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Autore: Vella    16/05/2014    5 recensioni
Una famiglia. Una contea. Una residenza.
Jenkins. Buckinghamshire. Winslow Hall. Anno 1896.
Tre storie apparentemente scollegate fra loro. Tre mondi. Tre amori. Tre, il numero perfetto.
Daniel Shaw è un poeta profondamente enigmatico, strano, seducente, romantico. Cerca la sua musa ispiratrice, trovandola d'improvviso in Wendy, una ragazza benestante e solare, con un segreto. Così nasce un amore sconfinato, senza vie, dal sapore della proibizione e dello sbagliato. Un amore fatto di sguardi e di intensi contatti umani.
Viktor Mitchell, uomo di ventotto anni, rude, agognato, senza alcuna forma di desiderio. Veterano di guerra. Ed ora divenuto professore per l'istruzione di famiglie d'alto rango. Un uomo davvero, forse troppo, sbagliato e pieno di peccati. S'innamora perdutamente di Katherine, una ragazza di diciassette anni, giovane, ribelle, forte, eppure la sua unica alunna.
E infine Gerard Collins, ventiduenne, senza tetto, soldi o famiglia. Un gigolò in cerca di amore tra persone che non lo completano. Per questo quando incontra Henry il tumulto di sentimenti che si forma nel suo cuore, lo confonde.
Henry, Wendy e Katherine sono fratelli. Sono la famiglia Jenkins. Sono sbagliati perché non seguono le convenzionali etichette ma lo struggente filo conduttore dell'amore più remoto.
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, L'Ottocento
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Avvertimento: possibile sarcasmo non voluto. Insomma, certe volte le battute te le tirano dall'anima! Buonas letturas. Ci vediamo in basso.

L'Ascesa

Il sole sorgeva sulle sponde della sua vita, gli occhi ricolmi di interesse erano posati su quel mare verde e brillante qual era il prato. La Contea del Buckinghamshire era un posto davvero meraviglioso: bruciava come il fuoco nei mesi estivi e le ragazze più giovani vestivano abiti di lino, le contadine si prostravano ai bordi di un lago e baciate dal sole lasciavano intravedere tutto dalla sottile veste che le proteggevano e a col tempo le divideva dal caldo afoso. In primavera miliardi di fiori colorati, tra cui i più belli lillà, infestavano la raduna e donavano quel tocco di risveglio ad ogni essere vivente, compresi gli uomini. E in autunno, concesse Gerard, le foglie marroni e giallognole cadevano con grazia sul letto di terreno alle estremità degli alberi. Il vento giocherellava con i capelli delle nobildonne e poche famiglie si apprestavano nell'organizzazione di feste voluttuose. In inverno, invece, proprio come quello lì, il freddo stringeva attorno alla gola della Contea ed il fuoco era solo un'ombra del calore che si avrebbe preferito provare. La carrozza sballottò ancora una volta il suo corpo e il giovane gigolò guardò la “mamà” mentre si lasciava andare ad un riposino. Ormai era ora. Lo percepiva nell'aria, nel cocchiere che esclamava “ooh...” e nel battito del suo cuore che decelerava, scandendo pian piano quei secondi pesanti.
La carrozza era ferma lì, davanti all'imponente villa, piena e rigogliosa nel putrido inverno. Gerard ravvivò i capelli con un gesto istintivo ed aspettò pazientemente, nella sua muta angoscia, che i cancelli si aprissero e che il mezzo traballante fosse stato guidato sul retro di Winslow Hall. Nel frattempo, dopo essersi persa il fantomatico spettacolo suggestivo dei prati e degli uccelli canterini, dopo aver russato appena ed essersi riposata abbastanza, Charlotte aprì gli occhi e il suo figlioccio non poté che guardarla con attenzione mentre aggiungeva una forcina alla capigliatura e si stirava il vestito con i palmi delle mani.
Solo dopo svariati secondi si accorse che Gerard la stava osservando e quindi si protese verso di lui, schioccandogli con dolcezza indesiderata un bacio sulla guancia destra.
―Sei stanco, piccolo caro?― fu poco più di un sussurro prima che il cocchiere aprisse la portiera per farla scendere.
―Nel retro?― riuscì solo a controbattere Gerard mentre la donna scendeva dalla carrozza e gli sorrideva con mesta compassione.
―E dove credevi che venissero accolte le sgualdrine, mio piccolo caro?―
“Piccolo caro” ora risuonava nella mente del giovane quasi come una tortura.
Scese anche lui e al fianco della donna aspettò che i carri sopraggiungessero e trovassero un posto comodo dove lasciare le donne doverose.
Il ragazzo si guardò attorno e rimase quasi sconcertato nel vedere ciò che lo circondava. Non era il retro della casa, ma delle cucine. I porci si crogiolavano nel fango rinchiusi in semplici recinzioni in legno fradicio, le mele acerbe erano buttate d'un lato pronte per essere divorate da quegli animali per nulla puliti e... vagamente carini. Le cucine affacciavano in una piccola fattoria disgiunta, una parte era formata dalle stalle, dall'altra, dove si trovava lui, non c'erano altro che animali pronti per essere uccisi e imbottiti di patate cotte e cipolline. Gerard era quasi del tutto certo che far scendere le prostitute in una marea di escrementi, galline congelate nei pollai e di forti maiali in calore, non fosse affatto una giusta azione.
―Vieni, Gerard, da questa parte―, ripeté per la seconda volta Charlotte, non l'aveva sentita, era immerso temporaneamente nei suoi pensieri, e quando la vide indicargli la strada, si affrettò a raggiungerla e cercò di farsene una ragione; in effetti doveva farsela senza troppi indugi.
Le cucine di Winslow Hall erano abbastanza ampie, con soffitti in legno bassi, i fornelli sempre accesi e grosse pentole con acqua permanentemente bollente.
Una serva dai capelli un po' grigiastri e ben formosa nel suo grembiule bianco, li accolse. Tutti, e pensò proprio tutti, erano immersi in quelle intense preparazioni. Il cibo sgorgava da ogni parte di mille tipi e lo stomaco di Gerard si trattenne dal brontolare rumorosamente.
―Di qua, venite.― La governante, o così gli pareva che fosse, li trascinò al di fuori delle cucine e così, dovettero salire un paio di rampe in marmo raffinato per raggiungere la vera casa. Quella che tanto aveva atteso di vedere. Quella che tanto bramava di conoscere e di concedersi il piacere di capire. Capire perché Charlotte era così... così... esaltata.
―Come avete detto di chiamarvi?― le chiese la milady.
―Non l'ho detto, sono Sheila, la governante di tutto questo ben di Dio.― Gerard soffocò una risata e la sua matrigna evitò di guardarlo. Mentre la donna di nome Sheila chiudeva l'ultima porta in mogano dietro le loro spalle, Charlotte continuò con le domande, imperturbabile:
―Oh, e allora cara mia governante, qual è la nostra meta? Dove ci stiamo recando?―
Sheila tamburellò le dita sulle pareti e senza voltarsi, esclamò la risposta quasi come se fosse una cosa del tutto ovvia:
―Milady, orsù, state per incontrare il maggiordomo.―
E a quel punto Gerard non poté più trattenersi e si lasciò scappare una risata grossolana che riuscì ad irritar la mamà.
―Il maggiordomo, donna?―
―Non sono “donna”, o meglio, potete risparmiarvi questo appellativo. Chiamatemi pure... governante. Oppure chiamatemi in tutti i modi che vi pare, a patto che usiate una lingua da me non compresa. E... sì, il maggiordomo milady.―
A Gerard doleva la pancia.
―Per l'amor del cielo, governante! Io non ho intenzione di incontrare il maggiordomo, guidatemi dal signor Jenkins. E che sia a conoscenza della mia visita, ora.―
Sheila a quel punto si fermò e senza fiatare girò il busto e guardò il viso truccato di Charlotte con assoluta serietà:
―Per lo stesso amore che Mr Jenkins prova per il cielo, non ha nessuna intenzione di incontravi, milady. Mi rammarico di ciò ma credo che farsene una ragione sia più opportuno, in questi casi.―
La faccia sbigottita di Charlotte era impareggiabile, Gerard aveva smesso di ridere e con solo il sorriso sulle labbra ascoltò le parole di Sheila; erano entrambe abbastanza tese. Lo notava dalle mani intrecciate della matrigna e dalla rigidità nel corpo burroso dell'interlocutrice.
―Cosa dovrebbe illustrarci il maggiordomo, Mrs Governante?― domandò lui. L'ironia nel suo tono non passò inosservata e Sheila ritornò a camminar velocemente.
―Giovanotto sono ancora una brillante signorina. E il maggiordomo ha il compito di illustrarvi le camerate per tutte le vostre belle figliuole. Esse saranno collegate al piano da voi riservato codesta sera. Oh e... buon 1896!-
―Tanti auguri anche a voi e che sia un anno prosperoso, Mss.― Rispose Gerard.
E fu così che vide un giovane uomo corto e robusto, con un papillon a pois sbucare alla fine del corridoio. Doveva essere il famigerato e poco atteso maggiordomo. Charlotte era davvero irritata, guardò l'uomo mentre salutava entrambi e si protendeva in lusinghe poco attendibili, aspettò che finisse prima di dir qualcos'altro. E di nuovo si rivolse a Sheila, quella donna che le stava tanto simpatica.
―Ditemi, ve l'ha riferito lui di non volermi incontrare?―
La governante sospirò e si cacciò le mani nelle tasche pronta per ritornare indietro.
―Milady, chi altri sennò? Ed ora scusate la mia poca buona educazione ma devo raggiungere nuovamente le cucine. Buona permanenza a voi.― E così facendo Gerard non la vide più, almeno non quel giorno. Il Ballo Nevoso si sarebbe tenuto esattamente il giorno dopo e gli invitati arrivavano con tale impeto e animo pieno di sentimenti incompresi che i domestici, come i padroni, non sapevano tenerli a bada. Anche perché ormai l'intera Contea aveva vociferato il grande regalo e sorpresa di quell'anno. Il più maestoso bordello anglo-francese si sarebbe appostato al terzo piano nella villa, e politici, politicanti, artisti, conti, duca, gli uomini più prestigiosi avrebbero giaciuto con le miglior sgualdrine e quel ballo avrebbe fatto un gran furore.
Ma la sorpresa, la sorpresa più grande, erano la presenza dei Gigolò. I gigolò non erano mai stati ammessi alle feste, i gigolò erano uomini che non potevano esser visti, così come le donne che li sceglievano; per questo e per altri motivi abbastanza ovvi, il ballo era mascherato.
Come, quindi, impedire a quelle anime in calore di sprizzar gioia e di bere whisky già dall'alba fino a che l'evento non sarebbe cominciato? Tutto, purtroppo, così retorico per Gerard.



L'erba era bagnata, il vento soffiava piano insinuandosi tra i suoi capelli e lasciando che il fumo della sigaretta si allontanasse dal suo corpo gessato. Aveva il solito cappotto abbottonato sino al mento e gli occhi rossi per via del freddo imminente. La sigaretta che teneva stretta tra le dita era quasi finita, aspirò un altro boccone di nicotina e si strinse nelle spalle, dietro all'albero di ciliegio, dove cui era nascosto volontariamente. In balìa dei suoi più ovvi pensieri e dei suoi timori più incalzanti.
Viktor buttò il mozzicone nel prato quando sentì il trotto di cavalli sul sentiero principale. Sbucò dal nascondiglio, lasciando perdere tutto il resto, e rimase nella penombra dell'albero mentre la carrozza dai colori azzurrini attraversava la via per fermarsi davanti al portone principale. Sospirò. Erano arrivati. Così come gli era stato detto, l'orario impeccabilmente preciso, tutto esattamente giusto.
Vide mentre ogni componente scendeva uno ad uno dal mezzo e i loro abiti sontuosi, i loro sorrisi smaglianti, la loro gentilezza così irritante che lo raggiungeva.
Vide, vide tante cose da quella prospettiva. Vide il signor Jenkins uscire dal portone e prostrarsi a quella gente, contento più di un bambino. Vide il cocchiere che trasportava le valige con forza disumana e la tanta ricchezza che viaggiava nell'aria.
Come i fuochi d'artificio, le sue orecchie erano pervase da quella brutta sensazione di rumore, un rumore pareggiabile ad una bomba, e l'erba umidiccia sotto i suoi piedi gli ricordava tanto il campo. Con il pollice accarezzò la cicatrice sul collo e non rimase sorpreso quando vide la chioma nera di Katherine scendere le gradinate e fermarsi davanti ai nuovi ospiti. Era rigorosamente ottocentesca. Con quei capelli avvolti sulla testa, il vestito chiuso fin sotto al collo e un vago sorriso sulle labbra. Viktor la guardò per qualche istante ma i suoi occhi ben presto furono rapiti dagli stivali di un baldo giovane in un blu ortodosso e dai capelli di un marroncino chiaro, timido, gli parve da lontano. E poi la donna al suo fianco e l'uomo che l'accompagnava insieme ad una bimba di appena dodici anni, ancora una volta gli parve.
Ma era la donna che a lui interessava. Nei suoi abiti chiari e con i capelli biondi. Schioccò la lingua sotto il palato e non poté che constatare quanto quella famiglia così prestigiosa fosse inutile. Lui, lui che odiava la borghesia, lui che odiava quel mondo, lui che aveva vissuto la miseria, il disonore, la fame, la sete, le torture più anguste... lui che si ritrovava sfregiato, mezzo zoppo, con gli occhi ombrati di una malinconia fatiscente, eccolo lì, oltre ad essere una macchina assassina pronta ad uccidere senza scrupoli alcuni, era diventato anche un burattino di legno, i cui fili erano un legame più forte della libertà.
E sparì da dietro l'albero, lasciando al sole quella bella veduta.



Katherine guardava dinanzi a sé, al fianco del padre, mentre quest'ultimo rideva ad una nuova battuta di Mr Griffiths.
La famiglia Griffiths abitava a nord di Londra, era una famiglia ricca, potente, di un certo rango, i cui unici eredi erano due figli conformi alla vita. Il primo era un giovane ragazzo di vent'anni, o così le sembrò a lei. E la più piccola invece ne aveva dieci, era stata molto desiderata e nella contea si vociferava che non fosse figlia di Mrs Griffiths, soprannominata “sterile di stile ma non di fatto”. Katherine aveva sempre trovato molto spassose quelle storielle, quei pettegolezzi, eppure ora che aveva davanti quella donna non riusciva ad immaginarla come il centro di tanti pensieri. Come poteva una signora così essere il fulcro di tanto scalpore? La sua rigidità andava oltre.
―Sarete stanchi, miei cari. Vi prego, entriamo.― Disse Ernest. Katherine alzò lo sguardo che si posò delicatamente su quello del giovane della casa Griffiths. Si diceva, sempre in paese, che cercasse moglie. E il padre non aspettava altro.
La famiglia Griffiths aveva una casa in campagna nella Contea del Buckinghamshire, e il padre aveva insistito che lei si presentasse appena fossero arrivati a Winslow Hall; cosa poteva fare se non assecondare? Sentiva un forte trambusto nel suo animo e gli occhi indagatori del giovane, seguito da quelli languidi del padre di lui, non l'aiutavano. Era oppressa, come un agnello da macello. E in quel momento, mentre salivano le gradinate e il portone si apriva davanti a loro, la figura massiccia e rigorosa di Viktor le apparì davanti, e se pensò di aver avuto una visione d'angelo, non poté che vergognarsene.
―Salve, signori.― Fu quello il suo saluto, seguito da un sorriso veloce e, quando le passò accanto senza guardarla e sparì prima che lo raggiungessero, Katherine provò un altro moto di vergogna; e non sapeva bene rispetto a cosa.
Non aveva di certo visto lo sguardo che Mr Mitchell aveva fatto cadere sbadatamente sul viso incipriato della signora Griffiths.



―Quand'è che inizierò ad espiare i miei peccati e smetterò di scappare dalle mie stesse vittime?― la domanda riecheggiò nell'appartamento. Così come riecheggiò nella mente di Daniel e vi si soffermò per un tempo indefinito. Era seduto sul capezzale del letto, in mano stringeva un foglio giallastro e scriveva frivole frasi fatte e sentite da troppo tempo. Un groppo in gola gli devastava l'anima, gli devastava il corpo, i pensieri, le sue paure. Il panciotto che aveva indossato quella mattina gli stringeva troppo il busto, il suo alloggio gli sembrava terribilmente piccolo e soffocante, la giornata fuori non era delle migliori. Il cielo era lo specchio dei suoi sentimenti. Era lo specchio che continuava a riflettere ogni sua singola incertezza, liberandolo e castigandolo.
Si riempì un bicchier d'acqua e lo trangugiò senza pudore.
In verità lui continuava ad essere ossessionato dalla capigliatura rossa. E più ci pensava, più ne rimaneva bloccato, essiccato come un fiore. Più pensava al corpo snello ed equilibrato di Wendy e più s'infiammava, s'eccitava. Ma non nel modo in cui uno stupido uomo si definisce eccitato; la sua eccitazione proveniva dai meandri più remoti del suo genio, si propagava nel corpo, nelle vene, irradiando energia, e fuoco liquido che bruciava ogni radice di razionalità.
Si morse le labbra e lasciò perdere la sua arte ancora una volta, rifiutandosi di limitare la sua mente ad una matita e a delle parole grige.
La stanza affacciava sulla parte ovest del parco di Winslow Hall; una grossa finestra illuminava l'appartamento, rendendo tutto molto più gradevole. Vi si affacciò, in penombra a causa del vetro, immerso nella sua aura di concentrazione. Vi si affacciò e il suo cuore, per la prima volta, perse un battito. E no, non stava per lasciar quella vita. Aveva solo visto volteggiare la sua musa, volteggiare delicatamente con qualcuno che non era lui. Il fiato gli si mozzò in gola, e la sua testa smise di ragionare, di collaborare. Che cosa stava facendo? Che cosa stava vedendo? La sua Calipso... la sua ninfa, la figlia di Zeus, la vita nascente... che cosa era in grado di fare quella creatura al suo animo? L'avrebbe distrutto? Sì, lo avrebbe pugnalato lentamente, con ardore, con passione.
Wendy camminava nel parco, con le mani sul grembo, un sorriso timido tra le labbra, gli strascichi dei vestiti che le scendevano delicatamente dai fianchi in giù. La voglia di stringerla forte tra le braccia cresceva inesorabilmente.
“Chi è?” fu la prima domanda che si versò nella sua mente. Ed iniziò a respirare a fatica. Al fianco di Wendy, un giovane uomo rideva di gusto, prendendola per mano, baciando diligentemente le nocche, regalandole sorrisi civettuoli. Poteva continuare in quel modo? Evitandola? Evitando il suo corpo che continuava a sprizzare un'attrazione malsana? Poteva persino disprezzarla? No. No, non poteva. Lui non voleva. E il cuore gli dolse quando capì che non sarebbe mai stato in grado di prenderla in disparte e osservarla negli occhi sapendo che lei lo guardava per quello che era. Con la sua naturalezza. La sua innocenza. Espirò rumorosamente quando il suo genio prima di andare in cortocircuito riuscì a trasmettergli un briciolo di sensata idea.
Voleva che Wendy lo desiderasse. Così come mai aveva desiderato nessun uomo. E ci sarebbe riuscito, ce l'avrebbe fatta, perché lui aveva il potere di modellare il tempo e di trasformarlo in arte, in piccoli istanti di pure gocce vitali. Il Ballo Nevoso lo avrebbe ucciso e insieme vi avrebbe trascinato la sua musa ispiratrice.



―Buon Dio, quanto mi sei mancata.― le braccia di Mr Ermakje si poggiarono sui sottili fianchi della rossa donzella e il suo viso si avvicinò delicatamente, fino a che le labbra del conte non si insinuarono sul collo di Wendy e vi indugiarono a lungo, strappando dalle labbra di lei un gemito di piacere.
―Oh, signore, perché mi fate questo?― rise, staccandosi dal conte con una certa delicatezza, sperando vivamente che non lo prendesse come un rifiuto.
―E perché tu non ti lasci cullare dai piaceri della vita che io, perfettamente, posso donarti?―
Wendy arrossì e poggiò le mani sul petto del suo pretendente.
―Mi date del tu, adesso.― Forse una parte di lei bramava ardentemente di lasciarsi toccare dalle mani astute ed esperte del conte, ma un'altra parte sapeva che la cosa migliore era cambiar discorso, distogliere quei pensieri dal fine desiderio.
Ti dà fastidio, mia cara? Presto saremo un corpo ed un'anima sola, un singolo respiro, un battito accelerato di un sol cuore. Perché fermarsi a queste banali ricorrenze? Dovresti anche tu iniziare a lasciar perdere il voi.― Il sorriso del conte Ermakje era bello, luminoso, attraente. Lui lo era. Un po' rude nei portamenti, un uomo fine nella mente, e Wendy lo aveva catalogato come una delle persone più attraenti che avesse mai incontrato.
―Signore, io...―
―E smettila di chiamarmi signore, Wendy.― sottolineò ancora, apparentemente irritato, ―io sono George per te, e molto altro ancora. È ora che tu inizi ad abituartene.―
Il conte era arrivato quella mattina presto, aveva fatto colazione con la famiglia Jenkins e dopo aver scambiato alcuni convenevoli con il capofamiglia, aveva spedito la sorella nelle sue stanza e si era impadronito della sua promessa, perché ne aveva bisogno. E perché la sua innocenza lo faceva impazzire. Ogni uomo sarebbe diventato folle davanti a tanta dolcezza e purezza.
―Cosa volet-... oh, scusat-... sì, sì, lo so.― sbuffò allora la rossa con un vago sorriso sulle labbra, chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro prima di riprendere il filo del discorso:
―Cosa vuoi dire, George? Cosa vuoi condividere con me, mio caro conte?― la mano di Wendy accarezzò il viso pulito e profumato dell'uomo e lui la strinse al suo corpo, trascinandola dietro ad un albero di pini. Era così leggera tra le sue braccia, come una piuma. Era anche intelligente, riusciva a cogliere ogni sfumatura in ogni singola frase. Quei vaghi doppi sensi non la spaventavano per niente.
―Una volta mi capitò una cosa assai strana che mi fece ridere per un giorno intero. Ero seduto al tavolo di un bar, nel centro di Londra. La gente si affrettava nel parlare e sguazzare nei pettegolezzi; c'erano due nobildonne sedute poco più distanti da me e si stavano godendo un tè pomeridiano.― Rise pervenuto a tal punto.―E si confrontavano su quelli che, usarono codeste parole, consideravano “orrori del letto coniugale”. E tu, Wendy? Credi a queste dicerie? A questi orrori coniugali?― la mano del conte iniziò a giocherellare con il merlo del corsetto e la giovane si ritrovò con le spalle a pochi millimetri dalla corteccia dell'albero e con il fiato dell'uomo ad una distanza enormemente piccola.
―Perché, conte? Io non sono coniuge di nessuno.― Che frase astuta, pensò lui.
―Ancora per poco.― Si udì a malapena e Wendy represse un sorriso di compiacimento, non per lei, ma per il padre.
―E chi è il fortunato?― George rise, rise con forza, poggiando le braccia alla corteccia e bloccando l'esile corpo della sua donna.
―Io.― E se un un tuono avesse scalfito il cielo, l'effetto finale sarebbe stato più scenografico.
Allora si avvicinò di poco, pronto a toglier del tutto quella distanza tra loro e non fu gentile, lo fece e basta. Schiacciò il corpo di Wendy con il suo, godendo dei gemiti che uscivano dalla bocca della giovane. Indugiò poco sulle sue labbra e poi, poi se ne impadronì completamente. Non fu un bacio casto, per nulla. Il corpo di lei fremeva e la giovane non sapeva nemmeno perché; portò le mani nei capelli del conte e lo strinse ancora più forte a sé, se ciò fosse stato possibile. Le loro lingue si incontrarono come onde e scogli in una bufera d'inverno. Ansimarono quando dovettero riprender aria e le mani di lui si soffermarono sui lacci del corsetto per troppo tempo.
―Sei dissetante ed io sono così disidratato...― Stava per ritornar tra le acque della sua bocca ma Wendy si scostò, riportando ordine tra i suoi pensieri e tra i capelli arruffati.
―Non siate famelico, George.― Tornare così bruscamente al voi, raffreddò l'intimità e il conte capì che per adesso bastava quell'assaggio. Bastava abbastanza da averla sconvolta. E notava nei suoi occhi verdi quella curiosità, desiderio, nello scoprire cosa ci fosse oltre.
―Vi riconoscerò domani, Mss?― rimase al gioco anche lui, accennando un mezzo sorriso mentre si passava una mano tra i corti capelli neri.
―Dipende, signore. Siete capace di riconoscere un papavero in un campo di rose rosse?― somministrò le parole Wendy.
―Solo se quel papavero mi sorriderà.― E allora Wendy annuì lasciando che le mani del conte si allontanassero da lei.
―Non sbagliarti, mio caro. Potrei non perdonarti.―
―Ah, voi donne! Voi e la gelosia! Neanche il tempo di cadervi tra le braccia e pensate già alle vostre acerrime nemiche.―
Ma Wendy non pensava alle sue acerrime nemiche, pensava a quella notte, pensava a ciò che aveva appena fatto e al gelo che aveva sentito mentre la baciava, un gelo così dolce che aveva spento il suo fuoco, ma l'aveva resa euforica.
Aveva appena baciato il conte. E il conte le aveva detto che l'avrebbe sposata. Ma non gliel'aveva chiesto. Tutto ciò non le sfiorò neanche per un secondo i pensieri, era troppo impegnata a rispettar l'etichetta e a piegarsi al volere del mondo tranne che al suo.


Spazio scrittrice:
Troppo lungo? TROPPO LUNGO? TROPPO LUNGOOOOO? Beh, ragazzacci miei, sono tre settimane che non pubblico! Cosa avrei dovuto scrivere? Quattro cosette? Insomma, questo capitolo è fondamentale perché praticamente domani ci sarà il Ballo HAHAHAHA. No.
Gosh, questo Ballo ucciderà tutti.
Cosa avete preferito di questo nuovo capitolo? çWç, io ho amato scrivere tutto, ma in particolare la situazione di Wendy. Ne aveva bisogno, la ragazzaccia.
Perdonatemi per il ritardo nel pubblicare, ho avuto un periodo "stand-by" ma ora sono ritornata e si salvi chi può!
Lo scorso capitolo è stato calcolato poco ma non importa, in compenso moltissime persone hanno aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate ed è davvero una soddisfazione unica.
ps: le avvertenze sopra non erano poi del tutto infondate! :P
Aspetto davvero dei vostri pareri, un bacione. A tra qualche giorno, ragazzacci!



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