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Autore: Ely79    16/05/2014    1 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. - Cap. 33
33

«… quando sono entrato in curva l’ho sentita sbilanciarsi e vibrare nel primo terzo anteriore, lato sinistro. Forse un contrappeso si è sganciato. E fatica a salire di giri. Spinta al massimo non ha raggiunto le centoventi miglia orarie mentre dovrebbe mantenere senza difficoltà le duecento a regime medio-alto. Ozone e Boy stanno già dando un’occhiata al motore. Credono si tratti del vaporizzatore. Forse hanno ragione: il compressore mi sembrava usurato, magari c’è della sporcizia che rallenta i pistoni. Di sicuro non è il pescaggio perché tutto il blocco era in ottime condizioni e assorbiva energia dalla sonda senza problemi» annunciò No Way, titubante nonostante le buone notizie che portava.
Era un purista dei motori, non concepiva funzionassero con energie sottrarre al cuore della terra: l’unico vapore degno di spingere un’airship doveva essere prodotto da fuoco di legna.
Sul volto sudato di Clay apparve un enorme sorriso mentre si fermava davanti alla porta dell’ufficio.
«Hai visto? Scorch aveva ragione. Ce l’hai fatta» esclamò, dandogli una violenta pacca sulle spalle che per poco non lo spedì faccia a terra.
«Sì, sì, certo» bofonchiò incassando la testa tra le spalle mentre gli porgeva i documenti da firmare per la cessione definitiva della Grönhagen. «Però... spero non siano problemi seri. Ozone è stanco morto in questi giorni, fa fare quasi tutto a Boy. Quando ho portato la muscleship hanno tirato fuori il motore e si sono chiusi nel magazzino, non vogliono nessuno intorno, ma così come facciamo a…»
Clayton non l’ascoltava più. Era impietrito sulla porta e guardava nella stanza: seduta sulla sua poltrona c’era Bonnie e piangeva a dirotto.
«Senti, ne parliamo dopo. Adesso ho da fare» tagliò corto.
Chiuse la porta in faccia al meccanico e si precipitò dalla figlia.
«Che è successo, Nuvoletta? Che c’è?» gridò scavalcando letteralmente la scrivania.
«N… nie… en… te» rispose a stento.
«Guardami. Guardami, Nuvoletta! Dillo al tuo papà… che è successo? Perché piangi così? Click-Clack ti ha di nuovo fatto i dispetti?»
«N-no» rispose lei a stento, stringendo le mani allo stomaco mentre il padre le asciugava il viso.
«Stai male? Ti fa male qualcosa? Le mani? Ti sei chiusa le mani nei cassetti? O è la testa? O la pancia?»
Dio, fai che non sia quello! Che non sia quello! Non so cosa fare! implorò terrorizzato.
Ormai sua figlia era una signorina e solo ipotizzare che stesse affrontando i tipici problemi femminili, lo mandava al manicomio. Non era mai stato capace di gestire gli sbalzi d’umore e i malesseri che affliggevano Sandy in quei giorni critici, figurarsi quelli di una preadolescente che ai suoi occhi portava ancora il pannolino e dormiva succhiandosi il pollice. La sua bambina era e sarebbe rimasta una bambina. Per sempre.
Bonnie scosse la testa, sgravandolo di un peso immane.
«N-no… no, papà… s-sto b… be-ene» pigolò.
«Allora dimmi, tesoro! Non avere paura. Che c’è?»
«T-ta… amior».
Chi cazzo è questo figlio di pu… oddio, pensò adocchiando un volume dalla copertina colorata, chiuso sulla scrivania. Si voltò a guardare di nuovo la figlia, i cui occhi verdi – identici a quelli della madre – lo fissavano colmi d’apprensione. Si sentì un cretino, esattamente alla stessa maniera di quando Sandy gli rivolgeva quegli sguardi anni prima, solo per comunicargli delle emerite idiozie.
«Le… eggi» singhiozzò mostrandogli col dito tremante il paragrafo incriminato.
«Bonnie… mica starai così per il libro?» domandò anche se già immaginava la risposta.
«Ta… ami… iior è… f… f-fee… eri… i-ito… e… ed è… s-so… olo!» pianse, raggomitolandosi contro la sua spalla.
Clay le passò una mano fra i capelli. Per un istante era stato tentato di sculacciarla per l’inutile spavento, poi aveva cercato di imbastire una ramanzina colossale e infine si era convinto che invece avrebbe dovuto investire con la Torran lo stramaledetto autore di quel romanzo. Probabilmente eliminare la fonte del problema sarebbe stata la scelta più saggia.
«Signore mio, Bonnie!» sospirò ridacchiando abbracciandola. «È solo una storia, è inventato, calmati. Andrà tutto bene, non succederà niente di brutto e Tamocoso ne verrà fuori. Non lo fa sempre?»
La sentì annuire contro la sua spalla.
Non è la realtà, Nuvoletta. Qui le cose non sono come nei libri, soggiunse dentro di sé.
«Papà» chiamò lei, indicandogli la porta.
Junior era apparso sulla soglia.
«Hai bisogno, giovanotto?» domandò Clay pronto ad incassare un capriccio o un’uscita estemporanea del suo piccolo erede, tuttavia il silenzio che gli rispose fu ben più allarmante delle lacrime di Bonnie.
Suo figlio stava immobile, la testa incassata fra le spalle, i pugni stretti, lo sguardo cupo e fisso su di loro. Aveva tutta l’aria di chi fosse ad un passo da una crisi di nervi.
«Junior?»
Per un attimo pensò che Pancake doveva averlo di nuovo fatto arrabbiare, ma ricordò d’aver licenziato quel piantagrane due settimane prima. Ancora non si capacitava del proprio gesto né del vuoto lasciato da quell’assenza.
«A lei gli correte sempre dietro» sbuffò. «Bonnie-Bonnie-Bonnie. A me non mi caga nessuno» sentenziò.
«Ehi! Cosa sono queste parole? Avevamo detto…»
«Lo dici sempre anche tu! E zio. E gli altri. Tutti» l’interruppe guardandosi le scarpe.
Clay si liberò dall’abbraccio di Bonnie e si alzò, incrociando minacciosamente le braccia.
«Junior, ne abbiamo già parlato. Né io né la mamma vogliamo…»
«Non mi frega» replicò gelido.
Il capofficina avrebbe voluto ribattere, sgridarlo per quel modo di parlare che gli avevano proibito di adottare, tuttavia le parole rimasero ancorate al fondo della sua gola. Era abituato a vederlo pestare i piedi, fare baccano e urlare per avere ragione; questo atteggiamento gli era del tutto nuovo. Non erano i capricci o le lagnanze di un bambino: erano le sue. Stava guardando sé stesso all’età di suo figlio. La stesso postura, la stessa voce. L’identica rabbia mascherata da disinteresse per chi gliene mostrava a sua volta. E non sapeva se esserne felice o meno.
«Voi pensate solo a lei, lo zio non mi vuole più, i ragazzi non mi fanno fare niente, Maria non mi fa stare in cucina… anche quel coso nero di là mi guarda storto» sputò. «Voi non mi volete. Volete solo lei. Sono stufo».

***

Pancake barcollò lungo il marciapiede, seguendo l’ombra di Nate. Era l’unica cosa di lui che riuscisse a guardare, oltre alle scarpe: dopo tutto, a lui non interessava la sua faccia bensì dove lo portava. Ansimava passo dopo passo, incurante degli sguardi disgustati dei passanti o degli sberleffi dei ragazzini. Teneva su i pantaloni con una coppia di bretelle legate ai passanti con dello spago, convinto che gli stessero cadendo di dosso mentre invece non riuscivano né a chiudersi né a salire oltre l’inguine.
«Ma guarda un po’ chi si vede» ridacchiò una voce. «Il mio caro amichetto Pancake. Come gira, piccoletto?»
Delmar cercò di staccare gli occhi dal pavimento che aveva sostituito il marciapiede, ma aveva l’impressione che fossero diventati due sfere di ghisa, troppo pesanti per eseguire il comando. Aprì la bocca impastata, facendo schioccare la lingua sul palato reso appiccicoso dalla sete.
«Beh? Che vuoi fare? Startene lì impalato tutto il tempo?» domandò.
Il suo alito era saturo di alcol.
«Ehi, Clench…» bofonchiò, sedendo di fronte a lui con un sorriso ebete.
La sedia scricchiolò penosamente sotto la sua mole sempre più sgraziata e flaccida, ma non se ne curò. Ormai badava solo a quanta polvere spargere su ciò che inghiottiva, nell’assurda rincorsa ad un benessere che non riusciva mai a raggiungere.
Sul tavolo c’era un grosso piatto di bistecche dall’aroma invitante; un sugo scuro e unto colava sulla carne e sulle patate messe a contorno della portata. Lì accanto c’era una scatoletta di cartone, contenente diversi tubicini dello stesso materiale, sigillati con tappi di cera rossa o gialla.
«Vedi, ragazzone,» disse Clench, chiudendo di scatto il coperchio, «noi abbiamo un accordo. Medicina miracolosa per tante belle storie. E io so che tu ne conosci ancora qualcuna».
Pancake spostò lo sguardo sul piatto.
«Qu… quale?» borbottò deglutendo a vuoto, ipnotizzato dal profumo succulento che gli inondava le narici.
Lo stomaco mandava brontolii preoccupanti da ore, quasi che gli spuntini e le frittelle ingurgitate fino a quel momento fossero stati meno che briciole.
Il tirapiedi si mise a dondolare sulle gambe posteriori della sedia, più per allontanarsi dal tanfo di sudore rancido e sporco che emanavano i vestiti di Delmar che per darsi un tono. Era evidente che non si lavasse da giorni.
«Una che parla di come sta in piedi la baracca, delle sue forze. Capisci cosa intendo?»    
Vedendo che non gli stava dando retta, Paul allontanò il piatto, e picchiò la mano sul tavolo. Pancake sobbalzò e gli rivolse un ghigno rabbioso e confuso.
«Energia. Vapore» specificò stappando un paio di birre. «Clay non mi ha mai mandato alle caldaie, ma tu… tu le conosci, le sapevi regolare. E aggiustare. Ci scaldavi i pancake» ammiccò.
«Erano buoni» bofonchiò ridendo, mentre un rivolo di densa saliva cominciava a colargli dalle labbra.
Affatto disgustato, l’altro si produsse in una smorfia di totale condivisione. In realtà trovava ributtante quell’abitudine, al pari dei suoi ex-colleghi. Le ricordava bene quelle frittelle sporche di polvere, umide di condensa bollente e di chissà quali altri liquami, per non parlare dei residui accumulati dalla combustione.
«Sicuro. Da leccarsi i baffi! Ma adesso mi racconti di quei fottuti rottami o non potrò aiutarti. E io… voglio aiutarti. Lo sai» l’incalzò tamburellando con le dita sul cofanetto.
«No… sì… mi serve… serve» pigolò, incapace di allungare le mani che già tremavano dall’ansia.
«Certo che ti serve. È la tua medicina, quella che ti farà dimagrire, ti farà guarire. Così potrai far vedere a quel finocchio maledetto chi è che ha il fisico di un vero uomo».
«Sì… un vero uomo» ringhiò.
L’accenno al fratello aveva risvegliato quel briciolo d’amor proprio che ancora si annidava da qualche parte fra le pieghe della carne.
«Allora, Pancake, racconta. Dimmi tutto, ti ascolto. Anche il piatto ti ascolta» ribadì, tornando ad avvicinare le bistecche.
«Ma… Clay… si arrabbia…» biascicò leccandosi le labbra.
Il piatto si allontanò di nuovo, sostituito dalla faccia arcigna dell’altro.
«Ti ha preso a calci in culo e ti ha buttato fuori per far lavorare un invertito, un immigrato del cazzo, un ragazzino svitato, un vecchio muto e un selvaggio. Se lo merita! Ti ha trattato come un pezzo di merda, Delmar! È un coglione! Un coglione che non capisce il valore dei veri Coloniali!» esclamò battendo il pugno sul tavolo.
Pancake sgranò gli occhi: non solo le parole avevano riacceso l’odio non ancora del tutto sopito, ma lo stretto tubicino di cartone apparso nel pugno di Clench aveva lasciato fuoriuscire un pizzico di polvere grigioverde che aveva velato la rotondità umida di una patata.
«No… lui non capisce… bastardo» borbottò, strizzando le posate fra le dita.
I suoi occhi erano fissi e vitrei, vuoti mentre riviveva ogni sopruso, ogni torto, ogni parola che aveva rappresentato un insulto o una mancanza nei suoi confronti. La rabbia per il licenziamento tornò a montare, proprio come sperava Paul.
«Io sono con te, amico» lo rassicurò, poggiandogli una mano sulla spalla.
Si pentì del gesto, percependo il sudiciume che impregnava i vestiti e la consistenza innaturalmente cedevole del corpo al di sotto. Mandò giù il disgusto a fatica, mascherandolo dietro un sorriso incoraggiante e infilzò la forchetta nella bistecca alla sommità del piatto.
«Forza. Raccontami» disse allungandogli la porzione. «Sono solo parole. Parlare serve a uscire dalle situazioni di merda in cui ci caccia certa gente. E tu meriti di uscirne, Del. Tu sei un grande, sei un coloniale con le palle!»
Rinfrancato dal discorso, Pancake sorrise, mostrando i denti ingialliti dalla Sglitz. Ficcò orgogliosamente in bocca una grossa fetta di carne e cominciò a parlare.

***

L’interno dell’airship era molto più angusto delle precedenti. E dire che i vecchi modelli da corsa all’esterno erano in genere almeno un paio di piedi più larghi di quelli recenti: lo spazio al di sotto degli archetti della teleria era a malapena sufficiente a consentire di muovere un braccio alla volta.
Odrin stava lavorando da almeno venti minuti a testa in giù, in una posizione dove neppure l’accogliente rigidità del collare cervicale riusciva a dargli sollievo. Sentiva la testa che cominciava a girare quando la voce di Patch s’insinuò nello scheletro metallico.
«Non andava, eh?» disse sventolando un ritaglio di tela cerata.
L’Andull aggrottò la fronte, fissando la stoffa penzolare sopra i suoi piedi. Pensava di essere stato abbastanza chiaro quando, poco prima, gli aveva segnalato a gesti che proseguiva con il drappo numero sedici. Possibile avesse capito d’avergli passato il ritaglio sbagliato? Se fosse stato così, allora quello che intravedeva non doveva essere il ritaglio successivo.
Cominciò ad arretrare strisciando sulla schiena, appoggiandosi ai supporti della pedaliera e agganciando con i talloni il castelletto del sedile per trascinarsi fuori. L’aria di fece di colpo più leggera, nonostante la calura estiva rendesse l’officina bollente. Ebbe un brivido e le percezioni si confusero mentre si rimetteva dritto.
Patch stava sdraiato contro la fiancata, madido di sudore. Lasciava scivolare la tela fra le dita e parlava guadandola.
«Con Charlotte. L’ho capito sai, che non sei riuscito a combinarci niente» commentò. «Siete troppo diversi. Troppo lontani. Com’è che dicevano alla telenovela? Inconciliabili. Hai visto la faccia di Maria quando l’ha sentito? Madre de Dios! Justina! No puede ser tan! No puede!» scimmiottò prendendo a girare su se stesso con le mani che strizzavano la faccia.
Per sua fortuna Choncho si trovava in cortile, o non avrebbe esitato a dargli contro.
L’Andull annuì, mostrando appena un sorriso. Sedette sulle barre interne, sbuffando mentre allentava il collare. Sapeva che Patch non lo stava giudicando né tentava di spingerlo a cambiare atteggiamento, anche perché non aveva idea di come stessero effettivamente le cose.
Da quando aveva scoperto il segreto di quella donna, si era sentito perennemente sotto accusa. Dal principio dai suoi fratelli, sebbene per cause diversissime, poi dalla comunità Andull e infine dai colleghi, cui sfuggiva la motivazione del suo improvviso mutismo. Anche lei doveva averlo giudicato per la sua decisione: ricordava bene il tono supplice delle sue ultime frasi di quel giorno o i brevi sguardi che gli rivolgeva e che fingeva d’ignorare.
«È per lei che non parli, giusto?» proseguì.
Odrin esalò un lungo respiro, rendendosi conto che ormai era tempo di lasciar trapelare qualcosa. Almeno a Patch doveva far intendere un minimo della situazione o chissà cosa si sarebbe inventato. Il rischio di rompere il veto di parola imposto dai Batàri per colpa delle sue assurdità era troppo alto.
Annuì sogghignando, portando un dito alle labbra per poi mimare una figura curva e claudicante. Infine, fece cenno di scansare qualcosa col braccio, come a dire che non gli andava di raccontare.
«Ehi, asfaltino, guarda che a me non interessa, non devi dirmelo per forza il motivo. Non sei come me che ogni cosa che mi capita devo raccontarla a qualcuno. Voglio solo sapere se il mio amico al nero di seppia sta bene. E per inciso, gli ultimi esami di Andy hanno segnato un lieve miglioramento. A forza di sgridarlo, si è messo d’impegno a guarire» buttò lì.
Grato della dimostrazione di amicizia, il tappezziere levò il pollice in alto emettendo un sospiro sollevato.
Patch gli tirò il ritaglio in faccia.
«Però non dire che mi sbagliavo: lo dicevo io che non te l’avrebbe mai data!» ridacchiò.

***

Phailin rimirò le nuove decorazioni che Adam aveva fatto arrivare per lei direttamente da una bottega artigiana del Siam, tra cui spiccava un set delle tipiche unghie finte da danzatrice. La più corta superava il palmo di lunghezza ed erano state realizzate con sottile lamine d’ottone istoriate. Nessuno avrebbe potuto immaginare che i sottilissimi viluppi di linee non fossero altro che canali dove avrebbero potuto scorrere minuscole gocce di veleno di pesce palla, né tantomeno che fossero tanto affilate da infliggere tagli profondi con un lieve tocco.
«Non pensavo l’avrebbe fatto» sospirò, rapita dalla ferale bellezza dei disegni.
Lilijana, seduta alla toeletta, smise di spazzolare i lunghi boccoli biondi resi lucenti dalla maschera appena fatta.
«Chi? Cosa?» pigolò spiandola nella parete coperta di specchi.
Bastava un nonnulla a scatenare la sua curiosità, specialmente quando si trovava con le altre fanciulle dell’harem di Mac Gregor nella saletta benessere. Ormai era stata ribattezzata “Stanza del Pettegolezzo”.
«Vivian. Non pensavo avrebbe dato la sua airship a quel tizio. Insomma, d’accordo, è un ferrovecchio, neppure il cielo sa se leviterà ancora, ma è pur sempre il catorcio con cui è arrivata qui» osservò.
«Oh, Viv non è una legata alle cose. E nemmeno al passato. Guarda sempre avanti, verso il futuro!» trillò, orgogliosa dell’amica.
«Dovresti farlo anche tu» rampognò l’orientale storcendo il naso.
La prussiana inclinò il volto imbronciato, non riuscendo ad afferrare a cosa si riferisse.
«Guarda avanti! Lo smalto!» sbottò Phailin, indicandole i volant della vestaglia che minacciavano di posarsi sul colore che aveva appena steso sulle dita dei piedi.
Stizzita, Lilijana scostò con uno strattone i lembi ondulati e le fece una linguaccia.
«Mi dispiace però che se ne sia liberata. Poteva darla a me, così chiedevo a Adam di farmela sistemare. Non mi fa fare una macchina nuova dall’anno scorso!» insisté piagnucolando.
Irritata, la siamese le lanciò contro una pantofola, che lei prontamente infilzò al volo con uno spillone per capelli.
«Quanto sei frignona. Ti ha regalato quello stramaledetto tirapugni che volevi da mesi! E te ne ha fatti fare non uno ma quattro, due d’oro e due d’argento. Su uno ti ha persino fatto incastonare dei diamanti! Che diavolo vuoi ancora?» protestò.
L’altra la minacciò con la pantofola, poi tornò a spazzolarsi i capelli dopo averla scaraventata all’altro capo della stanza.
«Come ti sembra?» riprese stizzita Lilijana.
«Lo smalto? Salvo, per ora» sogghignò facendo ondeggiare il suo Cha Yen1 nel grosso bicchiere di cristallo.
«Intendevo il tizio a cui Vivian ha dato la Grönhagen. Eri con lei quando è arrivato. Io l’ho visto di sfuggita all’officina, quando abbiamo ritirato la Fortion».
Phailin fece una smorfia vaga, alzando le spalle. Quell’uomo col berretto pigiato in testa le aveva intercettate fuori dalla “Pagoda Turchese”, mentre Mac Gregor si dirigeva alla sua seduta settimanale di massaggi.
«Passabile, per essere un coloniale» commentò sprezzante, affascinata dalle volute del latte di cocco nel liquido ambrato più che dal discorso.
Erano pochi gli uomini occidentali ad averne suscitato l’interesse oltre al suo datore di lavoro e certo quel meccanico dalla chioma imbizzarrita non rientrava nel novero.
«Porta rispetto: il passabile è mio cugino» puntualizzò Vivian entrando nella saletta.
Era avvolta in un telo reso semitrasparente dall’umidità del bagno turco. I capelli corvini si arricciavano in una voluminosa aureola attorno alla sua testa, molto simile a quella che coronava la testa di Jack No Way.
«E solo per questo dovrei dire che è meraviglioso e desiderabile? Che me lo porterei a letto anche adesso, per mostrargli le posizioni più eccitanti che ho imparato nel bordello di Thonburi? Che mi potrei innamorare perdutamente di uno con quei capelli ridicoli? Tu sei pazza» lo sbeffeggiò Phailin, senza tanti complimenti.
Vivian sorrise, continuando ad asciugarsi mentre si dirigeva ad una chaise longue di vimini accanto alla porta finestra. Gettò la salvietta a terra e infilò una vestaglia, stendendosi con le braccia dietro la testa. Le piaceva stare a guardare gli aranceti dopo un lungo bagno, in ogni stagione. Era la ciliegina ai suoi rari momenti di relax.
Diversamente dall’impressione generale, non le era costato poi molto assentire alla richiesta di Giacomo. L’avrebbe fatto anche se non fosse intervenuto Adam, insistendo affinché accettasse immediatamente e consegnasse lei stessa il mezzo nelle mani del tecnico della “Legendary Customs”. Pur rappresentando un legame con suo padre, con la sua passione per le corse e la velocità, con quel passato di ribellione al maschilismo degli autodromi, quell’airship era il simbolo di un periodo della sua vita ormai concluso, inutile da rivangare. Certo, l’aveva lasciata a languire in un deposito del Golden Ring proprio per rendere meno palpabili quei ricordi, ma non l’aveva fatto certo perché non riusciva a disfarsene. Semplicemente, stare accanto ad Adam le riempiva le giornate al punto tale da dimenticare il resto.
Stiracchiò le gambe, ridacchiando tra sé. Le tornava in mente la faccia del cugino quando gli aveva detto che come pagamento pretendeva una serata con un uomo dell’officina: birra, grigliata e dolce. Giacomo – che conosceva bene il suo debole per Clay – aveva dato per scontato alludesse al capofficina e ad un dolce da consumare in unicamente in camera da letto, cascandoci con tutte le scarpe. Per più di un’ora si era astenuta dal fargli notare che si trattava di uno scherzo, anzi, aveva ribadito la richiesta in continuazione fin quando, ormai sull’orlo delle lacrime per le troppe risate trattenute, aveva ammesso di riferirsi non a Clayton Lomann ma a lui e ad una fetta della famosa crostata alla ricotta di sua madre. Giacomo aveva aggiustato il berretto sul capo e se n’era andato sbraitando che quelle erano le occasioni in cui emergeva il suo sangue malato da femmina italiana.

1 Cha Yen: tradizionale tè thailandese.

Writer's Corner
Torno a voi dopo una lunga assenza. Sembra che il nonavere un lavoro mi lasci meno tempo a disposizione per scrivere, di quando stavo dieci ore al giorno dietro una scrivania...
Ben arrivati a alister_, bruciato e Pisaster_Ochraceus. spetto i vostri commenti (a prescidere dal dove siate arrivati con le letture!).
Grazie come sempre a tutti i pazientissimi lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk e Mizzy.
   
 
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