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Autore: lucabovo78    13/05/2014    1 recensioni
« La magia è dentro di noi, fa parte della nostra natura. Dobbiamo solo trovare il modo giusto per usarla. »
Se la magia fosse una cosa naturale come respirare, tutti sarebbero in grado di usarla. Invece, questo "privilegio" è affidato a pochi individui, dotati di grande potere e chiamati Stregoni.
Questa è la storia di un giovane stregone e del prezzo che dovrà pagare per questo potere.
« Non è bene sottovalutare le trame del destino, potrebbe rivoltarsi contro di noi. »
Copyright © 2013 Luca Bovo, tutti i diritti riservati
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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25. Southill

 

Corgh e Jofiah arrivarono a Southill alle prime luci dell’alba: avevano viaggiato ininterrottamente per un giorno e una notte. Il vecchio Moshi, dopo poche centinaia di metri percorsi al trotto sostenuto dopo la misteriosa apparizione, se l’era presa nuovamente con calma. Nonostante questo, era visibilmente stanco e bisognava farlo riposare, anche se a Corgh non allettava molto l’idea di doversi fermare in città.

   Southill era una grande città di frontiera, tappa necessaria a chiunque avesse voluto raggiungere la Foresta Nera per recarsi nei territori degli elfi. Era situata nella stretta valle tra i monti Echor1, chiamati così dagli elfi per i loro pendii eccezionalmente ripidi e quasi impossibili da scalare. Per questa ragione, era anche chiamata Irin-Fen2. Per molti secoli era stata la prima roccaforte a difesa del territorio degli uomini contro gli elfi neri. In passato, infatti, gli Ungwe Vinya3 erano stati in guerra con i popoli umani a causa di una qualche ragione che, oramai, nessuno più ricordava. Da molti anni, fortunatamente, era stata siglata la pace, ma la simpatia tra le due razze non era mai sbocciata. La milizia della città era stata convertita a una sorta di polizia con compiti di controllo doganale e di semplice ordine pubblico. Nonostante i compiti civili, i membri di questi corpi erano ancora addestrati ed equipaggiati per il combattimento, a segno del fatto che la diffidenza era ancora presente e radicata. Tra i due popoli, dopo la fine delle ostilità, erano fioriti rapporti commerciali, ma niente di più. Solo da poco tempo, inoltre, era permesso il matrimonio tra due persone di razze diverse, anche se, per quei pochi casi che erano capitati negli anni, le coppie miste avevano sempre preferito abbandonare la città, non essendo ben viste dalla maggior parte degli abitanti.

   «Insomma, Corgh! Sono passati vent’anni, chi vuoi si ricordi ancora di te? Tra l’altro, lasciatelo dire, sei piuttosto cambiato da allora, per cui smettila di preoccuparti».

   L’oste si limitò a grugnire qualcosa, senza smettere di guardarsi intorno. Si era abbassato il cappuccio del mantello fino al naso e evitava di guardare in faccia le persone che incrociavano. Jofiah provò a spiegargli che, in quel modo, avrebbe attirato ancora di più l’attenzione, senza però avere successo. Infatti, dopo qualche minuto in cui stavano attraversando la strada principale della città, gli sguardi dei passanti si erano fatti via via più insistenti e preoccupati. Fortunatamente, riuscirono ad arrivare a una locanda di posta senza essere fermati da qualche pattuglia. Il vecchio Moshi fu ben felice di tuffare il muso nella mangiatoia e di dissetarsi con l’acqua della vasca nella stalla adiacente alla locanda. I due compagni occuparono un tavolo nel ristorante, Corgh scelse il più nascosto in un angolo male illuminato della sala, e si sedette dando le spalle al resto dei tavoli. Nonostante questo, continuava a essere nervoso.

   «Mangiamo in fretta e diamoci una mossa».

   «Stai calmo, vecchio brontolone! Moshi ha bisogno di riposarsi, e anche noi. Siamo a un passo dalla Foresta, per cui possiamo anche prendercela con comoda. Inoltre, come ti ho già detto, chi vuoi che ti riconosc…»

   «Bene bene, guarda chi abbiamo qui! Avevo ragione, quindi. Il Tenente Corghyan! Quanti anni sono passati? Più di venti, se non erro…»

   L’oste spalancò gli occhi, come se fosse stato trafitto da un pugnale nel mezzo alla schiena. Non c’erano dubbi, non aveva neanche bisogno di voltarsi, aveva riconosciuto la voce. Era quella che non avrebbe mai più voluto sentire.

   «Sono ancora troppo pochi per me, Capitano Sheryan».

Si tolse il cappuccio dalla testa: non ce ne era più bisogno. Si alzò e guardò negli occhi il suo vecchio superiore. Il tempo non era stato clemente con lui, il viso era solcato da una fitta rete di rughe, i capelli radi e bianchi, la schiena incurvata, sorretta da un bastone tenuto da una mano con evidenti segni di artrosi. La figura, autoritaria e imponente di comandate dal pugno di ferro, era svanita. L’unica cosa che non faceva nascere dubbi sul fatto di trovarsi di fronte al famoso e rispettato Capitano Sheryan, erano gli occhi: quelli erano sempre gli stessi, di un azzurro chiarissimo, grandi, glaciali e privi di qualsiasi espressività. Ricordava molto bene quello sguardo, lo stesso con cui aveva guardato lui e Deliah quella sera di vent’anni prima.

   «La trovo male, capitano».

Il tono non era assolutamente di dispiacere.

   «Grazie. Anche tu non ti sei mantenuto particolarmente in forma, vedo».

   La voce era graffiata, evidentemente anche le corde vocali erano provate dalla vecchiaia. Jofiah guardava preoccupato i due contendenti, conosceva la persona che aveva davanti dai racconti di Corgh, e quindi sapeva bene che era il peggior incontro che potessero fare.

 

Lind era disteso su una delle brande a faccia in su, con le mani intrecciate dietro la nuca. Sephyr si era sistemata su quella più lontana.

   “Tu dormi lì, io qui. E non provare ad avvicinarti, per stanotte sei in castigo!”

   Si stava domandando se anche Shayra si comportasse così con il Maestro, ma a pensarci bene non gli sembrava possibile. Da questo punto di vista Sephyr assomigliava più a Corgh che a lei. Dopotutto, qualcosa avrebbe dovuto pur ereditare dal padre.

   Nonostante la stanchezza non riusciva ad addormentarsi, aveva ancora negli occhi quello strano individuo e non era riuscito a tranquillizzarsi del tutto. A un certo punto aveva avvertito un movimento fuori da una delle finestre, ma era cessato immediatamente “Qualche animale di passaggio.” aveva pensato, e non si era neanche alzato dalla branda per controllare. Stava abituandosi all’idea di passare la notte in bianco, quando sentì la ragazza alzarsi. Si avvicinò alla sua branda e si distese affianco a lui, appoggiandogli la testa su una spalla e un braccio sul petto.

   «Ma non ero in castigo?»

«Sì, ma non riesco a dormire. Comunque, mani a posto e fai silenzio».

   «Ok…»

Forse non sarebbe stato un grosso sforzo, abituarsi al suo carattere. La baciò sulla testa e le mise il braccio attorno alle spalle, stringendola a se.

   Ancora una volta il suo profumo gli riempì il naso. Improvvisamente, si ricordò qual era il fiore che aveva la stessa fragranza. Il Maestro l’aveva portato a casa dal viaggio nelle terre del sud insieme al caffè. A prima vista era abbastanza strano, un lungo e sottile arbusto tutto spine e senza foglie. Shayra l’aveva guardato un po’ diffidente, salvo poi ricredersi. Gli elfi, che ne sono i maggiori coltivatori ed estimatori, lo chiamano Schka Loo4 per la sua caratteristica: i fiori, grandi e bellissimi, sbocciano solo di notte riempiendo l’aria con il loro profumo, per poi appassire alle prime luci dell’alba. Per questo motivo é difficile vederli nel loro splendore, se non passando la notte svegli. Non era mai stato un nottambulo, quindi era riuscito a vederli solo un paio di volte. Una di queste era stata la volta in cui lui e il Maestro erano ritornati, a notte fonda, da una sessione di allenamento durante la quale erano rimasti bloccati per ore in una grotta, a causa di un improvviso e violento temporale estivo. Quando, finalmente, erano riusciti ad arrivare a casa, erano stati accolti da un profumo intenso e dolce. Tre fiori bianchissimi erano sbocciati dagli arbusti. Rimasero incantati a osservarli per qualche minuto, nonostante fossero esausti. C’era qualcosa di rilassante in quel profumo e in quel candore. Il mattino successivo rimasero entrambi molto delusi nel vedere che quelle meraviglie erano già appassite.

   « Schka Loo...» Mormorò Lind.

«Cosa?»

   « Il tuo profumo, mi ricorda i fiori di Schka Loo.»

«Sì, lo faccio io, la ricetta è di mia madre. L’ha lasciata per me a mio padre quando se n’è andata. Ti piace?»

   «Molto».

«Ne sono felice».

   Dopo pochi minuti, dormivano entrambi profondamente.

 

L’ultimo golem fronteggiava i due stregoni impugnando un’enorme scure, gli altri erano ridotti a dei mucchi di metallo fumanti, sparsi sul terreno. La figura alata si era limitata a osservare la battaglia dall’alto, senza mai intervenire. Le truppe della città si mantenevano a distanza, intimorite da quello che stava accadendo.

   «Se mi permette, questo lo sistemo io».

Il volto di Tatzel era ricoperto da squame grigie e lucide, come le mani che stringevano la spada, dalla quale continuava a uscire la bianca nebbia luminosa. Gli occhi, simili a quelli di un felino, emanavano un fioco bagliore rossastro, nell’oscurità della notte. Il sorriso di soddisfazione mostrava una fila di denti acuminati.

   «Fai pure».

Anche il volto del vecchio era ricoperto di squame, ma più piccole e con due colori diversi, come la pelle di un rettile. Gli occhi erano completamente neri e la voce aveva assunto un sibilo. Braccio destro e bastone erano legati assieme dalla coda del serpente, i cui occhi emettevano un bagliore azzurro, mentre la nebbia luminosa si espandeva nell’aria.

   Il golem si lanciò in avanti, brandendo l’enorme arma contro il giovane.

   «Avresti fatto meglio a restartene nel tuo corpo di carne!»

Lo stregone, senza muovere le gambe, compì un fendente circolare frontale da destra a sinistra, disegnano nel buio una mezzaluna bianca. La parte superiore del corpo del mostro cadde all’indietro, mentre la parte inferiore in avanti, la luce azzurra all’interno dell’armatura si spense all’istante. 

   «Troppo facile».

La figura alata cominciò a scendere verso terra, lentamente, con una traiettoria verticale. Appena toccò terra, le grandi ali con cui stava volando si ritrassero dietro la schiena e, contemporaneamente, una grande falce nera si generò dalla sua mano destra, come se la materia di cui erano fatte le ali si fosse tramutata nell’arma.

   «Siete forti, come immaginavo».

«E adesso tocca a te!»

   Il giovane stregone si scagliò di corsa verso il nemico, che rimaneva immobile.

  «Tatzel, no!»

Il maestro Anilion non fece a tempo a fermarlo.

   Un lampo squarciò la notte.

 

 

 

 

1 Echor : Mura che circondano. 

2 Irin-Fen: Città-porta. 

3 Ungwe Vinya: Popolo del buio.

4 Schka Loo: Regina della Notte   

  
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