10.
Upon us all, a little rain must fall.
6 Giugno 1977
Sotto di noi, appena
dietro nuvole basse, grigie e cariche d’afa, si nasconde New
York. I miei occhi
rintracciano, di tanto in tanto, punte di grattacieli che non vedevo da
un po’,
mentre a bordo domina il silenzio, interrotto solo dal russare soffiato
di
Robert e quello pesante di John. Jonesy, seduto nell’ultima
fila, alle mie
spalle, legge illuminandosi con una piccola torcia. Aveva la fronte
corrucciata
l’ultima volta che mi sono voltato a guardarlo, disegnando
sulla pelle delle
finte rughe fitte come le pagine di Lord
Jim strette tra le sue mani. Non sopporto più il
suo silenzio, è più
pesante di qualsiasi colpa, più presente di qualsiasi
rimprovero. Mi gratto il
mento nervosamente, incontrando un leggero filo di barba, per poi
scattare in
piedi, dirigendomi verso di lui. È sempre lì,
silenzioso, come immerso nel mare
attraversato dalla nave di Lord Jim.
- Jonesy? – sussurro.
Alza lo sguardo come se
stesse uscendo da una trance. Poi mi vede davvero e, stranamente,
l’accenno di
un sorriso attraversa le sue labbra.
- Hey, Jim! – dice a
bassa voce, chiudendo il libro – Siediti! – dice,
indicando il posto di fronte
al suo. E così faccio, incoraggiato dal suo fare cordiale,
mentre si mette il
libro in grembo.
- Lettura interessante? –
chiedo, indicando il romanzo con un cenno del mento, mentre Jonesy
abbassa lo
sguardo su di esso, l’ombra di un sorriso sulle labbra. Poi
torna a guardarmi
con aria malinconica e di rimprovero.
- Credo lo sarebbe di più
per te. – risponde con calma – Somigli tanto al
protagonista e non solo per il
nome.
- Stronzate. – sussurro,
buttandomi contro lo schienale del sedile – Lord Jim
è un fottuto codardo
travestito da marinaio che nel momento di pericolo abbandona la nave.
- E ti senti davvero così
diverso? – sussurra Jonesy, abbassando lo sguardo,
accarezzando la copertina
con la punta delle dita – Non appena i giornali hanno
iniziato a spalare merda
su di noi ecco che ti rifugi nell’ero.
Sgrano gli occhi,
fissandolo incredulo. Jonesy e i suoi occhi piccoli che mi osservano da
lontano. Hanno capito tutto, molto più di Robert che mi
segue e mi accudisce
come una specie di balia.
- È così, vero? –
chiede,
severo.
Non ho nemmeno il
coraggio di annuire. Sento solo le labbra tremare, nervose.
- Certo che è vero. Sei
sempre stato fragile, Jim. – continua, come se stesse
parlando ad un bambino –
Ma sei troppo testardo per accettarlo. Così continui a
sbagliare, a fare
cazzate. Con la tua condotta non stai distruggendo solo te, ma anche
noi. –
aggiunge poi con tono di rimprovero, mentre serro la bocca e i pugni
– E il
peggio è che lo sai e non fai nulla per cambiare le cose.
Proprio come Lord
Jim. Lui ha posto rimedio quando ormai era troppo tardi, dopo anni
passati a
commiserarsi.
- Non lo è. – dico, il
volto indurito – Non ancora.
- Certo che sì. – fa lui,
guardandomi dritto negli occhi – Stiamo precipitando Jim, tu
ci abbandonerai e,
quando l’ero avrà compiuto il suo lavoro,
finalmente ti libererai dei tuoi
demoni. – e, nel momento in cui parla così, le
luci si spengono, le mascherine
dell’ossigeno pendono sopra le nostre teste,
l’aereo viene inghiottito dal buio
e il vento, che non si sa da dove proviene. John e Robert continuano a
dormire,
come se non stessero avvertendo nulla, Jonesy che mi fissa immobile, la
torcia
a illuminargli il viso, mentre io mi aggrappo al sedile, terrorizzato.
- Jonesy! – urlo –
Jonesy, aiuto! Ti prego, John e Robert! Svegliamoli.
- Non puoi fare niente,
ormai. – urla anche lui, anche se il volto resta disteso e
inizia a ricamarsi
di rughe e, nel momento in cui succede, l’aereo inizia a
sbandare, il tetto che
si apre squarciato dal vento, i miei capelli che vanno indietro. Butto
un’occhiata sotto di noi.
L’oceano.
- Jonesy! – lo supplico –
Aiutami, ti prego!
- È compito tuo. – dice,
riaprendo il libro per leggerlo – Sta a te salvarci, o
distruggerci Tuan Jim!
E, nel momento in cui
sputa la sua sentenza, il mare è ormai a un soffio, mentre
chiudo gli occhi,
pronto a morire.
Ma non accade. Il mio
corpo è bagnato, ma sotto di me c’è
solo l’asfalto e la puzza di benzina e
fogna.
Di nuovo la strada al
centro di New York, la pioggia, io che muoio mangiando la polvere delle
auto
che mi sfrecciano intorno.
E sempre la stessa voce,
una litania, le stesse parole.
Non ancora! Svegliati,
Jim!
*
New York, 7 Giugno 1977
Ritorno al mondo, alla
realtà. Sudato fradicio e i capelli incollati alla fronte.
Mi libero delle
lenzuola, rimasto intrappolato per via dell’agitazione,
scalciandole fino a
farle arrivare sul pavimento. Mi sollevo di scatto, mani tra i capelli,
bocca
spalancata per riprendere fiato.
- Cristo. – sbuffo,
sputando a terra, pronto a digrignare i denti non appena sento una
fitta sotto
la pianta dei piedi, imprecando contro quello che è un
crampo con i fiocchi.
Gli occhi si stringono, mentre l’aria tra i denti ha il gusto
amaro del cattivo
risveglio.
- Vaffanculo! – urlo,
buttandomi tra le lenzuola, lasciando che il dolore si mangi anche il
polpaccio
– Non ce la faccio più! – esclamo,
mentre due lacrime mi rigano gli zigomi e
qualcuno prende a bussare alla porta. Infastidito e dolorante, mi
sollevo dal
letto, zoppicando fino alla porta ma, quando la apro, ad aspettare
c’è l’ultima
persona che vorrei vedere.
- Hey Jim, ti ho portato
qualcosa … - inizia a dire Richard, reggendo in mano,
davanti ai miei occhi,
una bustina stracolma di chissà quale merda.
- Vai all’inferno Cole!
Tu e quella merda! – urlo e quasi potrei sputargli in faccia
le corde vocali,
ma l’unica cosa che chiudo sulla sua espressione da stronzo
è la porta, che si
chiude secca, con addosso la mia schiena che pian piano scivola verso
il
pavimento.
Sono stanco, provato,
nemmeno la notte mi lascia riposo, così come
l’ipocrisia si ostina a starmi
dietro; così, mentre nel corridoio sento allontanarsi i
passi di Richard, fisso
le bottiglie di Jack abbandonate ai piedi del letto e ciò
che resta delle mie
“piccole” dosi di onnipotenza.
Vorrei sparire. Scappare.
Vorrei tornare a casa,
oppure …
… morire.
*
- Quale onore! – tuona
Bonzo, le guance piene di chissà cosa – Abbiamo
Sir Page tra di noi.
Mi sforzo di sorridere,
sedendomi tra lui e Robert.
- Ci siamo svegliati, bella addormentata? – sfotte, dandomi una pacca sulla spalla.
- Beh, direi. – sussurro,
servendomi un cappuccino bollente e afferrando un pezzo di torta al
cioccolato.
- Intanto. – continua
Robert, dando un tiro alla sua sigaretta – Ieri non ti
avrebbe svegliato
nemmeno una bomba. Abbiamo dovuto prenderti in braccio per farti
scendere
dall’aereo. Sarebbe potuto precipitare e non te ne saresti nemmeno accorto.
Improvvisamente è come se
nella sala di ristoro dell’hotel sia calato il gelo, mentre
la tavola imbandita
sembra sbiadirsi, un velo che si appoggia sui miei occhi mentre ritorna
alla
mente l’incubo di stanotte.
- Jim?
- Sì? – chiedo, stringendo
gli occhi contro Robert.
- Ti senti bene? – fa, la
sigaretta tra i denti – Sei impallidito.
- Ho sognato che l’aereo
precipitava. – rispondo, senza nemmeno pensarci e sembra
quasi che il peso
dell’incubo stia pian piano svanendo.
- Sul serio? – chiede Bonzo
– A noi sembrava che te la stessi spassando con Jonesy!
– ride, battendo il
pugno sul tavolo.
- Cosa?
- Hai urlato il suo nome.
– dichiara Robert, sputando fuori il fumo e spegnendo il
mozzicone sul piattino
della sua tazza del caffè – E più
volte. Che c’entrava Jonesy?
- Nulla. Gli chiedevo
aiuto. – dico, omettendo gran parte del sogno. La
conversazione sta diventando
imbarazzante, mentre poco a poco mi rendo conto di non essere
più in Florida.
Il sogno mi aveva talmente sconvolto, da lasciarlo nei confini
dell’irreale.
Invece mi sbagliavo. Quando ho iniziato a sognare ero davvero
sull’aereo. E nemmeno me lo ricordo. Così come non ricordo di essermi svegliato, scolato due bottiglie di Jack nella mia stanza, per poi crollare e riprendere a sognare lo stesso incubo.
Solo ora mi rendo conto
di essere a New York.
A un passo da Grace.
- Bevi quel caffè, o si
raffredda.
- Devo andare. – faccio,
scattando in piedi e poggiando una mano sulla spalla di Robert.
- Ma … - fa, guardandomi
con aria confusa e seguendo il mio percorso fino all’uscita -
… dove?
Mi fermo, prendendo sul
serio la sua domanda.
È stata sempre Grace a
trovare me ed ora che sono nella sua città non so nemmeno
dove andare a
cercarla.
O forse sì.
- Mi sono appena
ricordato che devo comprare una cosa per Scarlet. – sorrido,
in pieno
allenamento alla menzogna – Ci vediamo stasera.
*
Giro a vuoto. Le strade
di New York sembrano tutte uguali mentre in una mano stringo una busta;
dentro,
un pacchetto dondola indisturbato, tenendo al sicuro la Polaroid che
porterò a
Scarlet una volta tornato in Inghilterra. Mi fermo al bordo di un
marciapiede,
sperando che un taxi si fermi davanti alla mia mano alzata.
- Mi porti allo Hudson
River per piacere. – chiedo una volta riuscito
nell’impresa.
*
È tutto come lo aveva
descritto Grace.
Il fiume, New York,
l’erba brillante sotto il sole e le panchine. Descritto alla
perfezione.
L’unica differenza è dettata da tante coppiette
che si crogiolano al sole,
sostituendo le scolaresche, mentre qui gli unici insegnanti, di vita,
sono un
gruppetto di vecchietti che si nascondono all’ombra degli
alberi.
Niente tracce di un
vestito a fiori o di capelli color grano lasciati sotto il sole. Nessun
brivido
ad annunciarla, a segnalare la sua presenza. Sbuffo, gli occhi che mi
si
stringono per via della luce, lasciandomi andare su una panchina.
Chissà se ci
si è mai seduta.
Poggio il pacchetto di
fianco a me, mentre con la mano sfioro distrattamente il legno del
sedile con
la punta delle dita, avvertendo sotto la pelle la presenza di incisioni
lisce
come graffi che si sono dolcemente trasformati in cicatrici.
Abbasso lo sguardo. Una
scrittura sottile ed elegante.
JIMMY
Così è scritto.
- Sì. – sussurro –
Sì,
eri qui, Grace.
Rileggo le lettere
incise, sfiorandole con dolcezza.
- Siamo qui. – sorrido –
E ti troverò.
*
Ha iniziato a piovere.
Anche qui, dal cuore del Madison Square Garden, il rumore
dell’acqua è
perfettamente udibile. Almeno per me. Sento come se mi portassi la
pioggia
proprio dentro al petto, da sempre. Una sorta di lavaggio
dell’anima che,
stranamente, invece di ripulirla, la insozza di fango denso, fino a
rendermi
solo una poltiglia di dubbi, rimorsi e colpe. Ogni tanto appare il
sole; un
accordo, un nuovo assolo, un giro di parole, il sorriso e il bacio
della mia
Scarlet, la voce di Robert. Attimi che mi ricordano il colore del
cielo. Poi,
il buio. Una malinconia che cade leggera, goccia a goccia, quasi
silenziosa. La
mia anima non ha bisogno di essere un temporale. Le piace rimanere
un’incessante, sottile, pioggerella d’estate.
Mi guardo intorno, il mio
sguardo che accarezza ogni volto in prima fila senza scorgere quello
che sto
cercando. Così mi avvento sulle corde, tentando di sfogare
la rabbia e di scappare
al senso di abbandono causate dall’assenza di Grace.
La Musica, lo spettacolo,
il tempo intorno a noi, va avanti ed io sorrido, mi offro al pubblico.
Lo
avvicino per poi allontanarmi, in una sorta di danza di corteggiamento
in cui
gli unici a restare conquistati restano loro, che mi guardano con occhi
vivi,
lucidi o semplicemente sognanti. Robert è un fiume in piena
e John ci trascina,
dettando le regole del tempo. Jonesy, invece, sembra aver sotterrato
l’ascia di
guerra; mi guarda e, quando il suo basso incontra la mia chitarra, mi
sorride,
complice.
C’è qualcosa
nell’aria.
E non è solo pioggia.
*
- Magnifico! – esclama
Robert, entrando in macchina, il petto bagnato di sudore e pioggia, io
che
sistemo il mio ombrello ai piedi del sedile - È stato
assolutamente
incredibile.
- Già. – mi sforzo di
sorridere, la dragon suite bianca ormai completamente appiccicata alla
pelle.
- Finalmente ti ho
riconosciuto stasera! – esclama, rivolgendomi un sorriso
radioso e lasciandomi
una pacca sulla spalla. Fuori piove ancora – Anche se
dovresti mangiare
qualcosa. Sei magro come un chiodo.
- E questo cosa c’entra?
– dico, incrociando le braccia al petto con un sorriso
sarcastico – Un passo
alla volta, Percy.
- Già. – acconsente,
abbassando il capo, per poi abbandonarsi sullo schienale.
L’auto parte, perdendosi
nel traffico di New York.
- Sai. – dice Robert
all’improvviso – Mi ricordo ancora quella volta nel
’73. Peter diventò una
bestia quando scoprì del furto.
- Dio, che situazione di
merda! – esclamo, seccato dal solo ricordo – Lui e
Cole sembravano due
fidanzatini adolescenti dopo che avevano rotto.
- Quando poi era colpa di
quelli del Drake. Incompetenti del …
- Che cosa? – esclamo, il
volto rivolto verso Robert, come pietrificato.
- Jimmy? – fa lui,
scrutandomi stranito – Che succede?
- Il Drake! – esclamo,
battendomi una mano sulla fronte – Era lì!
È stato lì! – continuo, una mano che
graffia il sedile sotto di me – Lei era lì!
– sussurro, per poi guardarmi
intorno, sotto lo sguardo confuso di Robert. Il Drake si trova solo a
pochi
isolati da qui.
- Ferma la macchina! –
grido.
- Cosa? Ma, Jim…
- Ferma questa cazzo di
macchina ho detto! – urlo, come impazzito, gli occhi di
Robert che guizzano da
me all’autista, mentre questo frena nel bel mezzo del
traffico newyorkese ed
io, senza nemmeno badare alla pioggia, mi tuffo tra le macchine che
suonano
impazzite, prendendo a correre come un folle. Dietro di me, il rumore
di uno
sportello che si chiude.
- Jimmy! – è Robert, ma non
riuscirà a raggiungermi. Mi basta svoltare una volta a
destra ed una a sinistra
per ritrovarmi a pochi metri di distanza dal Drake, la sua insegna
uguale come
quattro anni fa. Fermo al centro della strada, le auto mi sfrecciano di
fianco,
le loro ruote che sollevano onde d’acqua che mi inzuppano le
gambe. Domani avrò
la febbre. Chi se ne fotte.
Davanti a me sembra si
stia ripetendo un film a rallentatore. Anzi, un sogno.
L’incubo che da molte
(troppe) notti mi tormenta.
- Jimmy!
Mi volto. Robert è dietro
di me.
Riprendo a correre,
raggiungendo finalmente le strisce pedonali di fronte al maledetto
hotel,
credendo quasi di trovarci ancora delle strisce di sangue.
- Grace! – prendo a
urlare, la pioggia che schizza sul mio volto – Grace!
Non c’è. Se
n’è andata.
Molto prima di questa notte.
Grace mi ha lasciato in
una notte come questa, in cui a New York mancavano le stelle.
- Grace! – singhiozzo, il
petto che mi si solleva, le mani contro la faccia. Lacrime e pioggia.
Poi un clacson, una luce
accecante.
Non mi prende, ma cado
comunque a terra.
- Jimmy! – l’urlo di
Robert è straziato mentre il mio volto accarezza
l’asfalto e chiudo New York
fuori dai miei occhi, dietro le palpebre.
- Lasciami, Rob. –
sussurro – Lasciami morire qui.
Una risata, all’altezza
del mio volto. Ma non è la mia.
- Non ancora. – la sento
sorridere, anche se non la vedo – Apri gli occhi Jim!
Lo faccio.
Poi, un urlo mi attraversa la gola.
Angolo della pazza:
Rieccomi!!! ^^
Ehm...sì, ecco... ce l'ho fatta.
Almeno spero.
Finalmente Jimmy ha capito chi è Grace! *^*
Questo capitolo è stato un tormento, nonostante lo avessi in mente da un sacco di tempo.
Ed è il penultimo...
Ehm, sì, la storia si avvicina alla fine! ç__ç
Ma avrà anche un epilogo, ergo mi aspettano ancora due capitoli.
Ehm, nulla. Spero tanto vi sia piaciuto questo e, come sempre, mi auguro di trovare tempo ed ispirazione per il prossimo.
Ringrazio Ire, che è ancora in piedi, e Zelda che aspetta e nel frattempo legge la biografia di Robbe! *^*
Awww, siete meravigliosi. Tutti quanti.
Vi aspetto al prossimo (ultimo, sigh) capitolo!
Un abbraccio,
Franny