A leaf is falling from home
Because he wants to be alone
Where he travels is unknown
Because his fall is yet unshown
His clinging brother does not
roam
He only watches freedom's poem
La
prima vita è credere in ciò che imparerai che non
è così.
E’
un viale alberato a senso unico, di prati nel cielo dalle ombre dorate.
Non vi
sono tante persone, ma camminano piano, e sono alte, di un alto che non
spaventa, ma protegge dalla pioggia.
E’
familiare, tanto che riconosci uno a uno le pietre del selciato.
E’ tanto
familiare che hai dato un nome a ogni grossa radice che spuntava dal
terreno, e
ti piaceva vederle e sapere che fossero lì, a trattenere
tutto, a fermare la
realtà.
Ti
sei accorto della scomparsa di alcune radici quando ormai non disegnavi
più da
tempo il sole rotondo in alto a destra sul foglio, e hai girato a
sinistra.
La
seconda vita è senza radici.
Ti
chiedi dove le abbiano portate, ti chiedi perché le abbiano
portate via. Non ha
senso, no? Un viale alberato senza radici, ma che idiozia.
Dove
le avete messe?
Tiratele
fuori.
Ormai
il vento soffia, è il tramonto, fa freddo, vi prego.
Tiratele
fuori.
Non
vedo più la strada, voglio tornare a casa, ma ora non so
dove andare.
Tiratele
fuori.
Ridatemele,
mi sono perso, ridatemele, sono mie.
La
terza vita vuole essere una montagna volante.
Per
non essere mangiata dal lupo, Cappuccetto Rosso dice di sapere la
strada anche
se non ha la minima idea di che sentiero debba prendere. Le sembrano
tutti
inghiottiti dal buio, alcuni pieni di spine, altri di nebbia; non vede
bene
cosa nascondano.
Ma
le hanno detto che se non prende nessuna strada è peggio: il
lupo è in agguato,
avvertirà la sua paura e la mangerà. Cappuccetto
Rosso deve prendere una
decisione, ma sembra che ogni scelta abbia dei risvolti spaventosi.
Mangiata
subito o dopo, Cappuccetto Rosso?
Se
proprio si deve essere mangiati, bisogna correre. Fa stancare il lupo,
e magari
riuscirai a correre abbastanza a lungo da diventare vecchia, e allora
il lupo
morirà anche lui o tu diventerai troppo secca per essere
mangiata.
Corri,
Cappuccetto Rosso.
E
allora corre, con lei, lui, chiunque perso nel bosco come lei che la
voglia
seguire. Altri hanno preso strade diverse; non fa niente: si rivedranno
fuori
dall’intrico di rami e ombre ingannevoli, o forse no
– chi può dirlo? Forse
anche il bosco mangia.
Cappuccetto
Rosso esce dal bosco, ma dopo tanto tempo.
Intorno
a lei non vede nessuno dei suoi vecchi compagni, limitandosi a
scorgerne
qualcuno in lontananza. Ha il cappuccio lacerato, sporco, scolorito, e
lo
sguardo a terra.
Dei
passi si avvicinano, e quei passi hanno delle mani, e quelle mani hanno
degli
occhi. Quegli occhi hanno l’impressione di riconoscere
Cappuccetto Rosso, e
quelle mani si avvicinano per scostarle il cappuccio, ma una volta
scostato il
cappuccio, quei passi non risuoneranno più. Quelle mani ora
giacciono riverse a
terra, la terra che quei piedi non calpesteranno più.
Vicino
alle scarpette graffiate e sciupate di Cappuccetto Rosso, un respiro si
è
fermato.
Cappuccetto
Rosso non c’è più, per uscire dal bosco
ho preso il suo posto.
Niente
più oro riflesso negli occhi, niente più radici
sul tuo liscio cammino, ora hai
attraversato un bosco da sola, ora sei convinta di non averne bisogno.
C’era
una volta Cappuccetto Rosso, viva felice e contenta Cappuccetto Rosso.
La
quarta vita è leggera leggera, che quasi non sai
cos’è, e il suo nome non
riesci nemmeno a pronunciarlo che in un soffio già sparisce.
E’
di passaggio, vola via in un istante, quasi fosse spinta da
un’urgenza a cui
non riesci a dare origine né nome.
Sono
esseri fantastici. Lo sono tutti, ognuno a modo loro, e tutti prima o
poi ti
lasciano. Ti prendono, scavano un solco da qualche parte – di
solito
preferiscono sistemarsi dietro le tue costole – e ci si
installano. Dovresti
pretendere l’affitto, da quanti ce ne sono, ma sei
così contento di averli
dentro di te. Movimentano un po’ tutto, capisci,
perché gli organi in fin dei
conti sono monotoni, rendono il corpo una casa utile e funzionale, ma
non è che
sia un capolavoro di interior design.
Come
le radici, capita che i tuoi piccoli inquilini se ne vadano. Ma non
è Michael Jackson
che lo dice, e nemmeno la voce dei Ramones. Non è come lo
cantano loro, non è
un cuore di vetro gettato dal quarto piano e scoppiato a contatto con
l’asfalto.
Per
inciso, i cuori non sono di vetro come hai sempre creduto. Se si
spezzano, sì,
è impossibile ricomporli esattamente com’erano,
perché qualche scheggia
mancherà sempre – oh, magari qualche frammento
è finito nel fegato, o un altro
più intraprendente sarà addirittura arrivato
nella caviglia – e c’è il caso che
questa implosione ti soffochi per un po’. Tagliente, il
vetro. Fastidioso
quando si conficca in posti indesiderati.
Ma
i cuori non sono di vetro, e non fanno dei frontali fatali.
Sono
elastici.
Credimi.
Il
male orrendo che sentivi alcune volte era solo lo schiocco di un
elastico che
si era teso troppo ed era tornato indietro. L’avrai fatto
anche tu da bambino,
no? Fa un po’ male, la frustata di un elastico teso sulla
pelle. Però, a meno
che non lo si torturi troppo, l’elastico resta lì.
Martoriato, ovvio. Stanco di
essere un gioco. Ma sopravvive e non si rompe.
E
questo l’hai capito le prime volte che ti sei rialzato e
dentro di te non
sentivi il tintinnio disordinato di schegge di vetro.
E
sono stati i piccoli esseri che ospitavi dentro di te a fartelo notare.
“Ma
qui è tutto a posto.”
“Ne
siete proprio sicuri?”
“Guarda,
caro, sarà anche il tuo corpo, ma noi ci stiamo dentro e lo
vediamo molto bene.
E’ tutto ok, e non ti preoccupare, il tuo è un
elastico bello resistente. Ci
potremmo anche andare in altalena.”
Non
si rompe, certo che no.
“Allora
funziona tutto?”
“Certo,
quante volte te lo dobbiamo dire?”
“Mi
spiace, è che credevo-“
“Lo
sappiamo cosa credevi. Possiamo restare qui a dargli
un’occhiata, se vuoi.
Possiamo restare per tutto il tempo che vuoi.”
“Non
saprei. Magari prendetevi una vacanza. Sì, andate
temporaneamente da qualche
altra parte, che io qua dentro faccio pulizia. In fondo ci state da un
sacco di
tempo e non vi ho mai visto con un piumino per la polvere in
mano.”
“Noi
la polvere la mettiamo sotto il tappeto.”
“Eh.
Appunto. Vedrò di sistemare tutto e poi vi
richiamerò.”
“No,
non richiamerai tutti noi.”
“Vedremo.”
Non
li hai richiamati tutti.
Hai
tenuto la minima parte di loro, quella più efficiente e
pulita. Insomma, il
corpo alla fine appartiene a te. E dopo tutti questi anni hai dei
criteri d’affitto.
Pochi,
ma buoni, e ti fidi di loro.
Facendo
le pulizie l’hai notato: erano quelli che ti hanno piantato
dei semi dentro e
non te ne sei accorto, perché l’hanno fatto mentre
tutti gli altri ti
distraevano con le loro luci e i colori e le loro feste allegre; erano
gli
inquilini più silenziosi e rispettosi, che si facevano largo
nel loro modo
dimesso ma a fronte alta. E i loro semi sono diventati piantine, e le
piantine
si sono trasformati nei tuoi alberi preferiti – assomigliano
tanto agli alberi
alti con l’ombra dorata, te li ricordi – e hanno
messo radici.
Oh,
come ti piacciono le radici.
“Voi
restate.”
Della
quinta vita non capisci un tubo.
Sai
che ci sei arrivato quando ti chiedi se il buco della ciambella sia
un’entità o
un vuoto, e poi ti dai dello stupido per essertelo domandato
perché tanto il
gusto della ciambella non cambia.
Eri
una misera fogliolina perduta a cui sono state strappate le radici,
catapultata
dal vento in un bosco buio dove chiamare casa era sentire una triste
eco senza
risposta, che sognava e sapeva dov’era l’infinito
perché l’ha ospitato per anni
dentro di sé.
Sei
partita dritta, e ora se ti guardi indietro vedi salite, discese,
curve, ponti,
bivi e sentieri.
Hai
perso la tua prospettiva sul mondo perché, come quello che
ha causato la
distruzione di Atlantide e lo spostamento dei poli, è caduto
un meteorite che
ti ha cambiato il cielo e non ti faceva più riconoscere le
tue stelle, ma ora
ti ci sei adattata, e ti piace vedere luce dove prima c’era
solo il velo
smerigliato della tua miopia.
Ti
piacciono le strade.
Ti
piace iniziarle, perché è ancora tutto da
scoprire, e a te piace scoprire
stelle nuove.
Ti
piace percorrerle e ripercorrerle, perché non sono mai le
stesse.
Ti
piace sostare in un posto riparato che ti protegge sia dal caldo che
dal
freddo.
Ti
piace quella strada perché è tua, e la puoi
descrivere in mille modi, ormai, e
non importa più che abbia radici, perché le
uniche radici che contano – ormai lo
sai – sono quelle che ti sono state impiantate dentro tempo
fa.
Le
radici invisibili non possono essere sradicate. Come la mettiamo ora,
eh, vento
assassino?
E
poi le strade sono vive.
Sì,
alcune volte è un po’ difficile conoscerle,
perché non hai mai visto una strada
come quella, la prima volta che ci passi. Magari sei cauto, non si sa
mai, può
darsi che dopo un bel ponte di legno intagliato a foglie di acanto ci
sia una
palude di sabbie mobili, chissà, tutto può essere
in strade nuove.
Ma
quando hai trovato una strada che ti piace, oh, ci staresti sempre.
Di
giorno, farfalle, bruchi nel prato. Di notte, melodia e parole, ma con
il
profumo di quel prato.
Una
volta, convogli di suono puro. Un’altra, uno specchio
d’acqua sconcertante.
Mai
uguale, mai diversa, ti porta via ma è sempre con te,
chissà come si fa a
fermarla, questa strada che ti porta al mare, chissà se
è fermarla che si deve.
Ogni
giorno percorri questa strada.
Ogni
giorno regali acqua ai suoi fiori per vederla viva e bella.
Ogni giorno ti dici che vorresti farlo anche domani.
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"Due giorni dopo, quando la donna slovena partì, Jasper Gwyn le lasciò una lista da lui compilata di tredici marche di whisky scozzese. –Cosa sono?-, chiese lei. –Bei nomi. Te li regalo."
Io so solo regalare parole.
Come Jasper Gwyn.