abitavano, dalle parti di Torreglia, e adesso erano lì per vedere di sistemare un pò la casa, dato che era stata una cosa assolutamente improvvisa. La madre era dentro da qualche parte, e lui mi chiese se avevo piacere che la chiamasse fuori, così, per fare la sua co­­noscenza. Ci pensai alcuni istanti, decidendo di lasciar perdere. Non avevo alcuna voglia di star lì ad osservare espressioni meste che, sulla base di quello che mi aveva raccontato Aristide riguardo ai rapporti con il parentado, non sarei stato in gra­do di stabilire quanto sarebbero state sentite. Lo ringraziai, borbottando qualche giustificazione po­co credibile, ma lui accettò senza ribattere la mia decisione. Restammo lì in silenzio, per alcuni lunghi attimi, e la nostalgia delle cordiali chiacchierate tra me e il nonno del giovane si acuì. Subito do­po, alquanto assurdamente, mi venne la curiosità di sapere se il ragazzo fosse sensibile o meno al viottolo dietro le mie spalle. Quasi come se mi avesse letto nel pensiero, mormorò: peccato non a­verlo conosciuto meglio, anche perché aveva la fortuna di abitare vicino ad un posto da favola. Lo fissai piacevolmente stupito, osservando il suo sguardo inequivocabilmente puntato sul ponticello. Il fatto che anche lui fosse in grado di apprezzare la bellezza di quell’angolo agì come una sorta di benevola scossa elettrica in me, e l’angoscia di quella tragica notizia sembrò perdere buona parte della sua maligna influenza. De­v’essere una dote di famiglia, ricordo di aver pensato. Per un fugace attimo mi venne il dissennato impulso di invitarlo a passare al di là del ponte, ma grazie al Cielo qualche residuo di razionalità lo fece svanire all’istante, facendomi notare che avevo già causato abbastanza casini con quei miei improvvisi e provocatori colpi di testa. M’informai sulla sua età, e lui mi disse che aveva diciannove anni. Era stata forse la sua statura non eccessiva a farmi attribuire un paio d’anni in meno. Anche quella doveva essere una ca­ratteristica legata al grado di parentela, in fondo anche il padre di mio padre esibiva una pelata in tutto simile a quella che mi porto in giro. Un lieve imbarazzo, logica conseguenza del fatto che altre grandi cose non restavano da dire, avvolse le nostre figure immobili. Le galline becchettavano indisturbate tra il ghiaino rado del cortile, sotto il vigile controllo dello sguardo attento del piccolo gatto nero. In quell’istante, quasi per aiutarci nel trovare una conclusione a quel nostro dialogo, la tenda della fi­nestra della cucina si scostò. Intravidi una figura di giovane donna, che si sporse per un breve attimo, in­vitando il ragazzo (non lo chiamò per nome, che restò così una mia curiosità non soddisfatta) a raggiungerla per darle una mano con un cassetto che non voleva aprirsi. Poi fu ringhiottita dall’interno in penombra, mentre a me restava l’impressione di un lieve sorriso di saluto. Il ragazzo si voltò per rientrare, dopo essersi cortesemente congedato.
Risalii in sella, allontanandomi da lì con la netta sensazione che i grossi nuvoloni gonfi di pioggia si fossero trasferiti in blocco dentro di me. E che il vuoto che avvertivo in fondo alla mia anima non si sarebbe riempito facilmente.
Sempre che ci riuscissi, a riempirlo in qualche modo. In quel momento, e nei giorni immediatamente successivi, non avevo proprio la più pallida idea di come avrei fatto.
(TLAC)

11.

(TLAC)
Signori miei, sono depresso. Che poi non è altro che un modo carino e generico per definire uno stato di merda. Né più né meno quello in cui mi sento di essere invischiato. Non avevo la minima vo­glia di trascinarmi fin qui al tavolo e riprendere la mia folla chiacchierata solitaria davanti a questo microfono. Anzi, vi dirò di più. Nell’attimo desolatamente più basso di questa mia poco invidiabile condizione, mentre mi rigiravo insonne in un letto che sembrava volermi avvinghiare a sè con tentacoli fatti di lenzuola sudate e soffocanti, l’impulso sarebbe stato quello di scendere di sotto, prender su registratore e cassette, registrate e non, e concludere la loro esistenza sul fondo della pattumiera. Ma, grazie al cielo, la qualifica di depresso comporta senza alcuna aggiunta di spesa an­che quella di indolente, di conseguenza il mio corpo inerte non assecondò per niente gli imperiosi ordini di un cervello in subbuglio. Anche in questo momento, in ogni caso, non è che le cose vadano tanto me­glio. Il desiderio di allungare un dito in direzione del tasto di stop è assolutamente irresistibile, ma­gari dopo aver infarcito quel che rimane del nastro con un’interminabile serie di grugniti, insulti e termini incomprensibili, quale demente epitaffio. Parole inventate, impossibili, zeppe solo di consonanti dure e ghignanti, una litania sgraziata e aliena di inesistenti codici fiscali. Perché ? E perché no ? Tanto… ops, stava per sfuggirmi, e non so se il mio instabile equilibrio avrebbe sopportato di sentirlo pronunciare. Avrei rischiato di fare a pezzi non solo l’incolpevole registratore Panasonic XP posato qui sopra la superficie lucida del tavolo, ma forse anche buona parte del mobilio di casa. Di cosa sto parlando ? Di una frase. Ve l’ho detto che sto sragionando ma, vedete, c’è appunto una frase che io non riesco a reggere, e che mi sono ripromesso di non utilizzare MAI. E’ stata uno dei cavalli di battaglia di mia madre, che non perdeva occasione di sbandierarla ad ogni piè sospinto. E la cosa curiosa e inquietante allo stesso tempo è che ha cominciato ad usarla solo dopo il ricovero in casa di ri­poso, anche se è da un po’ che (grazie a Dio) non gliela sento utilizzare. Anche se ho la sgradevole im­pressione che sia perché è più sotto sedativi che non cosciente, se così si può definire il suo stato di perenne assenza. In ogni caso, non appena “strappata via”dalle sue cose di tutti i giorni, e co­stretta in quel posto neutro e caotico, ha iniziato a commentare che “tutto è inutile”. Sulle prime mi sembrava una frase come tante altre, e riferita ad alcuni particolari aspetti non suonava neanche tanto fuori luogo. Né tantomeno irritante. E’stato quando l’ha trasformata nel suo “tormentone” pre­fe­rito che la faccenda ha preso tutta un’altra piega. Non era più una frase, un commento innocuo e ge­ne­rico, ma una sorta di orrendo “manifesto programmatico” di come lei vedeva la propria vita, e fa­ceva venire i brividi il tono rassegnato e sconfitto con cui la sputava fuori, neanche fosse intrisa di un liquido amarissimo. Incominciò fin da subito a darmi sui nervi, ma come in tutte le cose ritenevo che bisognasse portare pazienza, e lasciar passare un po’ di classica acqua sotto i ponti. Non servì a mol­to, anzi, da infastidito che ero nella fase in cui la pronunciava spesso, divenni presto molto pre­occupato nel rendermi conto che cominciava ad essere l’unica cosa che le usciva dalle labbra. Iniziai a temere il momento in cui mi sarei affacciato alla porta della sua stanza, col cuore in tumulto nell’attesa di conoscere con quali parole avrebbe salutato il mio arrivo. Avrei sopportato mille volte che mi scambiasse pure per qualche lontano parente, foss’anche quel suo zio morto negli Stati Uniti do­v’era andato in cerca di fortuna. Tutto, ma non quell’orrendo “Tanto è tutto inutile”.
Quando smise di farne uso (o perlomeno lo limitò sensibilmente) mi sembrò di risvegliarmi da un in­cubo. Non so, forse troverete che tutto ciò sia esagerato, ma ognuno ha le sue, e quello che manda fuori dai gangheri voi magari a me non fa né caldo né freddo. Alla fine mi ripromisi di non pronunciare mai quella dannata frase, neanche se avesse costituito la risposta esatta ad un quiz in cui c’era in palio un montepremi da favola. Non fu neanche troppo difficile, mantenervi fede. Non è come spergiurare di non utilizzare mai e poi mai, che ne so, buongiorno o buonasera o qualcosa di altrettanto usuale. Nel caso, esiste tutta una vasta gamma di sinonimi e giri di parole per esternare quel concetto tabù. Vaffanculo. Oh, è proprio l’ideale, quando si ha l’umore sotto la suola delle scarpe (ma molto sotto) infognarsi in riflessioni su argomenti in grado di affossarlo ancora di più. Sono stan­co. Stan­co e stufo. Che differenza fa ? A pezzi fisicamente, e con due coglioni grandi così. Ab­ba­stanza il­luminante, come interpretazione ? L’altro giorno vi parlavo, disquisendoci sopra come se si trattasse di un noioso trattato scientifico, dei tre livelli di batoste. Puntualizzando come ‘ste stronze prediligano muoversi in branco, simili a sanguinari predatori, e in qualche maniera lo sono anche. Fan­no a pezzi l’a­nima anziché la carne, ma lo strazio che provocano è tale e quale. O forse maggiore. In ogni caso, la mia bella corriera carica di batoste sembra proprio non voglia piantarla di girarmi at­torno. Di as­sediarmi. C’è il dispiacere della scomparsa di Aristide, ad esempio, che mi saluta ghignante e crudele al di là dei vetri, facendomi segno col dito come se ripetesse ci sei di mezzo anche tu !. Non sono più riuscito a prender su la bici, nè tantomeno ad ipotizzare di riuscire a percorrere nemmeno un metro di quella pista ciclabile. Oh bè sì, mi rendo conto che non è l’unico luogo al mondo dove si può eventualmente fare un pò di pedalate, ma avete capito cosa intendo, no ? E’ il concetto, il senso di cosa comportasse vestirsi da idiota e spendere qualche mezz’ora della propria vi­ta in bilico sul sellino di una bici. Non sarei in grado di rifarlo, per il momento, la testa mi si affollerebbe di immagini e parole, di ricordi di dolci sere di mezza estate, di un vecchio bizzarro e sim­patico, di un posto che doveva fare qualcosa e invece ci ha deluso come il novantanove per cento del­le cose della vita. Tutto questo mi osserva maligno da dietro i vetri di quell’ipotetico pullman del­la “Batosta Tours”, che insiste a ronzarmi intorno come uno squalo famelico. Per cui me ne resto qui, stravaccato sul divano, con tanti cari saluti ai buoni propositi di fare un pò di moto. E, nel frattempo, la ciccia mi si accumulerà sui fianchi, i trigliceridi e gli altri perniciosi cazzi aumenteranno al­legramente la loro presenza nel mio organismo, indurendo le arterie sino a trasformarle in bizzarre formazioni coralline. Che inevitabilmente mi faranno gentile omaggio di un bel infarto. O magari dell’i­nebriante esperienza di un ictus cerebrale. Prima o poi. Per com’è messo il mio umore in questo mo­mento, sempre troppo tardi rispetto alle aspettative. Tutto ciò mi frulla senza sosta nella te­stuggine, e poi altre co­se, ancora più velenose. In grado di preoccuparmi e terrorizzarmi nello stesso i­stante. Da alcune sere, mentre sono solo in casa, senza la minima voglia di far niente, nè mangiare né leggere né accendere la tivu, mi sono accorto che incomincio a guardare le cose. Guardo determinate cose. Il posto vuoto da­vanti a me, ad esempio, sulla piccola tavola della sala da pranzo. Op­pure l’altra metà del divano, con la sconcertante sensazione che sia vasto come il deserto del Sahara. E naturalmente la porzione di letto non occupata dal corpicione del sottoscritto. Avete ca­pito cosa sto cercando di dirvi, no ? Comincia a mancarmi. Ricomincia a mancarmi. Intendiamoci, non è cambiato nulla. Penso a lei e la rimpiango e ne sento la nostalgia ogni singolo minuto di ogni giorno della mia vita, come sempre. Solo che dovrebbe riguardare un’assenza dal cuore e dalla mente, co­m’è giusto che sia. E invece da un po’ la cosa si sta trasferendo anche sul piano fisico, ri­tornando a meccanismi che pensavo… speravo… di esser riuscito a debellare da un bel po’ di tem­po. Com’è giusto che sia, anche questo. Agli inizi, immagino sia comprensibile, mi ritrovavo a bloccarmi giusto un istante prima di rivolgermi a lei, di formulare una frase, una domanda, un discorso che sarebbe e­cheggiato nella stanza vuota e silenziosa. E in altre occasioni vivevo la netta e spiazzante sensazione di udire i suoi passi, i suoni e i rumori che produceva muovendosi dentro casa, e che conoscevo alla perfezione. La chiamano abitudine, ma è assolutamente riduttivo definirla così. Al contrario, mi piace credere che sia un po’come il corrispettivo emozionale di chi afferma di sentire ancora l’arto che gli è stato amputato. Ma dopo un po’, un po’ che varia a seconda di ognuno, tanto non c’è proprio fretta nel cercare di riaggiustare i pezzi della propria vita, ci si dovrebbe trovare su un punto di vi­sta diverso. Per fare un esempio geografico, all’inizio di tutto un’intrico di strade e viottoli, più o meno ampi o invitanti o dissestati. E, volenti o nolenti, la scelta deve cadere su uno di essi. E’ inevitabile. C’è la via della disperata ricerca di aiuto, aggrappandosi ai figli, al proprio la­­voro o alla fede, o ma­gari ai moderni “sortilegi” di medici e psicoterapeuti. La scorrevole e affascinante auto­stra­da dello sconforto e della depressione, in cui è facile lasciarsi andare giù seguendo l’onda, pur se il pedaggio fi­n­ale, nella maggior parte dei casi, è drammaticamente salato. E poi ancora il sentiero im­pervio e, a prima vista, impraticabile del venirne fuori con le proprie forze, il cui costo è altrettanto proibitivo ma al­meno si sta investendo in qualcosa di positivo, una sorta di precario equilibrio, un’oblìo in cui i ricordi e gli og­getti non sono più così affilati e taglienti. Ma in ogni caso, Dio santo, da qualche parte bisogna de­cidersi di andare. Non si può, è assolutamente impossibile restarsene an­corati alle sensazioni iniziali, alla rassegnazione e all’incapacità di farsene una ragione. Sarebbe co­me de­cidere di rivivere al­l’infinito, ogni giorno che passa, la stessa, straziante esperienza. Se c’è qual­cuno che si è arreso ad un’inferno del genere, ha tutta la mia impotente compassione. Per­so­nal­men­te non mi ritengo insensibile, né tantomeno privo di cuore, se nel giro di una ventina di mesi so­no riuscito a rimettermi in piedi, bene o male, se guardo sciocchi presentatori tv porre domande elementari a concorrenti ancora più idioti, se mi godo qualche bel film o uno stimolante romanzo, se le barzellette di quella sagoma dell’ufficio prestiti mi fanno piegare in due dalle risate. Non sto mancando di rispetto a niente e a nessuno. Sono due livelli diversi. C’è quello che si è perso, la parte strappata via lasciando una ferita che non potrà mai più cauterizzarsi, e la vita.
Però, come ripeto, non dovrebbe essere prevista la possibilità di ritornare sui propri passi, qualunque sentiero si sia scelto di imboccare all’inizio. Ed invece ho come la spiacevole consapevolezza che stia­no facendo ritorno sensazioni e pensieri che speravo di aver seminato lungo il cammino, e tutte paiono aver affilato a puntino le loro lame scintillanti con cui cercheranno di farmi a pezzi. Al di là di tutte queste belle metafore, non so proprio cosa fare, come comportarmi. Che occorra, forse, infilarsi di gran carriera in una delle altre strade ? Magari in quella che porta ad accettare l’aiuto di un medico, cospargendosi la testa di cenere per la presunzione di aver creduto di potercela fare da soli ? Che ne so ?! E’ la prima volta che mi capita di subire una perdita tanto grave, e tutto quello che ho fatto in seguito è frutto dell’ascolto del mio cuore e della mia testa. Senz’altro lodevole, come sistema, ma evidentemente insufficiente, a quanto pare.
E’ strano, che mi sia uscita così di getto quest’immagine dei viottoli. C’entrerà qualcosa ? Con quello che conosciamo ormai bene, intendo ? “Le coincidenze non esistono”, sogghignerebbe l’impavido detective protagonista del thriller che tengo sul comodino, e io purtroppo non sono né impavido né sogghignante. E in ogni caso, in questo momento preciso, non ci sarebbe niente in grado di spingermi ad andare di nuovo a titubare sul ciglio di quel ponticello. Non con l’umore così a terra, e la voglia impellente di spaccare tutto, o di lasciarmi affondare negli abissi di qualcosa che non so nemmeno definire. Via dal nero e dentro nel blu, ripeteva il ritornello di una canzone di Neil Young in voga in tempi in cui credevo ancora che potessimo cambiare il mondo, e di vivere in pace, amore e musica. Oh, il cambiamento c’è stato, come no, solo che non è andata proprio come pensavamo. E’ il mondo che ha cambiato noi, come sempre è stato e sempre sarà. Amen.
(TLAC)
(TLAC)
Ma vi pare normale ? Star qui a riempire cassette che mai nessuno ascolterà (visti gli argomenti è una cosa che auspico con tutto il cuore), come se fosse una sorta di dissennato diario delle sventure di un uomo. Forse sarebbe il caso di farne un bel pacco e spedirlo al primo psichiatra che trovo sulle pagine gialle, anziché scervellarmi su dove eventualmente lasciare questo mio memoriale magnetico. Con preghiera urgente di fissarmi un appuntamento. Mmh, a pensarci bene non sarebbe proprio una cattiva idea. Molto economica, oltretutto. Lo strizzacervelli potrebbe ascoltarsi con tutta calma quello che io sarei in grado di esternare solo dopo svariate sedute, e questo lavoro preliminare non andrebbe a gravare sul mio conto corrente. In modo che quando mi presenterò nel suo bell’ufficio luminoso, potrà andare a colpo sicuro nel prescrivermi la terapia più adeguata. Via dal nero e dentro nel blu, caro vecchio Neil… Anche se di blu, in questo momento, nella mia vita ce n’è ben poco. L’unico che mi viene in mente era quello del cielo sopra la casa di Aristide, che assisteva in silenzio ai nostri rimpianti battibecchi. Per quanto riguarda il nero, invece…Oh, c’è forse qualcuno che ne desidera qualche tonnellata a prezzi più che vantaggiosi ?
Ho letto da qualche parte che le grosse manifestazioni depressive, nelle quali mi sento iscritto d’ufficio, “esplodono” in seguito all’intervento improvviso e inaspettato di un’innesco emozionale, una sorta di miccia collegata ad una catasta di dinamite costituita da tutto quello che vi ho elencato fin qui. Nel mio particolare caso, è successo oggi pomeriggio, in casa di riposo. Mia madre ha causato il ferimento, involontario ci mancherebbe, di una delle ospiti che dividono la stanza con lei. Era seduta nella solita mega-poltrona, impegnata a raccontarmi tutto un complicato aneddoto di quando, assieme ad un’amichetta, percorreva una ventina di chilometri a piedi, con ogni tempo, per poter frequentare le scuole elementari. Il fatto che ne parlasse come se l’episodio si fosse svolto nella mattinata appena trascorsa era un particolare a cui ormai ci avevo fatto il callo. All’improvviso, davanti alla porta della stanza è transitato qualcuno. Non ho avuto modo di registrare chi fosse, se si è trattato di un inserviente piuttosto che un medico o qualche visitatore, e in ogni caso non è affatto determinante. Mia madre puntò un dito oltre le mie spalle, prendendo a sbraitare che era la solita bambina cattiva che ogni santo giorno le rubava il panino col burro e lo zucchero. Come d’abitudine nei confronti di quei colpi di testa, ritenetti che qualche rassicurazione a bassa voce sarebbe stata sufficiente, ma non quel giorno. Con una vitalità insospettata, scattò in piedi continuando ad urlare ed a agitarsi come tarantolata. Il suo braccio sinistro cozzò contro il carrellino su cui depositano il vassoio dei pasti che fu scaraventato addosso al comodino facendo volar via vari oggetti, un giornale, mezzo pacchetto di caramelle, un piccola immaginina della Madonna di Monte Berico e, ultimo ma non per questo meno importante, un vaso di vetro contenente un mazzo di fiori ormai appassiti. Il vaso compì un breve volo nell’aria, senza che io riuscissi in alcun modo ad afferrarlo (intralciato dalla figura minuta di mia madre che insisteva a tempestarmi di pugni lievi e deboli, ordinandomi di correre dietro a quella ladruncola) concludendo la sua traiettoria giusto sulla testa di un’anziana intenta in quell’istante a sonnecchiare placida nel letto di fianco. Il bordo tagliente dell’imboccatura del vaso le causò un innocuo taglietto di un paio di millimetri sulla fronte, ma il sangue che ne sgorgò fuori dava l’idea che la sventurata fosse stata decapitata all’istante. Si risvegliò di soprassalto, osservandosi per un istante, coperta di sangue e con tutti quei fiori rinsecchiti a farle da corona, come se l’avessero piazzata a tradimento nella camera ardente. Subito dopo, prese a urlare con tutto il fiato che aveva in gola, unendosi all’assordante performance di mia madre. Per un lungo, interminabile attimo fu il loro improvvisato duo a fare il diavolo a quattro poi, come un inarrestabile incendio in un’estate torrida, l’agitazione si propagò a tutto il reparto. Fu una cosa fulminea e terrificante, che al solo pensarci mi fa ancora rizzare ogni pelo del corpo. Non so se vi è mai capitato di assistere a quello che accade in un pollaio quando un pennuto idiota si lascia spaventare da qualcosa. E’ questione di un attimo, prima che il panico più cieco contagi ogni singolo esemplare, spingendoli addirittura a calpestarsi sino alla morte. Grossomodo è quello che è successo al secondo piano della casa di cura. Beh, certo, nessun anziano ci ha lasciato le penne, anche se dal frastuono assordante pareva l’esatto contrario, ma tutti si sono messi ad urlare e a gemere e a strepitare. E’ finita con un task-force di efficienti infermieri che si è sparsa tutt’intorno, simile ad una squadra dei corpi speciali dell’esercito, ognuno con la sua bella licenza non tanto di uccidere, ma bensì di somministrare dosi cavalline di sedativo ai più esagitati. Tra i quali andava annoverata di diritto la mia genitrice e, nel suo caso specifico, siamo stati costretti a tenerla ferma in due, prima di riuscire ad abbatterla. E tenete presente che mia madre peserà sì e no cinquanta chili, e sembra un uccellino appena caduto dal nido.
Potete immaginare con che stato d’animo sono venuto via da là. Anzi, mi auguro per voi che la vostra capacità d’immaginazione sia molto inferiore a quello che ho realmente provato io. E continuo a provare.
Inesistenti signori miei, non vi posso garantire in alcun modo che ci saranno ulteriori occasioni di continuare questa mia solitaria chiacchierata. Adesso come adesso, è più no che sì. Provo a pensarci un po’, a dormirci su. Dicono che la notte porti consiglio, e qualche volta funziona.
Certo che dovranno essere con le contropalle, quei suoi consigli, per riuscire a farmi intravedere un po’ di luce in tutto questo casino.
Via dal blu e dentro nel nero, ve l’ho detto. Dritto e di filato.
Buonanotte.
(TLAC)
  
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