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Autore: outofdream    16/05/2014    4 recensioni
Rivisitazione di "Twilight", di S. Meyer.
Dal 17 Capitolo:
Rimasi immobile in quel modo, rossa in viso, coi piedi scalzi e i capelli arruffati, lo sguardo fisso su di lui.
Non ero spaventata, ma non sapevo nemmeno cosa fosse giusto fare.
Le sue mani delicate sfiorarono i contorni rigidi della finestra e ne spostarono con leggerezza le ante, facendo entrare nella stanza un’aria pungente, fredda e morbida. Provò a sorridermi, ma sapevo che in quel momento la sua tristezza non conosceva confini e quando lo capii, non potei resistere: corsi verso di lui, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a me.
Oh, Edward.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
Capitoli:
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                                                                                           La caccia



«E adesso?».
«E adesso aspettiamo».
«Edward, probabilmente non ci sarà nessun temporale, sai..», arricciai il naso in direzione del cielo, poco convinta. «Ci sarà. Alice me l’ha detto, è meglio di una stazione metereologica quando vuole», ghignò.
Non dissi nulla: quel nome riportò alla mente molti ricordi sgradevoli  tanto che finii per domandarmi cosa fosse successo fra Edward e i suoi familiari – davvero farci vedere così, insieme, vicini a casa Cullen non avrebbe creato nessun problema? L’idea di ritrovarmi a fronteggiare un’intera famiglia di vampiri non mi esaltava e anche se d’altro canto sapevo bene che Edward mi avrebbe difesa a spada tratta, sapevo anche che non avrebbe avuto vita lunga con Jasper nei dintorni. O Rosalie.
E in effetti solo alcune delle potenzialità della famiglia Cullen mi erano state rivelate (Alice poteva vedere il futuro, Edward leggere il pensiero, Jasper era capace di controllare le emozioni altrui.. Per non parlare poi della forza e senz’altro violenza di Rosalie), ma ero abbastanza sicura che avessero tutti qualche altro asso nella manica da sfoderare e in quei momenti pregavo soltanto di non essere presente quando questo sarebbe avvenuto – tremavo alla sola idea.
«Che hai?», Edward mi guardava con espressione concentrata.
«Uhm.. Nulla», scrollai le spalle io, «Pensavo».
«Hai paura?», si avvicinò a me, cauto.
Avevo paura? Non lo sapevo. Il sentimento che provavo in quei momenti era distante dalla paura, ma in qualche modo ad essa simile – ero felice, per certi versi, felice di poter stare nuovamente al suo fianco, parlargli, felice anche se costantemente in pericolo, anche se fragile, ma ero anche triste, arrabbiata, atterrita dalla possibilità che qualcosa o qualcuno potesse distruggere quella piccola quiete, quell’angolo di mondo in cui eravamo riusciti a ripararci. Provavo dispiacere per Edward, e senso di colpa nei confronti di Carlisle: lui era stato così corretto da mettermi al corrente di quella verità così nera, così sporca e macchiata di orrori, era stato giusto e imparziale e aveva parlato, spiegandomi meglio il tipo di vicende che si erano susseguite nella vita di Edward, e io lo stesso non gli avevo voluto prestare nessuna attenzione.
In quel momento anche io mi scoprii molto più egoista di quanto avrei mai creduto possibile, forse più di Edward stesso: pur di stare con lui, pur di avere anche solo un’altra ora a disposizione, pur di ritardare il momento dell’inevitabile distacco ero disposta non solo a mettere a rischio me stessa, ma a incrinare il rapporto di una famiglia, quella dei Cullen, a mettere a dura prova i sentimenti di mio padre e mia madre (cosa sarebbe successo a loro se Edward mi avesse uccisa? Se mi fosse capitato qualcosa? Loro non contavano nulla?) e quelli di quel ragazzo sveglio e furbo, quello freddo come il marmo e selvaggio oltre ogni immaginazione.
Già, lui.
«Edward», dissi con appena un fil di voce, ignorando completamente la sua precedente domanda, «è proprio difficile stare con me, vero?». Per un attimo parve non capire, ma poi infine colse il vero significato di quelle parole riferite al mio profumo, alle nostre ovvie differenze, a quel rapporto più simile a una specie di tiro alla sorte che altro. «Va bene, me lo puoi dire, sai», sospirai a voce bassa cogliendo quella sua espressione così insicura, distante. Non disse nulla e a me cominciarono a tremare le ginocchia: era proprio così, doveva essere terribile per lui starmi vicina e non c’era alcun modo in cui avrei potuto alleviare la sua sofferenza. Alzai gli occhi piano, da bassi che erano, fin verso il cielo, cercando di reprimere ogni scomodo sentimento e poi, lui. Mi venne vicino così in fretta che non ebbi tempo nemmeno per reagire: eravamo ormai distanti solo pochi centimetri, due o tre al massimo e io non capivo a cosa fosse dovuto quel repentino cambio d’emozione nel suo sguardo.
E poi, senza che io potessi nemmeno aver tempo di ragionare,
mi abbracciò.
Mi tenne a sé così stretta che quasi mi vennero i brividi – potevo addirittura sentire il suo lentissimo cuore battere (Tum,.. Tum,.. Tum..) e tutto il suo intero corpo essere percorso da un unico, potentissimo brivido.
«Ho provato a starti vicino e lontano e per esperienza so che è più difficile sopportare la tua assenza che la tua presenza», affondò il viso fra i miei capelli e io non potei fare a meno di stringerlo a me, più forte che mani, come la volta in cui lo vidi affacciato alla mia finestra dopo quelle interminabili, lunghissime settimane. «L’hai detto tu, del resto: non possiamo essere diversi da chi siamo, giusto? Non possiamo proprio farci nulla. E comunque», si staccò da me, prendendomi il viso fra le mani, «ormai mi stai troppo simpatica, non me la sento di mangiarti», rise e io poggiai la fronte sul suo petto, consolata.
«Il solito idiota», mormorai sorridendo.
«Dico davvero, e poi sei così magrolina.. Cosa dovrei farci con te? Uno spiedino? Lo spuntino di metà giornata?», provò a cercare i miei occhi, sfiorandomi il mento con le sue dita diafane e tirando il mio viso verso il suo. «Ma che fai?», sbottò, tentando di celare la sua preoccupazione, «Adesso piangi?».
«Non sto piangendo», mi scostai io, cercando di nascondere lo sguardo.
«Mi sembra di sì», sorrise venendomi vicino.
«Piango per la tua stupidità!», strillai, tentando di asciugarmi gli occhi. Lui rise continuando a tenermi vicino a sé e io ero così assolutamente felice, tranquilla, serena.
«Io mi preoccupo per te e tu», tirai su col naso, «non fai che dire queste scemenze, cosa devo fare con te?».
Mi preparai a un’altra risposta delle sue, ma quando incrociai il suo sguardo mi accolse unicamente un tenero sorriso che allargandosi piano mostrava i suoi denti bianchissimi.
Per un attimo, parve volersi avvicinare, provare a toccarmi le labbra, piano, sfiorarmi la guancia con la punta del naso – i suoi occhi così concentrati sui miei mi fecero quasi vacillare, nella mia mente solitamente caotica e affollata di pensieri calò un silenzio impressionante che, col passare dei secondi, si trasformava in vibrazione, una lenta scia emotiva che mi attraversava cuore e cervello in un colpo solo.
Socchiusi appena gli occhi, non potendo reggere a quello sguardo penetrante e più che sentivo il suo freddissimo respiro vicino al mio viso, più che i brividi che m’attraversavano il corpo somigliavano a una scarica elettrica – pensai per un attimo (che sciocchezza!) che fosse sul punto di baciarmi.
Ma poi il cielo cominciò a ruggire infuriato e Edward fu lesto a levarmisi di dosso.
«Sta cominciando! Sta cominciando!», gridò eccitato mentre correva verso la jeep parcheggiata lì dalla notte precedente, evidentemente, per prendere le mazze da baseball, i guantoni e quant’altro.
«Bella! Bella! Vieni, ti faccio vedere adesso», il suo tono di voce era così entusiasta che non potei davvero tenergli il broncio per avermi, per un attimo, fatto sperare in qualcosa di straordinario.
«Arrivo, arrivo», lo ammonii sorridente.
Non ero davvero triste, vederlo così felice, vedere il modo in cui sembrava ancora umano, vederlo e basta mi rendeva calma, cancellava ogni malinconia – persino in quell’abbraccio avevo ritrovato quei sentimenti precisi e così rari in me, pur essendo a conoscenza della vicenda che aveva coinvolto Jane e Edward, in un giovedì scuro come pece e tremendo come una maledizione. Non avevo davvero paura, non di lui: in quegli istanti avevo dato per scontato che non mi avrebbe potuto far del male e in me non esistevano dubbi. Per rispondere alla domanda di Edward, però, sì, avevo paura. Ma di un mondo in cui non avrei più potuto ritrovarlo, per esempio. Tuttavia, finché era lì, finché potevo restargli vicina e ridere con lui, allora non riuscivo davvero più a temere nulla.
«Tieni», Edward mi mise in mano guantone e palla da baseball.
«Vuoi davvero che te la tiri?», inarcai un sopracciglio.
«Cosa sarebbe quell’aria scettica?», sbottò lui.
«È che sembri un po’ una fichetta negli sport, tu», soffocai una risata io.
«Ah è così?», mi tirò una spinta lui, «Prendi per il culo, eh? Vai, vai, appena abbiamo finito di giocare ti sbrano». Scoppiai a ridere e lui con me (era sempre così assolutamente privo di serietà quando pronunciava certe frasi che non riuscivo a mettere in dubbio nemmeno per un secondo la sua bontà).
«Mi metto qui?», chiesi, un po’ più distante, verso il centro della vasta radura in cui ci trovavamo.
«Un po’ più in là..», disse lui accompagnando le sue parole con un gesto della mano.
«Qui?», domandai di nuovo.
«No, un po’ di più..».
«Dimmi dove devo arrivare, così facciamo prima, no?», sbottai io.
«Guarda, li vedi quegli alberi? Ecco, vai il più in là possibile finché non sparisci e poi te ne torni a casa».
La mia espressione contrariata dovette sortire proprio una grande ilarità in lui, perché non la smetteva più di ridere. «Dai, cominciamo sì o no?», incalzai, impaziente di vedere ciò che aveva in serbo per me.
«Ok, ok», rispose con quella solita aria affabile. Prese la mazza da baseball in mano e, piegandosi sulle ginocchia la portò appena dietro la sua testa – fece un cenno nella mia direzione, e il cielo cominciò a tremare, di nuovo. «Avanti, fammi vedere che sai fare!», gridò dall’altra parte del campo.
Annuii, curiosa. Lanciai la palla con tutta la forza che avevo in corpo e quello che vidi, mi sbalordì: non appena la palla arrivò nelle immediate vicinanze di Edward, lui colpì quel piccolo puntino di pelle bianca con una tale forza che fu quasi come sentire la terra spaccarsi a metà. Con una potenza disumana la mazza grigio metallizzata aveva spedito la palla dall’altro lato del campo, troppo veloce perché potessi notarla o prenderla – quel lancio fu così potente da farmi svolazzare i capelli e da distruggere qualche ramo e frasca.
«Cristo santo!», gridai io, con ancora le orecchie che mi fischiavano; attendevo una risposta, ma di Edward nessuna traccia. «Edward?», domandai all’aria, guardandomi intorno.
«Edward!», cominciavo a agitarmi.
«Hai visto?», lo sentii sghignazzare alle mie spalle.
Quando mi voltai mi ritrovai di fronte a un ragazzino felice e spettinato, che teneva una palla in mano e non riusciva proprio a smettere di sorridere, «Guarda qua, non solo ho battuto, ma ho dovuto anche correre a riprenderla! Sei così schiappa che tocca fare tutto a me», mi fece una linguaccia.
«Ma come..», balbettai allibita, «Non l’ho nemmeno vista».
Scoppiò a ridere, «Meno male che ero una fichetta».
Non sapevo nemmeno cosa dire: se non altro adesso avevo capito a cosa servivano i tuoni! Per coprire simili boati poteva bastare solo la forza sconfinata della natura.
«Dai, prendi la mazza, lancio io, altrimenti non mi diverto», mi sorrise, sfilandomi il guantone di mano.
«Scherziamo?», dissi allibita, «Mi staccherai la testa! Con i lanci che fai..».
«Sarò buono», scrollò le spalle lui, «farò finta di star giocando con neonato, o con un cane.. Posso farcela».
Gli tirai un pizzico, «Un cane, eh? Razza di cafone».
In effetti, a essere sinceri, fu più semplice del previsto: Edward riusciva a controllarsi molto meglio di quanto avessi creduto, le palle che lanciava erano tutte abbastanza semplici e per me non era un  grande sforzo riuscire a rispondere a tono. Ma anche se a una prima occhiata poteva apparire una normale partita fra amici, vederlo muoversi era straordinario: in un primo momento non riuscivo a cogliere bene i suoi spostamenti, i miei occhi non si erano mai realmente abituati, ma passato un po’ di tempo, riuscivo almeno, e se non altro, a vederlo scattare o saltare per aria per recuperare la palla, con il guantone di pelle.
Era in effetti così..
Bello.
Non si trattava tanto della sua pelle o del suo corpo, ma più che altro del modo che aveva di passarsi una mano fra i capelli, di ridere, di rimanere attentamente concentrato su qualcosa.. Gesti umani, semplici, lo rendevano bello. Lo rendevano così spontaneo, vivace. Sapevo che i ragionamenti che mi fiorivano in testa erano di un’ovvietà assurda, ma io davvero non avevo mai conosciuto nessuno così: e non c’entrava affatto la sua condizione di vampiro, perché in quei momenti davanti a me c’era solo un ragazzo.
Un essere umano, come me.
E io sapevo di non aver mai conosciuto, mai in tutta la mia vita, una persona così – dolce, gentile, capace, intelligente. Nemmeno Joshua era così, non riuscivo a rivederlo in Edward perché nessuno mi aveva mai trattata con così tanta tranquillità, nessuno aveva mai giocato così tanto con me o mi aveva mai fatta così divertire. Nemmeno Jacob. E mentre lo vedevo correre da un lato all’altro del campo, senza il minimo sforzo, pensavo al fatto che ero felice di averlo conosciuto. Di poter stare con lui.
«Ora tocca di nuovo a me», mi venne vicino, rapidissimo. Annuii, leggermente rossa in viso.
«Sei stanca?», si chinò su di me lui, «Vuoi che cambiamo gioco?».
Scossi la testa, «No, tranquillo», dissi, provando a coprire il viso coi capelli – mi stavano andando a fuoco le orecchie per l’imbarazzo: in quei momenti ero lieta che non potesse leggermi la mente.. Non avrei nemmeno potuto guardarlo in faccia se avesse capito il genere di sentimenti che mi animavano il cuore in quei momenti. «Sei bravino..», osai io, distogliendo lo sguardo.
«Perfetto, la parola che cerchi è perfetto», mi apostrofò divertito.
«C’è qualcosa che non sapete fare?», sbottai io, fingendo irritazione.
Lui fece spallucce, «No, siamo praticamente l’equivalente biologico di uno schiaffo in faccia alla miseria».
Scoppiai a ridere.
«Dico davvero», proseguì, «non ci dobbiamo nemmeno provare, cioè, guardati mentre ti dibatti per fare.. Non lo so,.. Qualunque cosa..? Sembri una foca monaca che tenta di stare in equilibrio su due trampoli», mi prese in giro. Avrei voluto ribattere, ma non ce la facevo a smettere di ridere.
«È la verità», borbottava divertito, «noi siamo toppo superiori, siamo il gradino successivo nella scala evolutiva capisci. Io: geniale e brillante essere capace di qualsiasi cosa», disse battendosi le mani sul petto, «Tu: foca sui trampoli», sorrise pizzicandomi con tenerezza la guancia.
«Molto spiritoso», risposi sarcastica io, strizzando gli occhi con falsa aria di sfida.
«No, no è tutto vero, la vostra specie è un rutto in confronto alla nostra», rise.
Alzai gli occhi al cielo, «Ho capito, siamo entrati nell’angolino del buonumore», sorrisi, «meglio che me ne vada di qui, dammi il guantone, sono certa di poter ricevere».
«Addirittura», inarcò un sopracciglio lui.
«Sì, sono pronta, ho tutto l’allenamento che mi serve, adesso sono diventata imbattibile», ridacchiai.
«Quindi significa che sei ancora umana e inadeguata ai miei lanci..», indugiò lui.
«Già».
«..E che dovrò lanciare la palla come se stessi giocando con una persona cerebralmente compromessa».
«Infatti».
«E magari dovrò anche far finta di non star sprecando tutto il mio potenziale», mi sorrise.
«Io stessa non avrei potuto dirlo meglio», annuii.
«Ok, allora andiamo!», mi mise il guantone in mano, «Fa’ del tuo meglio».
Mi avviai dall’altro lato del campo, ma feci appena in tempo a arrivare verso il centro che Edward mi era già accanto. «Che c’è?», chiesi osservandolo.
Oh, quell’espressione.
Cattivo segno, cattivo segno.
Le sue sopracciglia aggrottate e quegli improvvisi silenzi non erano mai indice di buona fortuna.
«Edward..», provai a dire, ma la mia voce si confuse con quella di un ragazzo riccioluto e ben piazzato, che se ne stava ai bordi del campo, appena fuori dal recinto di alberi. Edward non pareva particolarmente teso, ma era abbastanza evidente che non gradiva l’interruzione. Il ragazzo ci fu di fronte in un attimo.
«Tu vuoi proprio che Rosalie ti strappi le palle, eh?», trattenne a stento una risata divertita.
Edward fece spallucce. Il ragazzo mi squadrò dall’alto in basso, sempre con in volto lo stesso sorriso beffardo di qualche momento fa, «Allora tu devi essere.. Bella? Ho ragione? Io sono Emmett», si presentò.
«Uhm, sì.. Ciao», provai io, senza ben sapere cosa fare.
«Stavate giocando?», chiese Emmett. Non sembrava essere particolarmente a disagio di fronte alla mia natura né, pur standomi così vicino, sembrava essere troppo disturbato dal mio odore che, a detta di Edward, era irresistibile. «Stavamo giocando», rispose Edward.
«Che palle, eh?», Emmett mi tirò una gomitatina e l’altro per un momento parve irrigidirsi.
«Come?», non riuscivo a capire.
«Voglio dire, ti porta a giocare a baseball.. Con questo tempo. È da maleducati, no? Quando piove e ci sono tuoni e lampi, si rimane a casa a scopare, o sbaglio?», rise Emmett.
Inutile dire che sia io che Edward diventammo paonazzi (almeno, a giudicare dalla sua espressione, lo sarebbe diventato se avesse potuto).
«Si può sapere cosa dici..», sbottò Edward visibilmente irritato.
«Scusa, scusa..», alzò le mani i segno di resa, «Provo a non essere così esplicito sai, ma con una ragazza così graziosa..», ammiccò nella mia direzione, «Bisogna proprio essere donne mancate per non fare nulla», scherzò divertito e io arrossii nuovamente.
Edward parve spazientirsi e Emmett gli passò un braccio intorno al collo, «Stai tranquillo, sto solo facendo l’idiota. Piuttosto, penso che rimpiangerai a lungo la scelta di averla portata qui», disse e il suo tono mi fece aggricciare la pelle. «Che vuol dire?», chiese Edward.
«Beh, quei tre vampiri che bazzicano la zona da un po’ di tempo hanno deciso di fare una scampagnata da queste parti quindi, per unire l’utile al dilettevole tutta la famiglia si è riunita per una battuta di caccia straordinaria e anche per perlustrare la zona.. Sai, in caso di un incontro ravvicinato. Quindi siamo tutti nei paraggi e questo appuntamentino galante si sta per trasformare in una bella rimpatriata di famiglia», sembrava scherzoso, ma era evidente che nel suo tono c’era un’inquietudine molto più che reale.
Al pensiero di ritrovarmi faccia a faccia con Rosalie e Alice mi vennero i brividi. E anche incontrare nuovamente gli altri maschi della famiglia, Carlisle e Jasper, non mi entusiasmava più di tanto.
«Dobbiamo andare via», sussurrai io, lanciando un’occhiata a Edward.
«O meglio, io devo andare», mi affrettai a correggermi, «Non preoccuparti, la strada da qui a casa mia non è poi così lunga, prenderò una scorciatoia..».
«Non dire scemenze», mi rimbeccò lui, «verrò con te, stupida».
«Troppo tardi», disse Emmett in un sibilo e tutti alzammo gli occhi verso i bordi più remoti del campo: erano tutti lì, si avvicinavano lentamente, Carlisle in testa, Jasper e Alice alla sua destra, Rosalie dietro di loro e nel gruppo c’era anche una donna che non avevo mai visto, sicuramente la madre adottiva di Edward e moglie del dottor. Cullen.
È finita, pensai. È finita e basta. Mi uccideranno.
Mi spostai più che potei vicino a Edward, con una mollezza che sottolineava più che egregiamente le gambe tremanti e la paura che si stava appropriando del mio corpo: provai a fare forza su me stessa, ma in un primo momento lo sconforto ebbe la meglio.
Quando tutto il gruppo al completo ci fu davanti, perfino Emmett perse quella sua aria maliziosa e lasciò andare il fratello. «Mi prendi per il culo», ringhiò Rosalie non appena ci fu di fronte, ma la donna, di cui non conoscevo il nome, l’ammonì.
«Che stavate facendo di bello?», sorrise Carlisle.
«Tranquilli.. Giocavano a baseball. Nessun affronto verso Dio, nessun accoppiamento selvaggio fra specie diverse», ghignò Emmett scherzoso, cercando di alleggerire la tensione.
Edward lo fulminò con lo sguardo e Jasper si fece scappare un risolino.
«Capisco», disse Carlisle.
«È un piacere rivederti, Bella», si rivolse nella mia direzione.
«Sì,.. Immagino», mormorai, «anche per me è un piacere. Forse però dovrei andare via, adesso».
Alice schioccò la lingua infastidita, «A che pro, se tanto continuerete a fare queste scampagnate?».
«A questo punto», si intromise la donna dai capelli raccolti e dal portamento regale, zittendo Alice, «forse potremmo fare conoscenza. Io sono Esme, la moglie di Carlisle», si presentò.
«Bella», mi affrettai a rispondere.
«Che nome dolce», mi sorrise, «perché non vieni a casa con noi? A momenti pioverà, vero Alice?».
Alice annuì seccata.
«Non voglio disturbare», insistei, «posso tornare a casa mia, andrebbe bene lo stesso».
«Nessun disturbo, mi farebbe molto piacere conoscerti», alle parole di Esme, Rosalie rivolse un’occhiata incredula alla donna. Provai a rifiutare ulteriormente, ma Carlisle si intromise, «Non devi essere spaventata». Già, era una parola.
«E comunque, credo davvero che sarebbe meglio per tutti andarsene, adesso», l’insistenza nella sua voce mi rese insicura e perfino Edward era più cupo del solito. Cosa stava succedendo?
«Ci stiamo mettendo troppo», sbottò Jasper, «stanno arrivando».
Rosalie mi fulminò con lo sguardo, «Un motivo in più per mollarla qui». A quelle parole, nel corpo di Edward si creò come una voragine, un vuoto immenso e da esso nacque il più terrificante dei ruggiti.
Rosalie indietreggiò impercettibilmente, ma sempre sostenendo lo sguardo duro e fiero che la contraddistingueva. «Adesso basta», tuonò Esme.
«Tutti e due, smettetela immediatamente!», rivolse un’occhiataccia ai due litiganti, proprio fosse stata la loro vera madre. «Esme ha ragione», puntualizzò Carlisle, «Edward, non avresti potuto scegliere momento peggiore per portarla qui..», aggrottò le sopracciglia.
«Dobbiamo andare via di qui immediatamente», incalzò Jasper, spazientendosi.
«Sono pericolosi?», chiese Edward allarmato.
«Non so, a giudicare da tutti i cadaveri che stanno seminando intorno alla zona direi che no, sono dei simpaticoni, forse se ci manteniamo in contatto a Natale possiamo mandar loro dei biglietti d’auguri», sbottò sarcastico. «Già, a patto che Bella non diventi la cena», precisò crudele Rosalie e questo le costò un’altra occhiataccia da parte dei suoi genitori adottivi.
«Andiamocene e basta, insomma!», strillai io, rabbiosa, tesa, senza avere idea di cosa stesse per succedere.
«Troppo tardi», Alice levò gli occhi da terra e li rivolse verso la fitta radura di alberi distante pochi metri e noi la imitammo. Ai bordi dell’immenso spazio verde e intricato di terra e erba, comparvero tre figure – due uomini e una donna. Questa era vestita con una semplice t-shirt e un paio di jeans, i capelli raccolti in una coda alta che le incorniciava il viso toccato da una malizia deliziosa, impossibile da nascondere. Stessa divisa per l’uomo dai rasta neri, la pelle bronzea e le labbra carnose: t-shirt bianca, giacca di pelle, jeans scuri.
Apparivano come persone tranquille, così pacate, delicate. Poi, fra i due, si fece largo il terzo, fra tutti il più alto. Il suo viso austero era toccato da qualche ciocca dei capelli biondo cenere, lunghi, scompigliati, il naso aquilino gli conferiva un aspetto decisamente serio, attento e rimarcava ancora di più i suoi zigomi alti, il corpo fine ma muscoloso e gli occhi circospetti.
Il suo modo di muoversi era inquietante, assomigliava a un presagio, al male che avanzava, ai deserti di sale sotto un sole di fuoco. «Tutti calmi», sibilò Carlisle, «e cercate di stringervi il più possibile intorno a Bella».
Gli altri obbedirono e io mi ritrovai mischiata in un inaspettato schieramento di vampiri.
«Non mi sbagliavo allora», sorrise quello coi rasta, «mi era sembrato di sentire la presenza di un altro gruppo nei dintorni», ci guardò tutti, dal primo all’ultimo – la donna lo imitò, solo l’uomo biondo pareva non voler distogliere lo sguardo da me.
«Sono Laurent», disse, scoprendo i denti bianchissimi che creavano un contrasto suggestivo con la sua pelle scura, «e questi sono Victoria e James», disse accompagnando le sue parole con un pacato gesto della mano. «Piacere», sorrise cordialmente Carlisle, «io sono Carlisle, questa è mia moglie Esme, i miei figli adottivi, Rosalie, Emmett, Bella, Edward, Jasper e Alice», il mio nome, fra tutti gli altri, parve perdersi quasi per strada e per un momento non potei fare a meno di esserne felice: il mio scopo in tutta quella commedia era di non attirare l’attenzione.
«Siete un gruppo numeroso», commentò con gentilezza la ragazza che, a una prima occhiata, sarebbe potuta essere scambiata tranquillamente per una persona dai modi cordiali, sicuramente molto più bella di una comune essere umana, ma di certo il look che si era scelta la faceva passare abbastanza inosservata.
Ma era palese che ella portava su tutto un altro livello il detto “Le apparenze ingannano”: ero infatti abbastanza sicura che fossero proprio quei tre i vampiri di cui Edward mi aveva parlato e che avevano seminato il panico a Seattle, uccidendo tutte quelle persone. Questo significava che il mondo era la loro zona di caccia e per loro non c’erano davvero limiti: agivano fra l’oscurità e la complicità delle fittissime foreste del Nord Pacifico, come nelle affollatissime città. Sicuramente nemmeno Edward aveva tardato a arrivare alla mia stessa conclusione: erano pericolosi, se non addirittura letali e non potevamo fare passi falsi. «È vero», sospirò benevolo Carlisle, «ma d’altro canto, quando si ha un insediamento stabile.. Oh, beh, a questo proposito, vi chiederei di non cacciare in questa zona. Sapete, non vorremmo che dei sospetti ricadessero su di noi,..», indugiò.
Laurent parve molto colpito e sicuramente affascinato dal portamento elegante e composto del dottor. Cullen. «Stabile?», domandò incredulo, «Come ci riuscite?».
L’altro scrollò le spalle, «Roba da nulla».
Emmett e Jasper si lasciarono scappare una risata divertita e l’atmosfera si rilassò immediatamente.
«Ci nutriamo della fauna locale», spiegò Carlisle, «in questo modo possiamo vivere fra gli esseri umani e non essere costretti a spostarci da un luogo a un altro ogni settimana. Riusciamo a rimanere negli stessi luoghi per periodi piuttosto prolungati, questo ci rende la vita più comoda».
«Sangue animale?», sbottò incredula Victoria, «Roba da pazzi! Non c’è paragone col sangue umano!», rise guardando James, il quale continuava a non voler spiccicare parola.
«È singolare», commentò Laurent.
«E riuscite a mantenervi in forze?», domandò Victoria.
«Tu che ne pensi?», si pavoneggiò Emmett mostrando i muscoli.
Rosalie alzò gli occhi al cielo, «Il solito».
Questo scatenò di nuovo l’ilarità generale: persino i nuovi arrivati parevano godersi quella improvvisa e senz’altro inaspettata tranquillità, tanto che le maglie dello scudo che i Cullen avevano creato per confondere il mio odore si allargarono di un po’.
«Beh, ad ogni modo non sapevamo che questa fosse la vostra zona», si scusò Laurent, «ce ne stavamo andando comunque, pensavamo di spostarci verso Nord, ma ancora è da decidere».
Pensai che fosse troppo presto per tirare un sospiro di sollievo e preferii concentrarmi sugli occhi dei nostri nuovi ospiti, se non altro per rinfrescarmi la memoria: erano ben diversi da quelli di Edward o dei suoi fratelli – mentre i loro cangiavano da un topazio caldo a un nero pece, quelli di Laurent, Victoria e James erano neri, ma con striature rosso rubino che, ci avrei giurato, avrebbero saputo come risplendere perfino sotto la più oscura delle notti. Mi vennero i brividi.
«Non vi preoccupate», minimizzò Carlisle, «anzi, ci farebbe piacere se tornaste a trovarci, qualche volta, magari potremmo approfondire la conoscenza», propose con calma.
«Magari torneremo già a stomaco pieno», rise Victoria e Laurent con lui.
«Potreste fermarvi anche adesso», si mostrò disponibile Carlisle, «immagino che sarete stanchi, vorrete rilassarvi, tanto non saremmo stati comunque tutti a casa, stasera, alcuni di noi andranno a caccia», sorrise e era più che evidente, almeno per me, a chi si stesse riferendo.
«No, grazie», rispose James, prendendo la parola per la prima volta.
Laurent lo guardò senza capire.
«Non vogliamo trattenerci troppo», parlò, e un sorriso torvo piegò le sue sottili labbra.
Nulla di quella situazione, né del suo modo di muoversi e parlare riusciva a tranquillizzarmi: sentivo di doverlo temere profondamente, che era sensato quel gelo nelle vene che mi faceva rabbrividire.
Sparirono in fretta, Victoria fece appena in tempo a voltarsi verso di noi un’ultima volta e a salutarci con un sorriso a trentadue denti – già. Era davvero straordinario il modo naturale che aveva quella creatura di muoversi, come se quella condizione fosse per lei la più naturale e congeniale. Nei suoi occhi non c’era la minima ombra di rimorso per ciò che aveva fatto insieme ai suoi amici, a Seattle.
«È stato più semplice del previsto, eh?», tremai, tentando di spezzare il silenzio, ma nessuno mi prestò attenzione: tutti si erano rivolti verso Edward, che ancora non la smetteva di osservare lo spazio ora vuoto dove prima si trovavano i tre. «Cosa hai visto?», chiese Alice.
Edward non rispondeva e Carlisle cominciò a spazientirsi.
«Allora?», ripeté Alice.
«L’ha capito», mormorò, gli occhi completamente sgranati.
Nessuno ebbe il coraggio di dire nulla.
«Ha capito che è umana», la su voce si faceva di sillaba in sillaba più flebile.

«La vuole».


«Devi darci qualche altra informazione, Edward», fu Carlisle a spezzare il silenzio per primo.
«Cosa c’è ancora da dire?», l’altro era totalmente nel panico, completamente spaesato, si muoveva nervosamente avanti e indietro nella cucina di casa sua senza che nessuno riuscisse a calmarlo, «James è un segugio, questo è quello che fa, scova le prede e le caccia!».
«Cosa farà?», domandò Esme, cercando di rimanere calma.
«Di tutto», sibilò Edward, «questa è la sua vita, ama cacciare, ama seguire le tracce,.. L’odore di Bella lo ha colpito immediatamente, ma la mia reazione.. L’ha fatto scattare», si passò una mano sul volto.
«Non riuscivo a rimanere lucido e così sono rimasto con gli occhi fissi su di lui, ero troppo teso.. Non è mai stato abituato a trovarsi un muro di fronte, è stato come innescare una bomba e adesso lui non si fermerà finché non..», lasciò cadere la frase in modo drammatico.
«Dobbiamo proteggerla», disse Esme, con calma.
La sua proposta sortì ovviamente l’effetto che mi immaginavo: la totale incredulità della maggior parte dei membri della famiglia. «No», obbiettò con fermezza Rosalie, «la ucciderà lo stesso. Non ne vale la pena», a quelle parole Edward fu sul punto di scattare, ma la sorella non gli dette peso e proseguì, sta volta diretta esclusivamente a me: «Ecco a cosa siamo arrivati. Noi tutti ti avevamo avvisata e sono certa che, per quanto possa sembrare privo di intelletto, persino Edward ti avrà notificato l’enorme differenza che intercorre fra le nostre specie. Non era che questione di tempo. Ti abbiamo dato una seconda possibilità, perché è solo grazie a noi se sei ancora viva, non ti è bastato? Quante persone possono vantare la stessa fortuna? E guarda in che situazione ti sei messa! A questo punto», fece rivolgendosi di nuovo ai suoi familiari, «saremo più caritatevoli a ammazzarla in questo momento! Se non altro sarebbe più umano».
Esme apparve come sconcertata di fronte a una simile eventualità, ma fu Alice a prendere la parola, immediatamente prima che fosse la madre ad agire.
«Rosalie ha ragione. Dio solo sa a quali perversioni potrebbe sottoporti», disse con fare austero e risoluto.
«Alice!», saltò su Esme incredula e Edward non tardò a rivolgerle un ringhio spaventoso.
«È una possibilità da non scartare», ruggì Alice verso il fratello, «quali altre brillanti idee hai? Lo sai il primo posto in cui si dirigerà quale sarà?».
A quella domanda mi crollò la terra sotto i piedi – Charlie! No! Non potevo lasciare che gli accadesse qualcosa, non a causa mia! Anche a costo della mia stessa vita lo avrei protetto da quella colpa unicamente mia, da quel capriccio di troppo che non mi sarei dovuta permettere. Ero così debole e in quel momento, la persona più a rischio non ero io, ma bensì mio padre!
«Vi prego..», provai a dire, ma Jasper mi interruppe: «Non possiamo farla tornare a casa. Rischiamo che Charlie si trovi a fronteggiare James. Morendo entrambi sicuramente il nostro segreto rimarrebbe intatto, ma non potremmo comunque nascondere i loro cadaveri e ci troveremmo di fronte a un impasse, abbastanza imbarazzante anche: non potremmo lasciare Forks, solleveremmo troppi sospetti in quel caso, ma non potremmo nemmeno rimanere, a quel punto la situazione diverrebbe inevitabilmente compromessa».
«No, dobbiamo tenerla qui», mormorò Carlisle sfregandosi il labbro superiore, «magari di fronte a un clan così numeroso, l’interesse di James potrebbe scemare..», nelle sue parole non avevo mai udito minor convinzione.
«Non potremmo rimanere in questa casa per sempre, ogni tanto avremmo bisogno di andare a caccia e se anche ci sfamassimo uno alla volta», constatò Alice, «gli altri sarebbero comunque troppo deboli per poter fronteggiare James, il quale chissà a quali sotterfugi potrebbe ricorrere per allontanarci. Inoltre, più ci indeboliamo, più invitante diverranno l’odore e il sangue di Bella – in sostanza, in quelle circostanze, rischieremmo di ucciderla noi stessi».
Chiusi gli occhi, cercando di trovare in me stessa la concentrazione necessaria per affrontare una situazione simile: adesso che mi trovavo a casa di Edward dopo che tutta la famiglia, in fretta e in furia, aveva deciso di fare ritorno in luoghi ben più sicuri, non ero più sicura di quello che stesse succedendo.
Ero lì, ma non c’ero veramente.
I miei primi, confusi pensieri volarono a Charlie, ignaro della guerra che stava scoppiando nel mio cuore, assolutamente sicuro che sarei ritornata a casa quella stessa sera, che nulla avrebbe potuto infrangere la nostra, ormai consolidata quotidianità: lui era il primo a essere in pericolo e in quel momento mi interessava soltanto proteggere la sua salute. Perché alla fine, io..
Mi passai una mano sul viso, ormai non riuscivo più a seguire la conversazione che continuava a procedere a ritmo serrato fra i componenti della famiglia Cullen, ma non me ne importava più niente – a loro non interessavo e lo capivo: la mi esistenza rimaneva un disturbo per loro e non era difficile per me coglierne la ragione. Magari per Edward sarebbe stato triste vedermi morire o semplicemente in pericolo, ma alla fine avrebbe potuto sopravvivere anche senza di me – anche lui, alla fine mi avrebbe dimenticata. Del resto, io ero comparsa nella sua vita per un periodo di tempo talmente insignificante.. Aveva passato cento anni senza di me, avrebbe potuto trascorrerne altri cento nello stesso modo.
Ma non potevo permettere che a Charlie accadesse qualcosa a causa mia: era il momento di prendere in mano la situazione.
«Ho un piano», dissi, usando il tono di voce più risoluto che possedessi.
Rosalie a quel punto scoppiò in una risata argentina, così incantevole da commuovere, ma Carlisle la zittì,
«Dicci».
«Esiste un modo per fermare James? Per farlo desistere dal suo intento?», domandai tremante.
Tutti fissarono Edward per un momento incalcolabile, finché lui non capitolò: «No. Lo dobbiamo uccidere».
Trasalii ma tentai di mantenere la calma.
«Quindi o muore lui o muoio io», sospirai.
Nessuno ebbe il coraggio di dire nulla.
«Finché io rimango qui, insieme a voi, lui non attaccherà mai, giusto? Sarebbe un errore troppo grossolano affrontare una famiglia intera, per quanto possa essere temibile parliamo di un’evidente superiorità numerica: non avrebbe mai la meglio», lanciai una rapida occhiata per scrutare il pallore dei visi, improvvisamente interessati, che mi stavano tutti rivolti, nessuno escluso.
«Rimarrò qui, per stasera almeno.. Chiamerò Charlie e gli dirò che rimarrò a dormire, che mi avete invitato a cena. In un modo o nell’altro si farà piacere questa novità. Poi ve ne andrete, e mi lascerete qui da sola, fingendo di andare a caccia – James sarà comunque nei paraggi, dubito che se ne vada da qualche altra parte, no? Se sarò sola, se nessuno darà nell’occhio.. Allora lui verrà. Cercherò di tenerlo impegnato e quando sarà il momento, voi interverrete,.. Così lo ucciderete, senza dargli la possibilità di scappare», finii, con appena i fiato sufficiente per tirare un altro respiro.
«No!», gridò Edward, prendendomi per le spalle, «Ti ucciderebbe! Non posso lasciarti sola, è solo colpa mia». «Hai altre idee?», domandai con lo sguardo assente.
«Sì, partiremo, dirai a Charlie che andiamo.. Non lo so! Potresti tornare a casa tua, a Phoenix..», era completamente caduto nel panico. Mi tirai su, sulla punta dei miei piedi e gli presi il viso fra le mani,
«Edward», dissi con macerato dispiacere, «Ci vorrebbero venticinque ore per arrivare a Phoenix in auto – di certo è esclusa l’idea di infilarsi su un aereo. Morirei prima di poter infilare le chiavi nella toppa della serratura, nella mia vecchia casa. E si tratta comunque di un posto troppo soleggiato perché voi vi possiate mostrare. Ci sono sicuramente molte alternative a questo piano, ma non sono migliori, purtroppo..», sospirai, cercando di sorridere.
«Vorrei soltanto che vi occupaste di sorvegliare casa mia, sapete, per Charlie..», lanciai un’occhiata a Carlisle, «Non voglio che gli succeda nulla», ormai trattenevo a stento le lacrime.
«No!», cominciò a urlare Edward ma ad uno a uno i volti dei suoi familiari si fecero più cupe, serie – era naturale che per loro fosse la scelta migliore, ma lui non lo poteva accettare. Il suo affanno mi appariva così astruso, eppure, pur non capendone la natura, pur immaginando che un semplice senso di colpa o sentimento di compassione potesse sconvolgerlo così tanto, fui grata del terrore che scorgevo nei suoi occhi: ero importante per lui, il suo dispiacere mi confortava. Sapevo che a nessuno in quel posto interessava di me, eccezion fatta per Edward e questo mi rese improvvisamente commossa e felice. La mia morte lo rattristava, l'idea che potessi ferirmi irreparabilmente lo spaventava, destabilizzandolo. Temevo sempre la sorte che io stessa stavo costruendo intorno a me, ne ero sconvolta. Ma per una qualche ragione a me ignota, quei suoi lamenti mi fecero sentire meno sola, a casa. Si preoccupava per me, aveva paura per me e questo mi faceva sentire voluta. Mi faceva sentire come se, il fatto che io fossi ancora in vita, nonostante tutto, non fosse uno sbaglio.
«Non è detto che muoia..», provò Emmett a quel punto.
«Non potete essere d’accordo con questa cosa!», sbraitò l’altro, fuori di sé, «Morirà!».
«Edward», richiamai la sua attenzione, «andrà tutto bene».
Mi guardò esterrefatto, senza riuscire a muovere un muscolo e in quel momento captai con chiarezza i sentimenti che lo animavano: erano gli stessi che provavo io. Dolore, un dolore acutissimo e un dispiacere così tremendo e freddo che mi rendeva una vittima a testa china, senza speranze.
Ero spacciata – pochissime erano le probabilità che mi salvassi, nessuna che mi salvassi senza riportare danni gravissimi, eppure non c’era altra soluzione che quella: non sarei scappata.
Se sarebbe servito a salvare Charlie, allora sarebbe potuta valere la pena.
Sulla mia morte, ero certa che i Cullen avrebbero potuto ricamare una bella storia e anche parecchio convincente che li avrebbe scagionati del tutto e Charlie non avrebbe sospettato nulla: nessun altro carico si sarebbe aggiunto alla pena già enorme che stavo per infliggergli.
Guardai attentamente Edward negli occhi, decisa a carpire ogni più piccolo dettaglio di quel colore così caldo e accogliente, nella speranza di poter portare con me almeno quell’ultimo, dolcissimo ricordo.
Era la fine.
«Sì, andrà tutto bene», sorrisi senza convinzione,
«Mi credi?».
  
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