COLORBLIND
Mi
stringo nel mantello talmente logoro e frusto, che non riesce più a proteggermi
dal vento pungente dell’inverno. I fiocchi di neve si adagiano silenziosamente
sulle mie spalle e sui miei capelli, come cristalli
d’argento, sciogliendosi a contatto con la mia pelle. Il mio respiro si condensa
davanti al mio naso in una nuvoletta bianca.
Fa
davvero freddo.
Abbasso di poco la testa, per
evitare che il vento mi faccia lacrimare gli occhi, avanzando nelle strade
affollate di Diagon Alley.
Tutti in
cerca dell’ultimo regalo. Tutti vocianti. Chi si lamenta per
la fitta nevicata. Chi si lamenta di dover andare alla
tradizionale cena con i parenti. Chi sogna di ricevere
il regalo tanto desiderato. Chi sogna di trascorre la vigilia di Natale con la persona amata.
Continuo
a camminare tra la folla con lo sguardo puntato sul marciapiede spruzzato di
neve, incurante delle fugaci occhiate che mi vengono
lanciate.
Non so
perché sono uscito questa sera. Forse per non sentire più il
ticchettio della pendola rimbombare nella casa vuota. Per non guardare le
pareti ingrigite dal fumo. I miei pochi e malridotti libri
abbandonati accanto alla poltrona rappezzata da toppe multicolori. La
tazza scheggiata e macchiata appoggiata sul tavolino, vicino a un piatto di biscotti ammorbiditi dall’umidità. Bel modo
per passare
Ho appeso
un rametto di vischio sul caminetto e una stella di plastica, ricordo della mia
infanzia. Sono gli unici addobbi natalizi che possiedo. Non posso permettermi
nessun albero di Natale.
Non mi
sono mai sentito così solo in vita.
La
solitudine non è mai stata un grave peso per me, forse perché ha da sempre fatto
parte della mia esistenza.
Da
bambino ero solo, rintanato nel vano di una finestra a leggere. Solo chiuso in
una stanza a ululare alla luna, che disegnava il
contorno delle inferiate alla finestra sul pavimento.
Solo
nella mia vita di adulto. Solo seduto nella mia cucina
a bere un tè. Solo a vagare per le strade, attorniato da sconosciuti.
Ci si
abitua a tutto nella vita…anche alla solitudine.
Ma stasera il suo peso mi grava
sulle spalle come se si fosse lentamente accumulata in tutti questi anni,
aspettando di deporsi sulla mia schiena in un momento di vulnerabilità. Ebbene, l’ha trovato…il mio momento di vulnerabilità.
Mi fermo
un attimo davanti alla vetrina di un negozio, osservando il mio viso riflesso.
Da quanto
tempo non mi guardo allo specchio?
Anni
forse…da dove spuntano quelle rughe? Da quando sono così
vecchio?
Ma non sono tanto i segni sul mio
viso, quanto più la desolazione che sento crescere dentro di me. La stanchezza
di una vita sempre uguale. Sempre a lottare per racimolare i soldi per arrivare
a fine mese. Sempre schivato ed evitato da tutti.
Se non per il mio essere
licantropo, per i miei abiti miserabili, il mio viso segnato ed emaciato, il mio
pallore, il lieve tremore delle mie mani dovuto alla spossatezza dopo il
plenilunio, le vecchie cicatrici che deturpano il mio corpo, indelebile ricordo
delle mie sofferenze.
Guardo il
mio fiato condensarsi sul vetro in un alone circolare. Nell’aria aleggia un jingle natalizio e molte luci colorate risplendono attorno
a me, ma non sono in grado di vederle.
Una
bambina mi passa vicino, tenendo per mano sua madre. Due lunghe trecce bionde le
spuntano dal cappello rosa e una manciata di lentiggini
punteggia le sue guance. Mi fissa per un attimo, arrestandosi di fianco a me
prima che la madre le dia uno strattone per farla camminare.
“stagli
alla larga” sento mugugnare alla donna all’indirizzo della bambina.
Come se
io fossi pericoloso! O malato…
La seguo
con lo sguardo sparire dalla mia vista. Sorrido brevemente, chinando il
viso.
Io?
Pericoloso? Già potrei mordere…
Entro con
passo stanco in una caffetteria. Ci vengo ogni tanto. E’ un posto tranquillo e
poco frequentato. Sconosciuti mi circondano anche qui, ma non riesco a vederli.
Come non riesco a vedere i colori delle luci di Natale. È tutto grigio, intorno
a me. Tutto monocromatico.
Mi siedo
al bancone e ordino una cioccolata. No, la voglio senza panna. Il cioccolato è
buono perché è cioccolato. Se si mischia con
qualcos’altro il suo sapore si attenua e non fa più
effetto. Il barista mi lancia un’occhiata sospettosa, asciugandosi le mani nel
grembiule e poi mi allunga quello che ho chiesto. Assaporo con calma la mia
cioccolata, chiedendomi che cosa mangerò domani, dato che gli ultimi soldi che
avevo da parte me li sto bevendo in questo momento. Tacchino, un grande e
polposo tacchino. E patate .
Molte patate tagliate a cubetti e lasciate a rosolare nel forno. E cioccolato. Tanto cioccolato. Così
tanto cioccolato da poter scoppiare. Appoggio la tazza sul piattino e
guardo l’uomo stanco e solo che è seduto di fronte a me. Non sembra un uomo
felice. Sembra un miserabile. Uno che si è preso tante batoste nella sua vita,
ma ciononostante continua ad andare avanti, cercando di mantenere quella poca
dignità che possiede nei suoi abiti lisi, nel suo
appartamento spoglio.
Distolgo
lo sguardo dal mio riflesso e lascio i soldi per la cioccolata sul bancone. Mi
sistemo il mantello sulle spalle, quando la voce del barista mi
richiama.
“Buon
Natale, signore” mi dice, continuando ad asciugare un bicchiere
nell’asciugamano.
“Buon
Natale anche a lei” dico con voce roca, sorridendo.
L’uomo
non risponde al mio sorriso. Forse si sta chiedendo che cos’ho da sorridere.
Perché un uomo solo e triste dovrebbe
sorridere?
Non lo
so. Forse perché è così che ho sempre affrontato le cose.
Quando
esco dal locale una folata di vento mi fa rabbrividire.
Mi avvolgo nel mantello, immergendo il mento nel bavero, senza riuscire a
scaldarmi.
Le strade
si sono spopolate. I negozi stanno chiudendo. Le luci si
spengono.
E la neve continua a cadere fitta e
silenziosa, deponendosi sulle mie spalle.
Una
campana suona da qualche parte. Mi fermo un attimo a guardare la vetrina di un
negozio di articoli per il Quiddicth. È uscito il nuovo
modello della Nimbus. James impazzirebbe per quella. Mi sembra di sentire la sua
voce, mentre, quasi vent’anni fa ci fermavamo davanti
a questo stesso negozio e lui diceva che avrebbero
vinto sicuramente anche il campionato dell’anno successivo.
“E come fai a
esserne tanto sicuro?” chiede Sirius.
“Beh perché ci sono io in squadra”
risponde James passandosi una mano tra i capelli
incasinati.
“mi sembra ovvio” aggiungo io, con un
tono che ci fa scoppiare a ridere.
Sorrido
ai fantasmi di noi tre, riprendendo a camminare. Inspiro profondamente l’aria
che sa di neve, sollevando il viso verso il cielo. I fiocchi di neve turbinano
tutt’intorno a me, coprendo la strada di un manto bianco e uniforme.
Chiudo
gli occhi e rimango immobile sotto la neve.
Sono così
stanco.
Percorro
con calma i vicoli bui che mi riconducono a casa, dove ho solo la mia stella di
plastica che mi aspetta. Cerco le chiavi nella tasca del mantello, quando vedo
qualcosa di inaspettato. Un grosso cane è accucciato
davanti alla mia porta, illuminato dall’unico lampione della strada. I fiocchi
di neve si adagiano piano sul suo pelo nero. Vedendomi alza la testa e comincia
a scodinzolare, con la lingua a penzoloni fuori dalla
bocca.
Lo fisso
inebetito, incapace di muovermi. Non può essere lui. Non può essere qui a
Londra. Silente non gli avrebbe permesso…già, Silente.
Come se ci fosse essere umano sulla faccia della terra che possa impedirgli di
fare quello che quella sua testaccia dura gli suggerisce.
“c-che
cosa ci fai qui?” mormorò con voce roca.
Il cane
getta la testa all’indietro e abbaia forte.
“Non
dovresti essere qui. È pericoloso” lo sgrido, fermandomi accanto a lui.
Il cane
afferra un lembo del mio mantello e lo strattona, ringhiando.
“okay ho capito” dico, scoppiando a ridere. Il cane tira più
forte, scodinzolando con la folta coda nera.
“va bene.
Ho capito”.
Gli
strappo il mantello dalla bocca e infilo la chiave nella serratura. Il cane
sgattaiola tra le mie gambe e s’infila dentro, abbaiando
allegro.
Accendo
la luce con un colpo di bacchetta e lo vedo scrollarsi, infradiciando anche me,
la poltrona e il tappeto costellato di buchi. Storco il naso per la puzza di
cane bagnato, tendendo le braccia per cercare di ripararmi dalle goccioline che
sfuggono dal pelo del cane.
“Ah
Sirius! Piantala!” sbotto, mentre lui si ritrasforma in
essere umano.
“ah è
tutto quello che sai dire a un vecchio amico! Ma che
bella accoglienza! Dopo che sono stato tre ore qua fuori ad aspettarti! Uno dei tuoi vicini
voleva chiamare l’accalappiacani, lo
sai?”
Mi metto
a ridere, mentre Sirius gesticola, facendo cadere dell’altra acqua sul mio
tappeto.
“togliti
quella roba da addosso, mentre io cerco qualcosa da darti da mangiare” dico,
voltandogli le spalle e aprendo un armadietto che so desolatamente
vuoto.
Il mio
cervello impiega una manciata di secondi a comprendere
quello che ho di fronte: l’armadietto è pieno di roba da mangiare. C’è
anche…
“Tacchino
in scatola” dico prendendo una confezione grigia e verde “ehi Sirius, questa…”
lo chiamo voltandomi verso di lui. Si è tolto la maglia
e si è tirato i capelli bagnati all’indietro.
“ma secondo te, sono così scemo da restare sotto la neve per
tre ore, senza entrare in casa tua? Ero appena arrivato!” ribatte senza darmi il
tempo di finire la frase. “ho mandato Grattastinchi a fare la spesa” aggiunge,
voltandomi le spalle e mettendo dell’altra legna nel caminetto. La linea della
spina dorsale è in evidenza sotto la pelle pallida e tirata. Riesco a contagli tutte le costole senza difficoltà. Se io non me la sono passata bene, nemmeno lui deve aver
goduto di molti pasti decenti ultimamente.
“Sirius?”
lo chiamo piano, con ancora il tacchino in scatola in
mano.
Lui mi
guarda da sopra la spalla con un’espressione
indecifrabile.
“Buon
Natale”
“Buon
Natale anche a te, Moony”.
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Spero che
questa fanfic vi sia piaciuta…è un po’ triste e un po’
malinconica…
Auguro
a tutti un buon Natale…e non abbuffatevi troppo in
queste feste^^;
Un
abbraccio forte forte
Egle