Fece un
respiro profondo, cercando di ritrovare la concentrazione. Non vedeva
l’ora di
arrivare alla fine di quella lunga giornata, per potersi rifugiare a
casa,
nascosta sotto il piumone.
Lontana da
tutti.
Forse non
proprio da tutti… le sarebbe piaciuto farsi avvolgere dal
calore delle braccia
di Harm. O forse no, avrebbe preferito starsene da sola, a rimuginare
sul suo
malessere.
La mattinata
era iniziata bene: si era svegliata accanto ad Harm e avevano fatto
colazione
insieme, gustandosi, con il caffè, la serenità
data dalla consapevolezza di
essere arrivati finalmente allo stadio successivo del loro rapporto,
dopo
l’incontro rivelatore nelle acque gelide di quel lago dorato.
Le cose però
avevano cominciato ad andare male poco dopo essere arrivata in ufficio.
Un
crampo al basso ventre le aveva fatto capire che anche quel mese non
era
riuscita a coronare il suo sogno di maternità e una breve
visita in bagno
glielo aveva inesorabilmente confermato. Un’ondata di
malinconia e di dolore le
aveva riempito il cuore. C’erano solo due cose che poteva
fare: raggomitolarsi
in posizione fetale sotto la scrivania e annegare il suo dolore nelle
lacrime o
fare affidamento sul suo addestramento militare. Il marine dai nervi
d’acciaio aveva
prevalso sulla donna e l’aveva trasformata in una macchina da
guerra, scostante
e aggressiva. Dapprima se l’era presa con una P.O. per averle
consegnato dei
documenti in un ordine diverso da quello che aveva richiesto. Poi aveva
risposto acidamente a Sturgis che l’aveva invitata a pranzo,
rinfacciandogli
che lei non aveva certo del tempo da perdere, e infine per poco non si
era
mangiata il povero tenente Roberts, con tanto di cappello, mostrine e
scarpe,
che aveva osato affacciarsi alla porta del suo ufficio per chiederle
quando
potevano incontrarsi per rivedere il caso del sottufficiale Chambers,
come
richiesto loro dal Generale che li aveva convocati quella mattina
appena
arrivati al lavoro.
Da quando
aveva iniziato la sua storia con Harm non avevano mai preso
precauzioni, sia
perché entrambi si sottoponevano regolarmente a controlli
medici periodici ed
erano sani, sia perché volevano tenere fede a quel patto
stipulato quasi per
gioco anni prima, quando era nato il piccolo AJ Roberts. Ma fra le
trasferte di
entrambi e l’endometriosi che, come lei stessa aveva detto,
con una punta di
umorismo acido, era un potente anticoncezionale con
un’efficacia paragonabile a
quella della pillola, ancora non ci erano riusciti. Sorvolando sulla
battuta
aggressiva, che in realtà nascondeva la sua frustrazione,
Harm le aveva
promesso nuovamente che sarebbero riusciti a concretizzare quel
progetto. Se
anche non lo avessero fatto in modo naturale, la medicina avrebbe
potuto
aiutarli o, in ogni caso, rimaneva la via dell’adozione.
E lei si
illudeva, ogni mese, che il miracolo si verificasse.
E ogni mese
rimaneva regolarmente delusa.
Non sapeva
con chi parlare della sua sofferenza, del suo sentirsi inadeguata.
Incapace.
Incompleta.
Fallita.
La sua
migliore amica, Harriett, non poteva certo comprenderla: aveva
già due
splendidi bambini e i gemellini sarebbero arrivati fra pochi mesi a far
loro
compagnia. Ogni volta che andava a trovare i Roberts, che per lei e
Harm erano
come una famiglia, tornava a casa con una sensazione dolceamara,
devastata
nell’animo. Voleva bene a Bud e Harriett, adorava i suoi
figliocci, eppure il
suo cuore si frantumava ogni volta che trascorreva del tempo con loro:
rappresentavano tutto ciò che avrebbe voluto e che non
riusciva ad avere.
La risata
cristallina
dei bimbi quando venivano spinti sull’altalena.
Le loro
manine paffute e sempre impiastricciate ogni volta che mangiavano la
torta al
cioccolato o il gelato.
I loro gesti
di affetto e i loro abbracci bavosi ogni volta che li andavano a
trovare.
Gli occhioni
spalancati sulla vita, curiosi e affascinati da ogni nuova scoperta: da
una
coccinella che riposa su un filo d’erba ai regali sotto
l’albero di Natale.
Quell’odore
di latte e borotalco di quando erano appena nati e le loro strane
smorfie
quando erano in braccio alla mamma.
Quanto invidiava
quell’espressione di pura beatitudine che si stampava sul
volto di Harriett
quando aveva uno dei suoi piccoli attaccato al proprio seno!
E poteva
solo immaginare la sensazione meravigliosa che si provava sentendo un
bambino
scalciare nella propria pancia.
Perché
a lei
era negato tutto questo?
E’
vero, la
sua esistenza era ben lontana dall’essere immacolata, ma da
quando si era
arruolata nei marine, a parte qualche piccolo inciampo, si era sempre
mantenuta
sobria e sotto controllo. In amore aveva avuto diverse storie infelici,
ma
adesso – finalmente – poteva contare su un uomo
meraviglioso accanto a sé.
Un uomo che
meritava di diventare padre.
Sarah si
sentiva doppiamente in colpa: non solo privava sé stessa,
ma, stando con lei,
anche ad Harm era preclusa l’esperienza genitoriale.
Per causa
sua.
Lui sarebbe
stato un papà meraviglioso: lo vedeva dal modo con cui
interagiva con Mattie e
con i piccoli Roberts. Era buffissimo con un bebè in
braccio: gigante come era,
il neonato gli entrava praticamente tutto in una mano. No, non poteva
costringere Harm a rinunciare ad avere un figlio proprio, che avesse i
suoi
meravigliosi occhi cerulei, la sua prestanza fisica e la sua stessa
passione
per il volo. Avrebbe dovuto lasciarlo andare, così che
potesse realizzare quel
sogno con una donna vera, con una che potesse portare in grembo un
figlio suo.
Immersa in
questi pensieri, sobbalzò quando sentì bussare
alla porta del suo ufficio.
“Chi
è?”
chiese con voce stanca, senza nemmeno alzare gli occhi dai fascicoli
sparsi
sulla scrivania. Non aveva voglia di vedere nessuno.
“Mac,
sono
io. Posso entrare?” rispose Harm.
Sarah
sospirò e disse: “Sì, vieni.”
Rabb
aprì e
si fermò sulla porta, regalandole il suo splendido sorriso e
sventolando la
tavoletta di cioccolata: “Ciao marine, ti va un po’
di zucchero?”
Mac non
poté
far a meno di sorridere. Quell’uomo la conosceva davvero
bene! Il gesto le
riempì gli occhi di lacrime, che trattenne a stento mentre
faceva cenno al suo
marinaio di accomodarsi.
Rabb fu
molto turbato dalla reazione di Sarah. Si avvicinò alla
scrivania e le porse la
cioccolata.
Abbassando il
tono della voce, le chiese: “Ehy, tesoro, tutto
bene?”
Mac non
rispose. Si limitò a scuotere la testa, concentrando lo
sguardo su quella
tavoletta di cioccolato, come se fosse la sua unica ancora di salvezza.
“Ti va
di
raccontarmi cosa succede?” le domandò con dolcezza.
Sarah
rispose quasi sussurrando: “Non ce l’abbiamo fatta
nemmeno questo mese…”
Harm
comprese immediatamente di cosa stesse parlando. Si alzò
dalla sedia, si
avvicinò a lei, la prese fra le braccia e la strinse a
sé. “Sarah, amore mio,
non ti preoccupare, ci riusciremo… la dottoressa ha detto di
provarci in modo
naturale per almeno sei mesi, poi vedremo se ricorrere a qualche
rimedio
medico, ma succederà, vedrai!”
“No…
e tu
non dovresti stare con me….”
Quante volte
avevano già affrontato questo discorso!
Rabb non si
dette per vinto e replicò: “Spiacente, Mac, ma non
mi puoi restituire al
mittente: la garanzia è scaduta e non puoi più
esercitare il diritto di recesso.
In ogni caso, io non ho nessuna intenzione di allontanarmi dal mio
marine. E
adesso chiudi tutto e andiamo a casa. Ti preparo una buona cenetta.
Carnivora,
promesso. Oppure ci fermiamo da Beltway Burger, ti compro un triplo
hamburger e
una tonnellata di patatine.”
Le
asciugò
una lacrima con il pollice, le accarezzò teneramente il
volto e fece per
avviarsi verso l’uscita. Sulla porta dell’ufficio,
che Rabb aveva lasciato
involontariamente aperta, si stagliò la figura del Generale
Cresswell che li
fissava con espressione truce e braccia conserte.
“Comandante, colonnello, nel
mio ufficio. Subito.”
Nota
dell’autrice
Un capitolo
rispettosamente dedicato
alla sofferenza di Mac che si conclude con un ordine perentorio. Ahi
ahi ahi, come
la prenderà il Generale?
Grazie per
avermi dedicato ancora una
volta il vostro tempo e per essere arrivati fino qui!
Baci,
Deb