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Autore: Aurore    14/05/2014    1 recensioni
Sequel di Midnight star.
Dopo gli eventi e le rivelazioni che hanno scosso il suo piccolo mondo, la vita di Renesmee è tornata alla normalità: è sempre più felice con Alex e insieme a Jacob ha ritrovato l'affetto e la complicità del loro legame. Ma all'orizzonte si addensano nuove nubi: quando spaventosi incubi iniziano a tormentare le sue notti, Renesmee si trova costretta a scegliere tra perdere ciò che ama di più e tentare di salvarlo, e ad affrontare eventi imprevedibili che potrebbero cambiare ogni cosa.
Tutto finisce, nulla resta uguale, e a volte il destino impone scelte e cambiamenti dai quali non si torna indietro.
Tratto dal capitolo 7:
Il suo sguardo era stata la prima cosa che mi aveva colpita, di lui, nel giorno lontano in cui ci eravamo conosciuti. [...] Lo stesso sguardo che mi aveva osservata con tanta attenzione per catturare quello che c'era in me di più profondo mentre mi disegnava. Nessuno mi aveva mai guardata così. In quel disegno c'era qualcosa di bellissimo, potente e tremendo al tempo stesso. Qualcosa di ineluttabile, che ormai non poteva essere fermato.
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jacob Black, Nuovo personaggio, Renesmee Cullen, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Midnight star'
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C 10
Capitolo 10
Trouble

Oh no, I see
A spiderweb is tangled up with me
And I lost my head
And thought of all the stupid things I'd said
Oh no, what's this?
A spiderweb and I'm caught in the middle
So I turned to run
And thought of all the stupid things I'd done
And I never meant to cause your trouble
And I never meant to do you wrong
Ah, well if I ever caused you trouble
Oh no, I never meant to do you harm.
Trouble, Coldplay¹



Non sai mai quanto sei forte, finché essere forte è l’unica scelta che hai.
Chuck Palanhiuk


Chissà come, riuscii a resistere alla tentazione di chiamare Alex. Se una parte di me era preoccupata e addolorata e fremeva dal bisogno di accertarsi che stesse bene, l'altra si vergognava troppo per pensare di affrontarlo. Inutile dire che aveva vinto la seconda, almeno per il momento. Forse aveva bisogno di stare un po' da solo per digerire la cosa a modo suo. Dopotutto, gli avevo gettato addosso una bella rivelazione e quando era toccata a me una cosa del genere, la scorsa primavera, di certo non avevo bramato la compagnia delle persone coinvolte nella vicenda. Anzi, ero scappata il più lontano possibile. E comunque era venerdì e ci saremmo visti a scuola entro poche ore.
Quando entrai in cucina per fare colazione trovai i miei genitori ai fornelli. Colsi immediatamente le loro espressioni preoccupate ed ebbi la netta sensazione che avessero discusso di me fino ad un attimo prima.
«Buongiorno», esclamò la mamma.
«Ehi, piccola», disse papà quasi contemporaneamente.
«Giorno», borbottai, mentre lasciavo la borsa e la giacca su una sedia e mi versavo una tazza di caffè con i miei soliti due cucchiaini di zucchero; detestavo il caffè amaro.
Per un po' restammo in silenzio. Forse aspettavano che parlassi io per prima, ma quando fu chiaro che non avrei detto un bel niente la mamma si decise a prendere l'iniziativa.
«Renesmee», cominciò, sforzandosi di apparire tranquilla come per una normale chiacchierata tra madre e figlia, «che ne diresti se... Ti andrebbe di parlare di quello che è successo ieri sera?».
Sembrava che volesse blandire una bambina piccola per convincerla a prendere lo sciroppo per la tosse.
«No», risposi. Semplice e diretta. «Non mi va. E comunque sapete già tutto». Afferrai una fetta di pane tostato e le diedi svogliatamente un morso. Non avevo molta fame, ma era meglio mandare giù qualcosa.
La mamma si avvicinò a passi lenti, le braccia incrociate, la fronte corrugata. «Sì, lo sappiamo, però preferiremmo parlarne con te. Insomma, tu ed Alex avete...».
Istintivamente sussultai. «Mamma, non... non è successo niente», mi affrettai a specificare, arrossendo un po'. Mi girai verso la finestra per evitare il suo sguardo. Fuori cadeva una pioggerillina fitta e sottile e il cielo era color grigio chiaro con qualche striatura di bianco qua e là. La giornata standard di Forks.
«Lo so, ma...».
Sbuffai, poggiando la tazza vuota nel lavandino. «Sentite, possiamo rimandare a un altro momento, per favore? Faccio tardi a scuola».
Bella scosse leggermente la testa, con le labbra serrate e gli occhi socchiusi. Era meglio svignarsela il prima possibile, così afferrai in fretta la giacca e la borsa.
«A volte è assolutamente impossibile dialogare con te, lo sai, vero? Devo travestirmi da Jacob Black perchè tu mi stia a sentire?».
Mio malgrado scoppiai a ridere. «So cosa vorresti dirmi: sono un'adolescente insopportabile che non ascolta mai i suoi genitori e passa troppo tempo con quel licantropo... Lo so. Anche di questo possiamo parlare un'altra volta».
Le scoccai un bacio sulla guancia, incurante della sua espressione di rimprovero, superai papà che ridacchiava sotto i baffi e uscii velocemente di casa. Fu un sollievo entrare in macchina, la mia macchina. Era un regalo dei miei, una Mercedes Guardian che in passato era appartenuta alla mamma per un po' di tempo, prima della trasformazione in vampira. Era praticamente la macchina più sicura del mondo e dunque perfetta per la mamma quando era ancora umana. Ora che lei non aveva più bisogno di vetri antiproiettili, un sistema antincendio e una scorta di ossigeno in caso di attacco con i gas, la macchina a prova di bomba spettava al nuovo componente più fragile della famiglia e cioè a me. Non che mi dispiacesse, anzi. Tralasciando la soffocante iperprotettività della mia famiglia, era una gran bella macchina. Jas era quasi impazzita la prima volta che avevamo fatto un giro insieme e aveva riso da morire nel sentirmi elencare tutti i dispositivi di sicurezza installati sulla vettura. Il pensiero che io me ne andassi in giro in un'auto blindata per le strade di Forks, dove non si verificava una rapina da vent'anni o giù di lì, la divertiva immensamente.
Entrata nel parcheggio della scuola, dovetti ignorare gli sguardi di tutti puntati sulla mia macchina mentre cercavo un posto, fingendo di non accorgermene. Sembrava che ci fossero più auto del solito, quella mattina, e ci misi un bel po' di tempo. Quando riuscii a parcheggiare, con una certa cautela dal momento che il parcheggio non era il mio forte, tirai un sospiro di sollievo. Poi scesi dalla macchina per mescolarmi alla folla che si aggirava nel parcheggio in attesa dell'inizio delle lezioni e dimenticai tutto il resto, concentrata unicamente su Alex. Non sapevo se augurarmi di incontrarlo oppure no.
Tra una lezione e l'altra trascorse l'intera mattina senza che lo vedessi da nessuna parte. In una scuola così piccola come la Forks High non era raro che ci incontrassimo casualmente nei corridoi, ma quel giorno non accadde neanche una volta ed io non sapevo se considerarlo un caso o il frutto di accurate manovre da parte di Alex. Forse mi evitava.
Più il tempo passava, più diventavo ansiosa e inquieta; temevo la sua reazione, ma non sapere nulla di come stava affrontando la cosa era molto peggio.
Continuavo a sentire le sue parole nella testa, come una registrazione incisa a fuoco nella mia memoria.
Cosa vuoi che ti dica? 
In questo momento non riesco neanche a guardarti, come pretendi che possa parlare con te?

Ripensare alla sua espressione gelida mi feriva come se lui fosse sempre davanti a me. Forse avevo sbagliato tutto. Se questa decisione mi faceva stare così male, come poteva essere quella giusta? Ero riuscita a mentire abbastanza bene da ingannarlo e adesso probabilmente mi detestava. Lo conoscevo abbastanza da immaginare senza difficoltà quali potessero essere i suoi sentimenti nei miei confronti, al momento. Non era una persona che perdonava con facilità, era stato lui stesso a dirmelo, una volta. Sapevo quanto odiasse gli inganni e le bugie, lui che fin dal nostro primo incontro mi aveva sempre detto tutto, di se stesso, della sua storia. Lui che era sempre stato schietto e sincero, dicendomi quello che pensava di me, di noi, del nostro rapporto, senza maschere nè finzioni. Ricordavo le poche volte in cui avevo osato accennargli qualcosa dei miei problemi, la primavera precedente, e ricordavo come mi avesse sempre parlato con franchezza, senza indorare mai la pillola, nemmeno quando pensava che stessi sbagliando tutto.
Mi aveva confessato di essersi aperto con me come non faceva con nessun altro da tanto tempo e io lo avevo ferito senza esitare. Solo a pensarci mi si rivoltava lo stomaco per la nausea. Eppure, era accaduto proprio quello che avevo desiderato, forse inconsciamente: che ci allontanassimo
. Perchè non vedevo altro modo per proteggerlo. I miei incubi e la situazione di Jas mi avevano fatto pensare a quanto fosse pericoloso per lui stare con me e a volte mi sembrava di non poter più convivere con questa paura. A volte mi sembrava di impazzire. Forse per Jas era troppo tardi. Un giorno avrebbe scoperto tutto e sarebbe entrata nel mio folle mondo. Io avrei lottato fino all'ultimo secondo per impedire che accadesse, ma dentro di me sapevo di essere già stata sconfitta. Nessuno avrebbe mai potuto vincere con l'imprinting.
Ma Alex... Lui poteva ancora uscirne. Poteva ancora allontanarsi da me e vivere una vita normale, al sicuro, ed io sentivo di doverci provare. Non gli avrei voluto bene davvero se non avessi fatto un tentativo, anche se questo significava farlo soffrire un po'.
Quando suonò la campanella del pranzo ero piuttosto tesa. Il giorno prima avevamo stabilito di mangiare insieme e anche se forse lui non aveva voglia di sedere allo stesso tavolo con me, adesso, doveva pur pranzare. Fui molto sorpresa quando percorsi la mensa con lo sguardo, cercandolo al solito tavolo che occupava con i suoi amici, senza riuscire a individuarlo. Non c'era.
«Torno subito», dissi a Jas, che era seduta accanto a me, e mi diressi con passo veloce in direzione del suo gruppo di compagni di classe.
«Ehi, Renesmee», mi salutò Robbie Cavanough quando fui abbastanza vicina. «Come va?».
«Ciao», esclamai, cercando di apparire tranquilla. «Tutto bene. Ehm... Sapete dov'è Alex?».
Robbie aggrottò leggermente la fronte pallida. Era carino, con i capelli neri che ricadevano in ciuffi ordinati e gli occhi verdi, ed era un bravo ragazzo.
«No, non è venuto a scuola, credo. Avevamo insieme matematica e geografia, oggi, ma non l'ho visto».
Restai spiazzata, anche se un secondo dopo mi stavo dicendo che avrei dovuto pensarci. Che stupida.
«Ah. Ne sei... sicuro?».
«Credo di sì. Aspetta un attimo... Josh? Ehi, Josh!».
Josh Hamilton, seduto poco più in là, distolse la sua attenzione dal pranzo con scarso entusiasmo e si voltò. «Che c'è?».
«Hai visto Alex, oggi?».
A quel punto ci stavano ascoltando tutti, compresa Karen Wilson, una delle tante ragazze (troppe, secondo me) che guardavano Alex e si interessavano a lui ben più di quanto fosse lecito. Fantastico.
Josh scosse la testa. «No. Non è venuto».
Robbie si girò di nuovo verso di me. Mi lasciai sfuggire un sospiro lieve.
«Okay, grazie, ragazzi. Ci vediamo».
Robbie sorrise gentilmente. «Ciao».
Invece di tornare al mio tavolo, attraversai la mensa camminando a passo sostenuto e uscii sotto il portico. Faceva freddo e dovetti infilarmi il giubbotto mentre prendevo il cellulare dalla tasca. Cercai il nome di Alex nella rubrica e premetti il tasto di chiamata. Non potevo più rimandare, dovevo almeno accertarmi che fosse tutto okay. La sera prima, dopo la mia geniale rivelazione, mi era sembrato sconvolto e sapevo che quando Alex era sconvolto tendeva a perdere il controllo di sè. Dopo il settimo squillo la comunicazione cadde. Sbuffando, riprovai subito e ancora ascoltai a lungo il suo cellulare squillare a vuoto.
Be', non era il caso di preoccuparsi troppo, pensai, infilando di nuovo il cellulare in tasca e rientrando nella mensa. Forse stava poco bene. O forse era troppo arrabbiato per correre il rischio di incontrarmi a scuola. Potevo capirlo. Probabilmente se ne stava a casa, nella sua stanza, e passava il tempo usando una mia foto come bersaglio per le freccette. Meglio lasciargli un po' di tempo per sbollire, e dopo, forse... forse avrei trovato una soluzione.
«Tutto bene, Renesmee?», domandò Jas, interrompendo di colpo la sua converdazione con Tom, quando raggiunsi il tavolo e mi sedetti.
Le rivolsi un piccolo sorriso. «Sì... tutto bene».
Lei annuì, sebbene sembrasse un po' incerta, ma non aggiunse altro. Si girò di nuovo verso Tom. «Scusami, cosa stavi dicendo?».
Lui si mosse sulla sedia con aria irritata, poi afferrò di scatto la sua lattina di Coca e la aprì fin troppo energicamente. «Niente. Niente di importante», borbottò in tono risentito.
Jas parve un po' spiazzata da quella reazione. Abbassò lo sguardo sul piatto, in silenzio, un'espressione tirata in viso. Non si rivolsero la parola per il resto del pranzo.



****



Quella settimana la solita cena dai nonni era stata spostata alla domenica perchè Charlie e Sue erano a letto con una brutta influenza. Dopo la scuola non tornai subito a casa e insieme ad Holly accompagnai Jas a Port Angeles per fare shopping. Jas comprò due paia di scarpe nuove e una borsetta, mentre Holly provò mucchi di vestiti e solo a prezzo di grandi sforzi riuscimmo a convincerla a non acquistarli tutti o quella sera ci sarebbe stata una bufera in casa Matthews.
Passeggiamo sul lungomare e ci fermammo in un grazioso ristorantino per mangiare qualcosa. Fu un bel pomeriggio e ogni tanto mi distraevo a sufficienza da non pensare ad Alex; per un paio di minuti, mentre ero presa dalle chiacchiere con le mie amiche, quasi dimenticavo del tutto i miei problemi, ma poi mi tornavano in mente di colpo, all'improvviso, accompagnati da una sgradevole sensazione simile ad un pugno nello stomaco, e subito afferravo il cellulare.
Lui non provò a chiamarmi neanche una volta.
Mi sforzai così tanto di fingermi allegra e spensierata con Holly e Jas che quando arrivai a casa, a sera inoltrata, ero esausta. Lasciai la macchina in garage e mi diressi a piedi verso il cottage, stringendo il telefono in una mano. Aprii la porta di casa e scorsi papà seduto sul divano intento a leggere un libro. Appena mi vide, lo chiuse e lo mise sul tavolo. La mamma apparve sulla soglia della cucina, un sorriso cauto sul volto perfetto.
«Ciao», esclamò. «Com'è andata? Ti sei divertita?».
«Sì», risposi, sbrigativa. «Per caso ha...».
Papà parlò prima che terminassi la frase. «Non ha chiamato nessuno», disse a mezza voce. Abbassai lo sguardo senza riuscire a nascondere la delusione. «Renesmee... non preoccuparti», aggiunse dopo una pausa. «Vedrai che ti chiamerà. Prima o poi la rabbia iniziale gli passerà e avrà voglia di parlarti. Dagli tempo».
La sua voce era dolce e carezzevole, ma non aveva il potere di consolarmi, questa volta. Impaziente di restare sola, feci per uscire dalla stanza.
«Aspetta», intervenne la mamma, avanzando verso di me. Mi osservava ansiosamente e non potei fare a meno di sentirmi un po' in colpa per come mi stavo comportando. «Avevi promesso che stasera avremmo parlato».
Accidenti. Perchè cavolo l'avevo detto?
«C'è una sola persona con cui voglio parlare, adesso».
Mi affrettai ad uscire prima che potesse dire altro e mi chiusi in camera mia. Mi liberai della giacca, lasciai cadere la borsa sul pavimento di legno chiaro e composi il numero di Alex. Ancora una volta non ricevetti nessuna risposta. Chiusi la telefonata e provai con il numero di casa sua. Mentre ascoltavo gli squilli uno dopo l'altro, fissavo il buio oltre i vetri della finestra avvertendo un senso crescente di oppressione al petto. Chiusi la comunicazione, avvilita. Alex non mi avrebbe risposto. Crollai a sedere sul letto e incrociai le braccia, stringendo con forza, come per mantenermi tutta intera. Avevo ottenuto esattamente ciò che desideravo: Alex mi odiava.



****



Quando suonò la sveglia, il mattino dopo, me ne stavo giù da un po' sdraiata tra le coperte ad occhi spalancati, perfettamente cosciente. Bloccai la sveglia con un gesto automatico, sebbene non ci fosse affatto il pericolo di buttare i miei genitori giù dal letto, afferrai il cellulare dal comodino e riprovai a chiamare Alex.
Non ero troppo preoccupata dal pensiero di svegliarlo. Alzarsi presto non gli dispiaceva, al contrario di me. A volte si svegliava apposta quando era ancora quasi buio per godersi il sorgere del sole. Era il momento che preferiva di tutta la giornata. Diceva che ogni cosa sembrava diversa, più bella, più luminosa. E anche lui si sentiva diverso. Una volta mi sarebbe piaciuto svegliarmi all'alba insieme a lui, osservare il mondo tornare lentamente alla vita e leggere sul suo volto il cambiamento di cui parlava. Probabilmente non sarebbe mai accaduto.
Dopo il decimo squillo a vuoto, chiusi la chiamata, gettai con rabbia il cellulare sul letto e mi alzai. In teoria avevo un mucchio di compiti da fare, nella pratica non combinai quasi nulla. Passai la giornata gironzolando per casa, evitando i miei genitori e i loro sguardi preoccupati. Non facevano più domande, ma la loro presenza, sapere che pensavano a me e forse ne parlavano bisbigliando tra loro, bastava a mettermi a disagio. Dopo pranzo uscirono per andare a caccia e finalmente mi sentii più sollevata. Avevo soltanto voglia di starmene da sola e rimuginare tranquillamente, sebbene fossi consapevole che non sarebbe servito a nulla.
I miei erano usciti da poco quando telefonò Jacob per fare due chiacchiere e quasi rischiai un infarto, credendo che si trattasse di Alex. Rimasi al telefono pochi minuti, parlando del più e del meno, non accennai alle ultime novità e respinsi la sua proposta di incontrarci nel pomeriggio con la scusa dei compiti. Ero decisa a non fare mai più il nome di Alex con Jacob e viceversa, se fosse stato possibile. Ero stufa marcia di tutte quelle complicazioni, non ne volevo altre. Se davvero Jake era geloso del mio ragazzo, raccontargli che Alex aveva provato a fare sesso con me e mi aveva detto di amarmi, mentre io lo avevo allontanato con una bugia colossale, sarebbe stato orrendamente difficile e imbarazzante e non sarebbe servito a risolvere le cose. In passato confidarmi con Jacob mi aveva sempre fatto sentire meglio, ma negli ultimi tempi la situazione era cambiata. Avevo scoperto che non potevo parlargli di tutto, non più, e quel pensiero faceva male al cuore come una coltellata.
Che cosa significa? Cosa stava succedendo? Rischiavo di perderlo? Era come se in un quadro che osservavo da tutta la vita, le linee, le forme, i colori avessero iniziato a muoversi e a mutare sotto i miei occhi, trasformandosi in qualcosa di completamente diverso. Qualcosa di sconosciuto. Il mio Jacob stava cambiando? Oppure stavo cambiando io? Che confusione.
Dopo averlo salutato, per un po' camminai per le stanze, senza meta, agitata e nervosa, sentendo ancora nella testa la voce di Jake che mi parlava al telefono. Entrai nella camera di Edward e Bella, silenziosa, ordinata e fredda. Sul comodino della mamma, accanto al letto, c'era la sua copia un po' sgualcita di Anna Karenina, su quello di papà un libro di poesie in spagnolo di un autore che non conoscevo con un segnalibro tra le pagine. Mio padre era sempre in cerca di qualcosa di nuovo da leggere e non era affatto semplice: in più di cento anni probabilmente aveva letto gran parte della letteratura mondiale; per giunta, la sua memoria perfetta rendeva inutile una rilettura, anche a distanza di molti anni. Spesso finiva con il buttarsi su libri e autori a me completamente sconosciuti. Sapevo che tra qualche decennio, forse, mi sarei trovata nella sua stessa sensazione, ma stranamente quel pensiero mi metteva tristezza e lo allontanai in fretta.
Mi lasciai cadere sul letto freddo con un sospiro e affondai il viso nella morbida trapunta bianca, come se avessi potuto sprofondarci dentro.
Da qualche tempo avevo iniziato a chiedermi se a un certo punto l'imprinting potesse smettere di funzionare a dovere. Incepparsi. Che diavolo stava succedendo tra me e Jacob? E se l'avessi perso davvero? E se ci fossimo allontanati? Poteva accadere? Afferrai un lembo del copriletto e senza farci caso lo strinsi forte tra le dita. No, non era possibile. Stavo già perdendo Alex, forse un giorno anche Jas si sarebbe allontanata da me, non potevo perdere perdere anche il mio Jacob.
Alex
, pensai con un sussulto. Per qualche minuto avevo smesso di pensare a lui, ma non appena mi tornò in mente tutta la mia preoccupazione riemerse di botto. Automaticamente presi di nuovo il cellulare dalla tasca, sebbene con scarse speranze, e provai ancora una volta. Volevo solo accertarmi che stesse bene e non facesse stupidaggini. Ma dopo il decimo squillo a vuoto, all'improvviso mi sentii invadere da un'ondata di rabbia calda e bruciante. Niente, di nuovo. L'ennesimo tentativo a vuoto. Ma perchè faceva così? Stupido ragazzino viziato ed egoista.
Chiusi la comunicazione e scattai in piedi così velocemente che per poco non persi l'equilibrio. Era il momento di fare qualcosa. Presi la giacca e le chiavi della macchina e uscii dal cottage. Camminando a passo di marcia raggiunsi la casa dei nonni. Mi infilai nel garage facendo meno rumore possibile e montai sulla mia Mercedes. Non avevo alcuna possibilità di passare inosservata, anche il mio respiro e il mio passo leggero erano perfettamente udibili, ma speravo che i miei familiari mi lasciassero in pace. Per fortuna riuscii a sgusciare via prima che un paio di occhi color ambra spuntasse da qualche parte, sentendomi una specie di fuggitiva, come quella volta che io ed Alex avevamo saltato la scuola insieme.
Per un po' lottai con me stessa, cercando di soffocare i ricordi di quella giornata così bella e così lontana che affioravano in superficie. Ricordare faceva male, ma era uno strano tipo di dolore. Era quasi piacevole. In fondo, niente che fosse legato ad Alex e alla nostra storia avrebbe mai potuto causarmi una vera sofferenza, mai. La spiaggia di La Push, il profumo dell'oceano, il suono della sua risata, i suoi capelli scompigliati dal vento, l'intensità del suo sguardo su di me, il nostro primo bacio... il mio primo bacio... Deglutii più volte, con decisione, per ricacciare indietro le lacrime e premetti sull'acceleratore, senza esagerare, ma volevo arrivare presto e farla finita. Volevo che Alex mi guardasse in faccia e mi dicesse che non poteva più stare con me, così mi sarei messa l'anima in pace. Mi sarei rassegnata. Lui sarebbe stato finalmente al sicuro, e io... io?
Ero arrivata. Frenai di botto e parcheggiai alla meglio sul ciglio della strada, gettando di continuo occhiate ansiose alla villetta bianca. Saltai giù e ricordai appena in tempo di chiudere la macchina. Il cancello era chiuso. Andai al citofono con passo deciso e suonai. Una volta. Due volte. Tre volte. Niente, nessuna risposta. Digrignai i denti e quasi pestai i piedi, furibonda. Ma che razza di idiota! Pensava forse che quel silenzio ostinato fosse la soluzione, davvero? Be', io no.
Mi guardai intorno: la strada era deserta, neanche un'auto di passaggio o l'ombra di un vicino di casa. Fu un attimo: mi attaccai saldamente alle sbarre del cancello, eleganti ghirigori di ferro battuto che potevo attribuire con certezza al buon gusto della zia di Alex, e scavalcai senza difficoltà. A mali estremi, estremi rimedi, pensai mentre atterravo sul viale, dall'altra parte del cancello, silenziosa come un gatto. Notai subito che l'Audi nera di Alex non era parcheggiata davanti alla casa, ma forse era in garage. Era come se avessi inserito il pilota automatico e senza esitare raggiunsi la porta e bussai con forza.
«Alex!», sbottai, esasperata. «Alex, maledizione, apri! Devo parlarti! Non puoi fare così, non puoi chiudermi fuori dalla tua vita da un giorno all'altro come se tra noi non ci fosse stato niente, non è giusto! Apri questa dannata porta e dimmi che non vuoi più vedermi, ma almeno guardami in faccia mentre lo fai!».
Dovetti interrompere la mia tirata per prendere fiato e attesi, certa di vedere la porta aprirsi da un momento all'altro e di incontrare i suoi occhi azzurro scuro, carichi di rabbia, sconcerto o indignazione. Non accadde nulla. Dall'interno non proveniva alcun rumore, come se la casa fosse vuota.
«Alex?», chiamai ancora una volta, in tono dubbioso.
Augurandomi di non spaventare nessuno nel caso fossi stata vista aggirarmi in giardino con aria furtiva, feci lentamente il giro della casa e andai sul retro. Le porte-finestre del salotto erano chiuse, le tende tirate; anche la finestra della stanza di Alex e quella della stanza di Phoebe, che affacciavano sul retro, sembravano chiuse. Forse davvero non c'era nessuno. Sapevo che Julie e Phoebe erano a Vancouver, ma Alex? Dove accidenti era finito?
A testa china, divorata dall'ansia e immersa in cupe riflessioni, riattraversai il giardino, scavalcai il cancello e tornai alla macchina. Per tutto il tragitto guidai automaticamente, senza fare caso alla strada che conoscevo a memoria. Ero troppo distratta e preoccupata. Forse era il caso di parlare con qualcuno. Dovevo chiamare Julie e avvertirla che Alex non era venuto a scuola e sembrava introvabile? Sapevo che si sarebbe preoccupata a morte, visto il passato turbolento di Alex, ma forse lei sarebbe riuscita a rintracciarlo e almeno mi sarei tranquillizzata un po'. Però... lui se la sarebbe presa da morire se avessi fatto una cosa del genere e già mi odiava abbastanza. Avere il fiato di Julie sul collo lo faceva impazzire.
Chissà se i miei erano già tornati dalla caccia. Prima di fare qualunque cosa, volevo parlarne con loro.
Quando arrivai a casa stava facendo buio. L'intera giornata era trascorsa quasi senza che me ne accorgessi. Parcheggiai la Mercedes in garage in tutta fretta, entrai in casa e salii di sopra a rotta di collo. Emmett e Jasper erano seduti davanti alla tv, impegnati a seguire una partita di baseball. In cucina, Carlisle, Esme e Rosalie chiacchieravano con voci allegre, ma quando entrai mi guardarono in viso e smisero subito.
«Ciao», salutai frettolosamente, il fiato corto e il viso accaldato. «Mamma e papà sono qui?».
«No, tesoro», rispose Carlisle, affabile. «Ho appena parlato con tuo padre al cellulare, stanno rientrando ma ci vorrà un po' prima che arrivino. Oggi si sono spinti più lontano del solito».
«Ah», mormorai, abbassando lo sguardo.
Accidenti. Niente andava per il verso giusto, quel giorno. La delusione mi si leggeva in faccia, probabilmente, perchè zia Rosalie intervenne con tono preoccupato.
«Se vuoi parlargli possiamo richiamarlo».
Scossi il capo, senza guardarla. Non volevo che notasse i miei occhi umidi. Avrei voluto allontanarmi, ma stranamente non ci riuscivo; era come se qualcosa mi paralizzasse, bloccandomi lì dove mi trovavo. Emmett e Jasper avevano abbassato il volume della tv e ci stavano fissando.
«Va tutto bene, Renesmee?», indagò il nonno. La sua voce era gentile e affettuosa, ma invece di consolarmi sembrò accentuare il nodo che mi chiudeva la gola e quasi mi soffocava. «È successo qualcosa?».
Presi fiato per parlare. «No», sussurrai, e un attimo dopo scoppiai in lacrime.
Incapace di trattenermi o frenare il pianto, mi coprii il viso in fiamme con le mani e corsi di sopra, rifugiandomi nella vecchia stanza di papà e chiudendomi la porta alle spalle con un tonfo. Mi lasciai cadere sul letto, mi rannicchiai tra i cuscini grandi, morbidi e confortevoli, e singhiozzai disperatamente, incurante del fatto che gli altri erano al piano di sotto e stavano sentendo tutto. Avrei preferito essere al cottage, da sola, per sfogarmi in pace e in solitudine, ma quella stanza era il posto più vicino dove potermi rifugiare al momento.
Ero lì da dieci minuti circa e avevo iniziato a calmarmi un po', quando sentii bussare delicatamente. Prima che io dicessi qualcosa, la porta si era già aperta. Sapevo benissimo chi fosse senza il bisogno di guardare, così non sollevai neanche la testa. Ci fu un rumore di passi leggeri sul pavimento, un lieve ticchettio di scarpe alte ed eleganti.
«Renesmee? Tesoro, che cos'hai?», domandò zia Rose, la voce bassa e ansiosa. «Cos'è successo?».
Per un attimo rimasi ferma con il volto seppellito tra i cuscini. Poi, con un sospiro pesante, mi tirai su e mi misi a sedere, asciugandomi le guance bagnate con la mano e cercando di ricompormi. Basta piangere, pensai, decisa. Era una reazione infantile e umiliante; quando ero arrabbiata non riuscivo a trattenere le lacrime e in quel momento non avrei saputo dire se ce l'avessi più con Alex, con Jacob, con Seth e il suo dannato imprinting o con il mondo intero... o con me stessa, forse.
«Di tutto», sbottai con voce tremante, e il racconto degli ultimi eventi sgorgò tra le mie labbra veloce e inarrestabile come un fiume in piena che finalmente straripava. Cominciai dal bacio con Nahuel e finii con la casa vuota degli Hayden.
Rosalie, seduta sul letto davanti a me, mi ascoltava attentamente, un'espressione neutra e impassibile sul volto, ma ogni tanto inarcava appena le sopracciglia sottili ed io intuivo che si stava chiedendo come diavolo avesse fatto la sua nipotina timida, tranquilla e imbranata con i ragazzi a cacciarsi in un simile guaio. Giunta al termine della storia, ero senza fiato per l'agitazione.
«E così Alex è praticamente scomparso! Non lo vedo e non lo sento da due giorni e non voglio che faccia qualche sciocchezza! Lui... non riesce a ragionare quando è arrabbiato, perde il controllo... ho paura», esclamai di getto, affannata.
Lei mi fissò in silenzio ancora per un attimo, poi mi afferrò le mani e le strinse; la sua presa salda e fredda ebbe l'impensabile effetto di schiarirmi un po' la mente. Quando parlò, lo fece con calma e padronanza di sè.
«Capisco che tu sia preoccupata, ma era prevedibile che reagisse così, non trovi? Gli hai detto di aver baciato un altro ragazzo e di pensare a lui: cosa ti aspettavi che facesse?».
«Io... non lo so! Voglio dire, sapevo che se la sarebbe presa ed era quello che volevo, ma non immaginavo che facesse questo. Vorrei soltanto sapere se sta bene, nient'altro», mormorai, angosciata, chiudendo gli occhi per un secondo.
«Ma tu davvero pensi ancora a Nahuel?», domandò la zia all'improvviso.
Sorpresa, scossi la testa. «No. Non nel senso che ho fatto credere ad Alex. Ammetto che lui mi aveva colpita e che desideravo conoscerlo meglio, ma credo sia accaduto per lo stesso motivo per cui anche Nahuel è rimasto colpito da me e ha provato a... insomma, ha fatto quello che ha fatto», conclusi, imbarazzata, abbassando lo sguardo.
«Perchè voi due siete simili», rispose Rose dolcemente.
Dentro di me, sorrisi. Aveva capito.
«Esatto. Noi... ci siamo riconosciuti per caso nel mezzo della folla ed è stato incredibile... Penso che ci saremmo riconosciuti ovunque.
È stato bello parlare con qualcuno che capisse certe cose, che capisse la sensazione di trovarsi sempre a metà strada tra le due estremità di una linea e non avvicinarsi mai davvero a nessuna delle due». Ripensare alle nostre chiacchierate mi fece affiorare un piccolo sorriso spontaneo sul volto congestionato. «Ma non c'è stato nient'altro. Quello che ho detto ad Alex era una bugia. Ho dovuto mentirgli».
«Perchè? Forse perchè lui voleva... andare troppo in fretta?».
«No, non è per questo». Scossi la testa con vigore, cercando di mettere in ordine le idee e parlare con chiarezza. Avvertivo una tale confusione dentro di me che dubitavo di riuscire a spiegarmi. «Ormai sono settimane che mi chiedo se non dovrei lasciarlo o trovare il modo di allontanarlo per il suo bene. Poi, l'altra sera, è stato come se le cose facessero all'improvviso un balzo in avanti». Abbassai lo sguardo sul copriletto per non doverla fissare; quel discorso era un po' imbarazzante, ma cercai di scacciare quella sensazione infantile. «Quando lui ha provato a... fare l'amore con me, ha detto di amarmi ed io... mi sono resa conto che sarebbe stato incredibilmente semplice dirgli di sì e andare fino in fondo». Tacqui per un attimo, serrando le labbra, riflettendo. «Io volevo farlo. O almeno credo. Quello che provo per Alex... non so se sia amore, non lo so, ma so che in quel momento stavo bene, lì con lui».
«Allora perchè ti sei fermata?». Zia Rose non mi staccava gli occhi penetranti di dosso nè batteva ciglio.
«È successo tutto molto in fretta», proseguii, piano, lo sguardo sempre basso. «Ho avuto paura. Mi serviva un po' di tempo per pensare prima di... Così l'ho fermato. Poi Alex ha detto di amarmi e io ho capito che era sincero. Diceva sul serio. Facevamo sul serio tutti e due. E ho capito anche che non potevamo continuare». La voce mi si ruppe all'improvviso e mi morsi il labbro, prendendomi una pausa per recuperare il controllo. «Non posso permettergli di amarmi. Non posso lasciare che la nostra storia diventi così importante o non riuscirò più ad allontanarlo, capisci? Più andiamo avanti, più tempo passiamo insieme, più diventa difficile. E lasciarlo andare è l'unica cosa che posso fare per proteggerlo dai pericoli del mio mondo. Forse... forse ho sbagliato tutto fin dall'inizio. Non avrei mai dovuto permettere che si avvicinasse tanto a me, che si innamorasse di me. Una storia con un umano... ma che cosa credevo?». Abbassai le palpebre sugli occhi nuovamente gonfi di lacrime e le sentii scivolare lungo le guance. Faceva male, accidenti, un male dannato. Ora sapevo cosa significasse avere il cuore spezzato. «Di ripetere la storia dei miei genitori? Il loro sarà anche stato un grande amore, ma mia madre è morta ed è diventata un vampiro... Una cosa simile non dovrebbe mai accadere. Non esiste nessun amore che valga tante sofferenze. Alex è vivo e sta bene e niente, niente conta più di questo. Forse oggi sta male, ma domani mi avrà dimenticata e sarà andato avanti. E avrà un futuro, quello che non esiste per noi due. Non sa neanche che cosa sono veramente, non ho fatto altro che raccontargli bugie da quando ci conosciamo.
Quanto tempo pensi che ci vorrà prima che lui si renda conto che in me c'è qualcosa che non va, che un giorno non invecchierò più, tanto per cominciare? Quanto può durare questa farsa? Prima o poi dovremo separarci comunque e se aspetto che il nostro legame diventi sempre più forte sarà soltanto peggio, soffrirà molto più di quanto possa soffrire adesso.
È per questo che devo lasciarlo andare, zia Rose». Non riuscivo più a parlare. Scossi il capo quasi senza accorgermene, come se avessi desiderato allontanare così quei pensieri, e mi coprii il viso con una mano, sforzandomi di frenare il pianto. Era dura pronunciare quelle parole a voce alta e sentire quanto fossero vere. «Se tengo davvero a lui, devo lasciarlo andare prima che sia tardi», sussurrai con voce rotta.
Mi sentivo soffocare e non riuscii a pronunciare un'altra parola. Rosalie tese le braccia ed io mi strinsi a lei, disperatamente triste e al tempo stesso grata di averla con me in quel momento.



****



Fui svegliata da un brontolio basso e insistente, qualcosa che sentivo muoversi a intervalli regolari sul letto, accanto a me. Ancora ad occhi chiusi, mi ci volle qualche secondo per rendermi conto che era giorno e che dovevo essermi addormentata lì, nella vecchia stanza di papà, avvolta nella coperta color oro intenso. Avevo un gran mal di testa e un dolore sordo allo stomaco che non riceveva cibo dal giorno precedente.
Il brontolio continuava. Cos'era? Ah, sì, il cellulare, nella tasca dei jeans. Probabilmente i miei genitori sapevano che mi ero addormentata lì, quindi doveva essere Jacob che si chiedeva dove fossi finita. Senza grande entusiasmo, mi girai sulla schiena mentre tiravo fuori il cellulare e risposi senza neanche guardare il display.
«Pronto?».
«Renesmee, sono io».
Mi catapultai letteralmente giù dal letto, ad una velocità tale che mi girò la testa. Per un attimo pensai che fosse un sogno.
«Alex», sussurrai, incredula.
«
È presto, lo so. Ti ho svegliata?», aggiunse. Sembrava calmo, controllato e freddo. Non gelido come l'ultima volta che ci eravamo parlati, ma ancora freddo e distante.
«N-no», balbettai, cercando di schiarirmi le idee. Sembrava proprio che fosse tutto vero. «Non ha importanza. Dove sei? Stai bene? Sono due giorni che ti cerco».
Dall'altra parte ci fu silenzio per un istante. «Lo so. Ho visto le tue telefonate. Scusa se non ho risposto, io... avevo bisogno di pensare. E poi... si è scaricato il cellulare, credevo di aver lasciato il carica batteria a casa e invece era nel cruscotto della macchina».
Dovetti concentrarmi per cogliere il senso delle sue parole. Il mal di testa non smetteva di pulsare.
«Si può sapere dove eri finito?», sibilai, senza riuscire ad avere un tono meno arrabbiato.
«A James Bay, vicino Victoria».
Per poco non mi cadde il cellulare di mano. «Victoria? In Canada?». Per un attimo pensai che scherzasse, come al solito. «Ma... Cosa... Come... Perchè? Cosa sei andato a fare in Canada?».
«Non è il caso di parlarne adesso», rispose in tono secco. «Sono al volante, sto tornando a Forks. Potremmo vederci domani a scuola. Ti va?».
«A scuola? Perchè, ci vieni?».
«Sì, verrò».
Stavo per chiedergli come pensasse di riuscirci dal momento che stava tornando dal Canada e che ci avrebbe messo quasi tutta la giornata, poi mi tornò in mente la sua guida da pazzo e cambiai idea.
«D'accordo».
«Dopo pranzo? Nel laboratorio di chimica?».
«Okay», risposi con un sospiro. Voleva parlarmi, voleva parlarmi davvero. Una parte di me era sollevata, l'altra spaventata a morte. Quale era il suo umore? Cosa stava pensando? Non era sereno, ma non sembrava più arrabbiato come giovedì sera. «Allora...», aggiunsi, senza sapere esattamente cosa stessi per dire, ma Alex mi risparmiò la fatica di pensarci.
«Ciao, Renesmee», mi salutò sempre con quel tono sostenuto, e chiuse la telefonata senza aspettare che gli rispondessi.







Note.
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