Per
ricominciare
Stavolta sono stata lunga, prolissa e assolutamente
inscusabile per il mio essere logorroica.
Che posso dire? Si parte per Firenze °v°/ E francamente ne sono pure felice, visto che è lì che inizieranno tutti i casini *ammicca
La pace è bella finché dura poco, no? Mi suonava diverso, ma fa nulla.
Fuggo.
Un bacio,
Lechatvert
Saremi morte già dolce paruta
riccioli neri
http://www.youtube.com/watch?v=A16VcQdTL80&feature=kp
Un giorno, tesoro, saremo
vecchi
Oh, tesoro, saremo vecchi
E penseremo alle storie che avremmo potuto dire.
Asaf Avidan – One day/Reckoning song
Roma, fine agosto 1477. Due anni dopo la prima udienza dei Vallesanta con Papa Sisto IV.
Arrivarono alla torbiera poco prima dell’alba, carichi delle
borse e dei mantelli fradici dopo l’acquazzone che li aveva
volti di sorpresa sulla via per Orvieto.
Porpora era silenziosa, chiusa in uno strano mutismo che non sapeva del
solito broncio ma di qualcosa ben più profondo. Era appena
tornata da Genova, l’unica meta capace di toglierle anche
quel poco buonumore che di solito possedeva e, da quando si era
ricongiunta con Orso dopo una settimana di lontananza, non aveva detto
una parola. Se n’era semplicemente rimasta in disparte, con
lo sguardo perso nel vuoto e le mani chiuse a coppa su una ciocca di
riccioli neri riposta in un fazzoletto di seta.
«Passerà», le disse Orso, quando la vide
sedersi sulla riva della torbiera. «Non vi è
niente di più innocuo del mal d’amore,
Sorella.»
Porpora rispose con un’alzata di spalle.
«Non sono affatto innamorata», replicò,
secca.
Orso ridacchiò.
Cos’altro poteva mai essere, a impensierirla così
tanto? Da quando si erano recato a Genova per la prima volta e avevano
tirato su qualche soldo imbalsamando un fagiano per il signore di un
borgo fuori città, Porpora non perdeva occasione per farvi
ritorno. Sola, senza accettare la grazia della compagnia di alcuno.
Tornava sempre scortata da una guardia del borgo, però.
«Mi sta bene, se hai l’innamorato»,
insistette quindi Orso, pacato. «Non ci vedo niente di male e
poi –»
«Tu ho detto che non c’è nessun
innamorato, stupido!»
Stizzita, Porpora si tirò in piedi, prendendo a frugare
nella borsa, alla ricerca di qualcosa.
Nel buio, Orso la immaginò rossa in viso, ma si astenne dal
commentare.
«Cosa stiamo cercando?», chiese, invece, mentre
Porpora trafficava con i cerini per accendere una lanterna.
«I santi», gli rispose lei. «Tre anni fa,
un gruppo di mercanti pisani è stato visto lasciare Roma da
Porta Pia, nella direzione di Orvieto», spiegò,
poi. «Non sono mai arrivati a destinazione, probabilmente
vittime dei briganti. Se ho ragione, i corpi non possono essere che sul
fondo di questa torbiera.»
Orso storse il naso.
«Come lo sai?», chiese.
Porpora alzò le spalle.
«Porca miseria, Sorella, non sarai stata tu
a–»
«Zitto. Arriva qualcuno.»
Rapida, la ragazza soffiò sulla fiamma nella lanterna e,
rimasta al buio, afferrò il fratello per la camicia,
acquattandosi dietro a un cespuglio.
Orso sentì il suo respiro lieve annullarsi, il suo fiato
divenire così impercettibile da non muovere neanche le
foglie tra le quali si erano nascosti.
Nel silenzio, stava per obiettare l’allerta di sua sorella e
tornare al suo lavoro, quando una fila di piccoli lumi prese a brillare
in cima alla collinetta che sovrastava la torbiera.
Dondolando, i fuochi discesero tutto il dorsale per lo stesso, ripido
sentiero che i due fratelli avevano percorso una manciata di minuti
prima, superandoli di qualche passo prima di fermarsi a ridosso
dell’acquitrino.
Orso si tappò bocca e narici con una mano, senza osare
emettere un suono quando degli uomini gli passarono accanto,
così vicini da muovergli l’unica ciocca di capelli
che sfuggiva al berretto che portava calcato sul capo.
«Lasciatelo qui», ordinò atono
l’uomo in testa al gruppo, scrutando la torbiera alla luce
della lanterna che conduceva.
Orso lo riconobbe immediatamente. Dopotutto, non ci voleva poi un genio
per leggere nel’oscurità lo spigoloso profilo del
Conte Riario.
I suoi compagni gettarono a terra il sacco che avevano tra le mani,
facendolo rotolare verso l’acqua e lui emise un mugugno in
segno di approvazione. Aveva un piccolo sorriso di scherno a
illuminargli il volto pallido e i suoi occhi scuri sembravano brillare
nella notte.
«Che le acque di Roma siano la sua casa», aggiunse,
poi.
Dopodiché, rimase in silenzio a guardare il sacco affondare
nella torbiera, illuminandolo appena con la lanterna.
Porpora si sporse un poco in avanti, accostandosi alla spalla di Orso
per osservare al meglio la scena. Si mosse un poco verso il bosco,
nascondendosi ulteriormente tra i cespugli in un fruscio appena
percettibile.
Gli uomini avevano cominciato a fare marcia indietro, allontanandosi in
religioso silenzio sul sentiero.
«Capitano Grunwald, aspettate.»
In un istante, Porpora ebbe addosso lo sguardo pungente del Conte, che
alzava e abbassava la lanterna nel tentativo di illuminare il cespuglio
dietro al quale si era nascosta.
Orso si strinse nel mantello, imponendosi di trattenere il fiato,
premendosi il palmo della mano sulle labbra secche. Pregò il
Creatore che l’oscurità fosse troppo fitta per
scovare una figura vestita di nero tra i rami del bosco.
Lentamente, la lanterna si allontanò.
«Avete visto qualcosa, Conte Riario?»
Un attimo di silenzio.
«No, è stata soltanto
un’impressione.»
Non vi furono santi che, in quell’istante, Orso
pregò abbastanza.
Con l’orecchio teso sugli uomini che si allontanavano,
guardò Porpora pettinarsi i capelli castani dietro le
orecchie e sgusciare di nuovo verso di lui, abbracciandolo forte con il
respiro ansimante.
«Mettiamoci al lavoro», gli disse lei, scrutando la
collina per assicurarsi che i lumi fossero scomparsi del tutto.
«Dobbiamo essere a Roma entro l’alba.»
«Vado io.»
Cavandosi giacca e camicia, Orso la superò a passo svelto.
Si fermò un istante sulla riva a osservare il vuoto dinanzi
a sé, pensieroso.
Forse, compiere quel genere di lavoro alla luce del giorno sarebbe
stato più facile.
Si legò una fune in vita, lanciando l’altra
estremità a Porpora.
«Non lasciarla andare», si raccomandò,
prima di tuffarsi.
L’acqua era gelata. Gelata e melmosa.
Il contatto delle alghe marce sulla pelle gli fece salire i brividi
lungo tutta la schiena, ma non lo scoraggiò nel raggiungere
il fangoso fondo dello stagno.
Cieco a causa della profondità e della notte,
tastò il terriccio sotto di sé con i piedi
scalzi, fino a che non incappò in qualcosa di più
solido e massiccio di un ciuffo d’erba bagnata. Si
slegò la corda dalla vita e la assicurò attorno
alla sua scoperta, slanciandosi infine verso la superficie.
Buttò la testa fuori dall’acqua, ormai senza fiato.
«Ho trovato qualcosa!», annunciò,
prendendo a nuotare verso riva.
Accoccolata contro il tronco di un albero, Porpora lo accolse con un
cenno del capo.
Se ne stava lì, rannicchiata sotto il suo mantello, con la
corda legata alla caviglia e le mani occupate a stringere il suo
prezioso fazzoletto di seta.
«Ci hai messo poco», mormorò, alzandosi
e sfilandosi la corda dal piede.
Orso alzò le spalle, soddisfatto.
«Sono stato fortunato.»
Estrassero il corpo dalle acque e lo portarono in silenzio sotto i lumi
accesi delle loro lanterne.
Orso era stato davvero fortunato.
Non aveva mai visto un cadavere così ben lavorato dai fanghi
e dalle correnti. Seppur in parte celata
dall’oscurità, quella mummia era perfetta. A
partire dalla pelle perfettamente conservata, mai strappata da un osso
fuori posto, per finire sulle due file di denti tutti dritti e
giallastri.
«Doveva essere un nobile», sussurrò
Porpora, sfilando il coltello che portava legato alla cinta per
tagliare la corda che stringeva la vita del cadavere. Ne
tagliò anche un’altra, più fina e
sfibrata, che invece gli stringeva il collo.
Orso aggrottò la fronte.
«Impiccato?», chiese, perplesso. «E
finito qui?»
«Non è il cappio di
un’esecuzione», spiegò Porpora.
«È quello del masso che l’ha fatto
annegare sul fondo.» Passò la lama del coltello
sulle vesti bagnate del morto e scese fino alle braccia, osservandole a
lungo prima di recuperare il seghetto dalla borsa con un grosso sospiro
di rammarico. «Andiamo; Mercuri ha chiesto le dita di San
Gervaso.»
Orso annuì.
«Del resto che ne facciamo?», chiese, rubando il
seghetto di mano alla sorella.
Lei tirò su col naso.
«Ributtalo dove l’hai trovato.»
«Guarda,
Sorella!»
Orso sorrise, facendo una rapida giravolta sul corridoio. La storia era
sempre la stessa, ogni volta che si ritrovava a percorrere quei
sontuosi appartamenti. Restava incantato dai meravigliosi dettagli che
trovava sui dipinti appesi alle pareti e si dimenticava persino di
camminare, tanto era preso.
«Ho trovato Sant’Antonio. »
Qualche metro davanti a lui, Porpora gli scoccò
un’occhiata severa, voltandosi appena per tenere il passo del
Capitano Grunwald, povero uomo mandato alle porte con
l’ingrato, solito compito di accompagnarli al cospetto di
Mercuri.
«Non ti perdere, Fratello», si
raccomandò. «Non avremo il tempo per metterci a
cercarti in giro per Castel Sant’Angelo!»
Sospirando, allora, il ragazzo si affrettò a raggiungerla,
dondolando goffamente la spada che teneva legata al fianco destro.
«Non fare la scorbutica», la rimproverò.
Lei fece una smorfia, scrollando le spalle.
«E tu non fare il bambino.»
Camminarono in silenzio per qualche minuto, accompagnati soltanto dagli
occhi dei dipinti, che Orso non perdeva mai di apprezzare. Con il polso
appoggiato all’elsa della sua spada, sfilava affascinato
lungo quell’esibizione di Santi. Era una ricchezza che sua
sorella non poteva comprendere, quella.
Sospirando, si voltò verso di lei, studiandone
l’espressione.
Mostrava il volto stanco di chi non ha dormito, ma era ben dritta sulle
gambe, con il mento alto e lo sguardo superbo che la accompagnava
ovunque andasse. Portava i capelli legati sulla nuca con un pezzo di
corda, la camicia candida e pulita che veniva indossata soltanto nelle
occasioni formali e un’insolita lama al fianco, che faceva
capolino soltanto quando si trovavano in Vaticano.
Di fronte a tanta cura, Orso non poté che sentirsi
inferiore. Aveva avuto il tempo per fare un salto nel Tevere e
liberarsi dall’odore di morto della torbiera, ma non quello
di comprarsi una camicia decente. In confronto a Porpora, era di ben
misera figura.
Camminarono fianco a fianco ancora per qualche minuto, sempre in
religioso silenzio alle spalle del Capitano Grunwald, fino a che
entrambi non furono in grado di riconoscere la maestosa porta della
sala delle udienze.
Porta insolitamente affollata, visto che ad aspettarli non vi erano
soltanto i maggiordomi del Santo Padre ma addirittura il Conte Riario
in persona, tutto impettito nel suo panciotto color della notte.
Parlava a bassa voce con un uomo poco più alto di lui ma dal
viso più bambino che invece vestiva di verde, decorata da
un’araldica recante due delfini su sfondo blu.
«È Francesco Pazzi», mormorò
Porpora, senza voltarsi. «Da Firenze.»
Orso alzò le spalle.
«Non sapevo che Riario s’intrattenesse con i
rampolli fiorentini», commentò, dando una gomitata
alla sorella dopo essersi assicurato di essere abbastanza lontano
dall’uomo per poter evitare di essere sentito.
«Brutto colpo, Porpora.»
Lei rispose alla cortesia pizzicandogli il fianco.
«Sei peggio di una comare», borbottò,
mentre si avvicinavano. «Un po’ di grazia,
Orso.»
«Strano, sentir parlare di grazia da ha voluto staccare la
mano a un morto.»
«Strano, sentir parlare di morti da quello che l’ha
staccata, la mano ».
Si scambiarono un’occhiata divertita, poi si voltarono verso
la figura di Riario, sfoggiando il loro sorriso migliore.
«Buongiorno, Conte Riario!», intonarono, chinando
appena il capo.
Curioso, Orso si sporse un poco oltre la sorella, osservando il profilo
di Francesco Pazzi.
Era giovane, aveva forse un anno o due in più di lui,
sicuramente più delicato e fine nei movimenti. Aveva un
strano sorriso a illuminargli il viso, cosa che convinse Orso a non
osare nemmeno rivolgergli la parola.
Restò fermo un istante a fissarlo, non del tutto conscio del
passare dei secondi, e fu in grado di risvegliarsi da quel suo stato
soltanto quando avvertì sulla schiena l’occhiata
furiosa di Porpora.
Allora si affrettò a togliersi il cappello, mostrando, suo
malgrado, l’orecchio tagliato coperto dalle piume, e a
tossire un poco per ricomporsi.
«Buongiorno a entrambi», farfugliò,
inchinandosi appena. «I miei omaggi a voi, Francesco Pazzi.
Sono Orso di Vallesanta, l’imbalsamatore.»
Fece una breve pausa, facendo scivolare lo sguardo su Riario che lo
osservava, impassibile, senza tradire nessuna emozione.
«E questa è mia sorella, Porpora.»
Porpora si fece avanti, superando Grunwald ad ampi passi, senza mancare
di lanciargli un’occhiata velenosa.
«Sono onorata», disse, sfoggiando il più
luminoso tra i suoi sorrisi.
Riario li squadrò, silenzioso. Aveva le mani dietro la
schiena e il suo volto era estremamente serio, quasi vi fosse qualcosa
di serio di cui parlare. Non era il suo modo di accoglierli, insomma,
che solitamente sfociava in qualche critica circa il loro lavoro
peccaminoso.
Francesco Pazzi non parlò, limitandosi a guardarli con quel
suo sguardo inquietante.
Ben presto, la stanza si appesantì di un irritante silenzio.
Orso deglutì, poggiando la mano sulla spalla della sorella.
«Dovremmo andare», la esortò,
sospingendola delicatamente verso la sala delle udienze.
«Il Prefetto Mercuri ci sta aspettando. Non vogliamo tediare
i signori.»
Osservò Porpora annuire, seppur poco convinta, e salutare
Pazzi con una piccola riverenza.
Quel castello era davvero abitato da personaggi inquietanti
«Vi auguro una buona giornata, cari signori»,
finì Orso, inchinandosi a sua volta. «A presto, mi
auguro.»
Evitò di rimettersi il cappello in testa, anche se avrebbe
tanto voluto nascondere il suo orecchio tagliato.
Con un sorriso, rivolse un’ultima occhiata a Pazzi e gli
voltò le spalle, seguendo Porpora all’interno
della sala delle udienze.
Papa Sisto sedeva, come al solito, sul suo trono al centro della sala.
Non era una novità, eppure Orso si sentì addosso
un peso più forte del solito, quando le porte della sala si
richiusero. Aveva sua sorella di fianco, il Santo Padre e Mercuri
dinanzi, il Conte Riario alle spalle. Non vi era nulla di diverso.
Pazzi si era ritirato.
Nervoso, respirò a fondo.
Attese che Mercuri lo invitasse a farsi avanti, lasciando
nell’ombra Porpora, che si andò a posizionare
accanto al Conte.
«Vostra Santità, Prefetto Mercuri, i miei
saluti», incominciò, senza mascherare una certa
incertezza. Era passato troppo tempo dall’ultima volta che
aveva parlato di fronte a un pubblico.
«Vallesanta, vieni avanti», lo incitò
Mercuri.
Aveva assunto un tono insolitamente curioso, più curioso del
solito, insomma.
«Cosa ci porti, quest’oggi?»
Orso mostrò un mezzo sorriso.
«Vengo da Ostia, miei Signori»,
incominciò, drizzandosi bene sulle gambe. «Vi ho
portato ciò che mi avevate richiesto.»
Si voltò verso Porpora, invitandola a raggiungerla con un
gesto della mano.
«Le dita di San Gervaso, direttamente dai venditori di Porta
Marina.»
Lupo Mercuri si accigliò.
«I venditori di Porta Marina sono notoriamente dei
ciarlatani», commentò, scettico.
«Non questi», spiegò Orso.
Attese che Porpora aprisse la scatola in cui riponevano abitualmente le
loro bizzarrie e si scostò appena, giusto per permettere ai
presenti di sbirciare.
Riposte tra le stoffe del contenitore, vi erano tre dita perfettamente
mummificate. Sul ciò che restava dell’indice, una
cicatrice a forma di croce rovescia rompeva la perfetta
lucidità della cera passata sulla pelle.
Orso ci aveva messo ore intere, a incidere il dito senza sbriciolarlo
sotto la forza del coltello. Aveva dovuto ricominciare il lavoro su
quattro dita diverse, ma il risultato era a dir poco soddisfacente.
Talmente perfetto da sembrare vero.
Ma quelle erano storie che non andavano raccontate, in Vaticano.
Curioso, Orso seguì lentamente lo sguardo dei presenti sulle
dita nella scatola, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata alla
sorella, restando però in rigoroso silenzio.
Fu solo quando il suo sguardo incrociò quello di Mercuri,
che si decise ad aprire la compravendita.
«Sono vostre per trenta scudi», azzardò,
muovendo appena il capo.
L’uomo lo guardò a lungo.
«Sono dita di un morto, non possono valere tanto»,
ribatté, pacato. «Quindici scudi saranno
sufficienti.»
Orso guardò Porpora, che non batté ciglio.
«Venti. Sono le ossa di un santo, Prefetto», disse,
cauto.
Vi fu un istante di silenzio, poi Mercuri annuì, piano.
«E sia.»
Dopodiché abbandonò la sua postazione,
avvicinandosi ai due fratelli con passo spedito e sguardo indagatore.
Orso deglutì, muovendo un passo indietro verso Porpora che
lo osservava, stranamente serena. E dire che non si era mai sentita al
sicuro, lei, in quella sala.
Papa Sisto IV si alzò un poco sul suo trono, portandosi una
mano al mento, e parlò.
«Siete abili, fratelli di Vallesanta», disse senza
nascondere un sorriso soddisfatto. «I vostri tesori ci
tolgono sempre dai pomeriggi di tedio.»
Orso non rispose, sbigottito. Assai raramente, in due anni, aveva udito
la voce del pontefice, e la cosa lo turbò non poco. Si
voltò di scatto verso Porpora, che lo osservava stranita,
quasi quanto Riario che fissava il pavimento con occhi sgranati. Quando
si rivoltò verso il papa, la sua mano era tesa per invitarlo
a baciare l’anello.
«Servirvi è nostro piacere», disse,
quindi, affrettandosi a chinare le labbra sulla mano del pontefice.
«Avrete presto modo di farlo nuovamente, allora»,
continuò Sisto. «Firenze richiede immediatamente
la vostra presenza.»
Orso dondolò il capo.
«I Medici?», chiese.
«Seguite il Prefetto e vi verrà spiegata ogni
cosa.» Papa Sisto si sporse sul trono, piegando leggermente
il capo in avanti. «Mio nipote partirà per Imola
domattina», disse. «Lo seguirete fino a Firenze.
Sarà sua premura controllare il vostro operato in
città.»
«Per quanto concerne le reliquie che ci avete portato,
verrete pagati con trenta scudi», riprese Mercuri, invitando
con un cenno del capo i maggiordomi ad avvicinarsi per prendere in
consegna la cassa. «Che vi siano sufficienti per presentarvi
domani con un cavallo e quanto vi occorre per il viaggio.»