Rabbia
Quando gli effetti mascheranti della negazione della realtà e dell'isolamento cominciano a svanire, la realtà ed il relativo dolore riappaiono.
Ma non si è ancora pronti. L'emozione intensa è deviata dall’oggetto del dolore e riorientata e si esprime come rabbia.
Rabbia che si può anche orientare verso il soggetto che ci ha provocato il dolore.
A questo si può aggiungere un senso di colpa per essere arrabbiati e questo non fa che alimentare la rabbia stessa.
-Portami a casa.-
È l’unica cosa che riesco a dire, quando finalmente quell’uomo capisce come non farci precipitare.
-Portami a casa- sussurro, abbandonandomi contro la consolle, la testa tra le mani.
-Clara… non capisco…-
Lui mi guarda spaesato, lo vedo attraverso i miei capelli, ma non voglio ascoltarlo.
Voglio che ritorni lui.
-Ho detto che me ne voglio andare!- urlo, piantandomi al suo fianco. –Ce la puoi fare, no? Almeno questo sei in grado di farlo, non è vero?-
-Sono sempre io…- tenta. –Clara, ti prego…- ma sa che non gli darò retta. Sa che non mi importa.
E allora si mette all’opera, pigiando pulsanti e abbassando leve in un balletto così famigliare e doloroso al tempo stesso.
-Ecco fatto- mormora poi, stanco. –Casa.-
Deglutisco, ma mi faccio forza. Non deve vedermi piangere, non lui che mi ha portato via il mio Dottore.
-Bene. Saluti- dico, cercando di apparire più forte di quanto non sia in realtà. –E a mai più rivederci.-
-Clara, non puoi essere seria.-
-Oh, non lo sono mai stata così tanto in vita mia. Sono la regina della serietà!- esclamo. –Lui avrebbe riso- aggiungo poi, sottovoce. –Lui non avrebbe mai permesso una cosa del genere!- grido, tornando a grandi passi verso i comandi. –Riportalo qui, da me. Riportalo qui sano e salvo e ti prometto che non ti succederà nulla.-
-Ma sono sempre io. Guardami- dice, indicando i vestiti che indossa. Stesso panciotto e cappotto color prugna, stessi pantaloni… persino lo stesso orologio fa capolino dalla sua tasca. Se chiudessi gli occhi potrei quasi vederlo sorridermi.
-Non è vero. Indossi i suoi vestiti, ma non sei lui- ribatto, testarda. –Lui non mi avrebbe mai lasciata. Ridammelo!- grido. –Ridammelo!- grido, ma con meno convinzione, tempestandogli il petto di pugni.
È tutto così sbagliato, così ingiusto…
-Ricordi quando ci siamo incontrati? La tua prima volta, intendo, non la mia. Avevi bisogno di internet… eri una tale imbranata con i computer, all’epoca… e hai chiamato la TARDIS… te lo ricordi?-
Lo guardo storta, le mani ancora appoggiate al suo petto. Perché sa queste cose? Come fa a saperle?
-E tu eri preoccupata della bolletta, pensavi di aver chiamato chissà dove… e invece era chissà quando. La mia ragazza impossibile…-
Chiudo gli occhi, non devo lasciarmi scuotere. Se ignorassi il tono della voce, potrei quasi far finta che sia lui a parlarmi. Ma lui non c’è più e io mi sto facendo prendere in giro da uno sconosciuto solo perché indossa i suoi stessi vestiti.
Mi allontano di scatto e lui mi guarda quasi spaventato, con quei grandi occhi da gufo.
-Me ne stavo andando, se non sbaglio. Addio.-
E lo faccio davvero, sbatto la porta alle mie spalle.
Solo quando sento la sirena della TARDIS e realizzo che se ne sta andando davvero, scoppio a piangere.