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Autore: marani    19/05/2014    1 recensioni
Domanda: l'amore è sempre una cosa buona? Di slancio, verrebbe proprio di rispondere sì. Ma qualche volta non è esattamente così. Ed è in quei casi che difendersi si tramuta in una lotta senza pietà. Specie se chi dice di amarci ha poteri che nessun altro essere umano possiede.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAP. 9


Il week-end fu un vero e proprio inferno. Che si scatenò non appena subito le lancette dell’orologio segnarono le sedici. Afferrare la borsetta e scendere a due a due le scale fu un attimo. Avevo già chiuso in un cassetto della mia coscienza la predica (sacrosanta) di Sara. Chiuso a tripla mandata. Sapete quel modo di dire... “vivere alla giornata”? Beh, nel mio caso si poteva tranquillamente affermare che vivevo al minuto. L’unico mio obiettivo era cercare di incontrare Andrea sulle scale per salutarlo ancora una volta. E se non lo trovavo sulle scale andava bene anche nell’atrio dell’edificio. E se non era nell’atrio vada per la via. O anche nel piccolo parcheggio delle auto. Purtroppo del ragazzo nessuna traccia. Guardai l’ora: erano le quattro e sette minuti e, come una tossicodipendente in astinenza, cercai di calcolare quante ore mi separavano dal lunedì mattina, quando saremmo tornati al lavoro. Avevo almeno un paio di ore libere prima del mio appuntamento con Ricky che se n’era andato a fare un paio di vasche in piscina. Solitamente avrei chiesto a Sara di essermi complice in un tour (dispendioso) nei negozi del centro. E se Sara avesse avuto un impegno mi sarei fatta forza e avrei cominciato a dissipare il magro stipendio da sola. Solitamente. Quel giorno al contrario le vetrine non le vidi proprio, pur percorrendo il corso cittadino in lungo e in largo per almeno una quarantina di volte. Il mio sguardo frugava ogni volto, ogni persona nella speranza non troppo remota di imbattermi, non proprio casualmente, in Andrea (ehi, ciao, anche tu qui, ma che combinazione!). Purtroppo chi vive sperando... beh, sappiamo come va a finire. Nonostante la mia determinazione (la tua follia, mi correggeva una vocina nella mente, una vocina che somigliava colpevolmente a quella di Sara) mi ripetesse che di lì a un attimo, dietro il prossimo angolo, dentro il negozio più in là l’avrei incontrato, non successe. Me ne tornai desolatamente alla mia macchina e poi verso casa. Mentre guidavo nel traffico caotico ed esasperatamente lento del tardo pomeriggio, con l’autoradio che sembrava trasmettere solo languide canzoni di amori perduti, non riuscivo a pensare altro che a rivederlo. E questo pensiero accumulava dentro di me nubi scure gonfie di malumore. Poi mi balenò nella mente la possibilità che, anche se non l’avevo trovato, potevo sempre scoprire nella segreteria un suo messaggio (anche muto va bene...), se non addirittura un biglietto nella cassetta della posta (perché no, e magari un mazzo di diciotto rose rosse a gambo lungo sul letto...). Questa nuova scintillante speranza mi costrinse ad accelerare, tra i clacson di protesta delle auto incolonnate lungo il viale.
Naturalmente nessun messaggio, né scritto né registrato né scolpito nel cielo, mi aspettava a casa. Quando il campanello suonò due volte, parte di me sapeva che era arrivato Ricky. Un’altra, più piccola ma con denti affilati e voraci, soffiava sulle braci della speranza. Aprii la porta delle scale e dopo un paio di secondi la figura abbronzata e sorridente (non quel sorriso, però) fece il suo ingresso in casa. Aveva una variopinta t-shirt su un paio di bermuda verde acido, e posò la borsa da piscina sul pavimento.
- Ciao, piccola, tutto bene? - mi chiese. Io feci di sì con la testa, ma non era quello che avrei voluto dire. Niente andava bene. Proprio no, se avevo buttato via il pomeriggio a perlustrare le strade della città in cerca di uno sconosciuto. Lui aprì il frigo e si versò un bicchiere di latte.
- Sono appena arrivata anch’io! - dissi cercando una nota di disinvoltura che non mi usciva - Anzi scusa, devo proprio scappare in bagno... -
Mi chiusi la porta alle spalle. Ricky nel salotto accese la radio, cercando una stazione di musica disco. Perché mi dava così fastidio quel genere, tutto ad un tratto? Appoggiai le mani sul lavandino, osservandomi nello specchio, che rimandava l’immagine di una donna chiaramente sfinita. Osservai la pelle lucida, i segni scuri sotto gli occhi. Persino la bocca aveva una piega amara (sembri il ritratto della Maria Luisa, mi dissi sconfortata) e il risultato generale sembrava essere un po’ più grave di una stanchezza da giornata estiva. Cosa ti sta succedendo?, chiesi alla mia immagine riflessa. Bella domanda. Me la sarò fatta almeno cinquanta volte, negli ultimi giorni. Senza trovare nessuna risposta convincente. Meglio, nessuna risposta e basta. Hai una persona di là che è venuta qui desiderosa di passare con te il week-end, com’è logico e come è sempre stato, almeno negli ultimi due anni. E che probabilmente ha anche voglia di fermarsi qui a dormire (la mia faccia riflessa nello specchio fece una leggerissima smorfia). Per cui, cosa intendi fare? Mi bagnai il viso, cercando di convincere me stessa che tutto quello che era successo stesse sbiadendo lentamente, e che ora avrei dovuto comportarmi come al solito. E di smettere di pensare ad
(Andrea)
Uscii dalla stanza da bagno.
La serata scivolò via anonimamente. Avevo sperato che Ricky avesse organizzato qualcosa con gli amici, ma lui era stanco della giornata passata a nuotare e voleva starsene tranquillo. Io invece avrei preferito andare da qualche parte (da qualunque parte) perché qualcosa dentro di me faceva notare che uscire prevedeva perlomeno una possibilità in più di incontrare Andrea rispetto al restarsene a casa. Mangiammo qualcosa e si finì sul divano a guardare un film alla tele. I miei occhi vedevano lo schermo ma nessuna scena degna di nota restò registrata nella mia mente.
- Non ti piace il film? - mi chiese all’improvviso Ricky - vuoi che cambi canale? -
Io mi abbandonai sul divano, chiudendo gli occhi:
- No, non importa, grazie. E’ che non mi sento affatto bene (ed era la verità), anzi mi sento proprio sfinita. Forse una bella dormita mi rimetterà in sesto...-
Lui mi accarezzò dolcemente la testa:
- Ok. Vuoi che resti qui se per caso non dovessi sentirti meglio? -
- Mmh, no, Ricky, grazie. Ma credo che sia solo bisogno di dormire. Vai pure, ci vediamo domani...-
Lui si alzò, chinandosi per darmi un leggero bacio sulle labbra, prese la borsa con le cose da nuoto e uscì dall’appartamento. Dopo un attimo mi alzai a fatica, feci un giro per spegnere le luci e mi buttai sul letto. Senza andare in bagno. Senza neanche svestirmi. Un sonno buio come la notte mi ghermì immediatamente.


CAP. 10


Bene o male, non so come, ma il lunedì arrivò. Arrivò con un alba già tiepida, che mi trovò ad occhi spalancati ad osservare la sveglia sul comodino. Le sei e dieci. Più di un’ora prima del momento in cui il suo stridulo suono si sarebbe sparso per la stanza strappandomi ai miei sogni. Credo fosse successo solo un altro paio di volte da quando ero andata a vivere da sola. E adesso invece due volte di seguito, dato che anche il giorno prima, la domenica, mi ero ritrovata ad un’ora antelucana a pestolare inquieta per la casa silenziosa. Pensando e ripensando ad Andrea. Senza riuscire a combinare niente. Accendevo e spegnevo la televisione decine di volte, mi sedevo un secondo, aprivo un libro e un attimo dopo ero già in piedi a fare la spola tra la cucina e la finestra e la porta e il telefono (che dormiva muto). Avrei voluto uscire a passeggiare per il centro, mischiandomi con le famiglie che uscivano dalla messa, per scoprire se per caso Andrea fosse uno che la domenica va a farsi la classica “vasca” in centro. Ma subito dopo mi ritrovavo a considerare che non appena fossi uscita il telefono avrebbe cominciato a trillare, a vuoto a vuoto e a vuoto. Già il telefono... Non so cosa avrei pagato per potergli telefonare, ma mi mancavano alcuni elementi fondamentali, tra cui il numero o al limite il suo cognome. Cosa potevo dire all’operatore del servizio 12? Mi scusi, mi potrebbe dare il recapito telefonico di un certo Andrea, dal ciuffo folto e gli occhi tristi? Per cui rimasi paralizzata come un animale di fronte ai fari abbaglianti di un auto, senza neanche trovare il modo di riflettere serenamente su tutto ciò, e di decidere una linea di comportamento. A fatica arrivarono le due e la consueta scampanellata di Ricky (sapevo che era lui, ma andai comunque a rispondere al citofono con il fiato sospeso). Andammo a trovare degli amici, per un lungo e agonizzante pomeriggio in cui le ragazze parlottarono di vacanze e di costumi da bagno e i ragazzi facevano la spola tra le sdraio tatticamente posizionate sotto gli alberi e il frigo. Ma, come ho detto, il lunedì si presentò puntuale come sempre e mi trovò nell’atrio della biblioteca, con tutti i sensi all’erta come un radar, a scrutare e scartare volti, figure, persone. Come al solito lui mi sorprese alle spalle, cogliendomi impreparata e tremante (speriamo che non si accorga troppo della mia agitazione, pensavo annaspando nel voltarmi, speriamo...) sorridendomi con quello sguardo agrodolce che ricordavo ed anelavo.
- C-ciao... come va? - fu il mio originale saluto.
- Bene. Ti ho pensato - ribatté lui senza mezzi termini, facendo sobbalzare il mio cuore. Un paio di persone mi passarono accanto salutandomi, ma né in quel momento né in seguito avrei saputo ricordare chi fossero.
- S-sì... er... anch’io... - risposi, e mi sentivo perfetta nell’interpretazione femminile di Forrest Gump. Lui mise ancora in moto il suo sorriso, e sembrava veramente felice:
- Mmh. E non va bene così? - rispose (no, non va affatto bene, disse una voce nella mia testa, ma le badai appena). Stavo frugando nella mente per ribattere qualcosa di diverso da una balbettante idiozia quando la figura incombente della Maria Luisa apparve sulla sommità delle scale. Dall’espressione della faccia dovevamo aver commesso lo stravolgente delitto di fermarci a chiacchierare due minuti oltre l’orario d’inizio. Lui mi lanciò una buffa occhiata di complicità e si congedò:
- Siamo sotto tiro, a quanto pare. Meglio sparire...ah, a proposito, avanzo una pizza, mi sembra... -
Poi se ne andò, senza lasciarmi il tempo di replicare. Lentamente, mi avviai verso l’ultimo piano. Tutto a un tratto l’inspiegabile spossatezza che mi aveva attanagliato (e spaventato) prima del week-end tornò a farsi viva. Mi sentivo le gambe di piombo. Per tutta la mattina feci molta fatica a concentrarmi sul lavoro. Andai a pranzo con lui nei tre giorni successivi. Il lunedì dribblai quasi abilmente la richiesta di Sara di uscire assieme, ventilando una visita di controllo dal dentista (e per fortuna che mi hanno chiamato loro per confermare l’appuntamento, perché se era per me gli tiravo buca...), martedì invece fu il turno di un non meglio identificato regalo da comprare per una non meglio identificata ricorrenza di mia cugina. Mercoledì mattina, verso le undici, stavo cercando di trovare un po’ di refrigerio dall’afa sfruttando la corrente d’aria che si era creata tra il corridoio e la finestra, mentre controllavo la lista degli autori stranieri del novecento appena battuta al computer. Improvvisamente, subito dopo Hemingway Ernest e prima di Hess Hermann, notai un blocchetto di testo che non avevo certo inserito io. Era scritto molto piccolo, in un corpo quasi illeggibile ad occhio nudo. Lo selezionai per ingrandirlo un po', poi lessi incuriosita:

“...il tuo più tenue sguardo, facilmente, mi aprirà
benché abbia chiuso me stesso come dita.
Sempre mi apri, petalo per petalo, come la primavera fa,
toccando accortamente, misteriosamente, la sua prima rosa.
E io non so quello che c’è in te che chiude e apre,
solo qualcosa in me comprendo,
che è più profonda la voce dei tuoi occhi
di tutte le rose.
Nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani.
A.”

Era un piccola, tenerissima poesia. E l’iniziale posta in calce non lasciava molti dubbi sul misterioso autore. La trovai bellissima. Ma quello che non mi quadrava era come avesse fatto, e quando, ad inserirla in mezzo alla mia lista. Non certo digitandola da un altro computer, visto che per ragioni di riservatezza il sistema non è collegato in rete, se non previ una password conservata dalla Maria Luisa e dal Presidente. Forse era arrivato prima e si era intrufolato nel mio ufficio. Spegnendo tutte le macchine subito dopo, visto che avevo acceso tutto io appena arrivata. Questa era una cosa che ricordavo bene. E avrei voluto ricordare anche altro, a dir la verità, perché non riuscivo a ricostruire a che punto della lista mi ero agganciata quel giorno. Sarebbe stato importante saperlo, perché avevo la netta impressione di aver già scorso la lista alla lettera H, un’oretta prima, e che della poesia non vi fosse traccia.
Comunque quel giorno a pranzo (la faccia che mi fece Sara quando le notificai che anche quel mercoledì, causa una visita inattesa di Ricky in centro, non avremmo passato insieme la pausa pranzo era un equilibrato mix di sospetto e dubbio) ebbi modo di chiedere ad Andrea come aveva fatto ad inserire quella poesia.
- Ah già, quella stupida cosa! - rispose eludendo la mia curiosità Stava armeggiando con un sugoso cheeseburger cercando di non sbrodolare troppo - ti è piaciuta, almeno? -
Io spremetti un po’ di maionese sulle patatine:
- Molto... era così tenera, e forte nello stesso tempo. L’hai scritta tu? -
Lui fece un gesto evasivo con la mano:
- Mah, non so... è una cosa di talmente tanto tempo fa che non saprei giurare se è farina del mio sacco o se l’ho letta da qualche parte... - dopodiché cambiò argomento, iniziando a raccontare alcuni gustose disavventure sue e di alcuni suoi amici.
Quella pausa pranzo, come d’altra parte le precedenti, fu piacevole, rilassante e stimolante nello stesso tempo. Così mi irritò moltissimo accorgermi che una volta ritornata in ufficio un mal di testa feroce stava prendendo possesso del mio cervello, pulsando minacciosamente. Che palle tutti questi malesseri, pensai infastidita. Avevo appena riacceso il computer quando la figura di Sara fece capolino sulla soglia:
- Ciao - mi salutò - tutto bene con Ricky? -
A me strinse il cuore dover ancora una volta mentire, ma non avevo voglia di sorbirmi una predica. Non con quel mal di testa in arrivo. Così feci segno di sì, senza espormi troppo. Lei si appoggiò allo stipite della porta:
- Sai per caso se Ricky ha un fratello gemello che ha il suo stesso timbro di voce? -
“Ahia”, pensai. La guardai: era seria. Molto seria. Mi abbandonai sullo schienale della poltrona. La testa pulsava e doleva come un dente guasto:
- Sara, lo sai benissimo che non ha nessun fratello - risposi con una nota di sconfitta nella voce - qual’è il problema? -
Lei gettò un’occhiata rapida nel corridoio, poi chiuse la porta:
- Il problema è che Ricky ha chiamato verso l’una e mezza... - notò il mio sguardo allarmato e vergognoso - ....tranquilla, ho risposto io, e mi son inventata una riunione con l’amministrazione che si stava dilungando. Non so perché l’ho fatto, e lo vorrei sapere da te. Se siamo amiche, e le amiche fanno di questi favori, non penso che ci siano segreti, tra noi. Giusto? Certo che se mi dici che vai fuori con il tuo ragazzo e questo dieci minuti dopo chiama per cercarti, comincio ad avere seri dubbi sul dentista dell’altro ieri e sul regalo da comprare di ieri... O no? -
Io chinai il capo, mentre l’emicrania mi concedeva un attimo di tregua:
- Ok, ok... sono uscita a pranzo con... con Andrea. Non te l’ho detto perché so che avresti disapprovato -
La mia amica sbarrò gli occhi:
- Tutti e tre i giorni? - chiese, conoscendo già la risposta.
- Oh, via, Sara... siamo andati in pizzeria, e al Burgy. A parlare. Tutti luoghi pubblici, zeppi di gente
(strano, non ce n’era poi molta...)
e dove è un po’ difficile commettere adulterio... -
- Ma hai MENTITO!!! - la sua reazione fu una staffilata nella mia anima e nel mio mal di testa - ti sei ingegnata per far passare sotto silenzio questa cosa. Il dentista! Il regalo! Se è una cosa così innocente, perché raccontare balle?!? -
Io mi sentii avvampare di sdegno, perché nonostante tutto era realmente una situazione pulita. Due chiacchiere, una pizza insieme (e la poesia, e il non riuscire a non pensare perennemente a lui) tutto qui. E glielo feci presente:
- Non stiamo facendo nulla di male, come te lo devo dire! E’ solo uno simpatico con cui è piacevole parlare... -
Lei si protese verso di me, piantandomi gli occhi negli occhi:
- Ok, è un tizio simpatico. Ma cosa fa, chi è, in che ufficio lavora? Come si chiama? Ti dico una cosa, ho parlato un po’ in giro e di un certo Andrea non ne sa niente quasi nessuno. Tu, almeno, lo sai in quale sezione della biblioteca è impiegato? -
- Beh... credo che sia giù all’economato... Almeno, so che si dirige sempre verso... -
Ci pensai. Effettivamente era un po’ poco, come indizio. Non mi ero mai posta il problema, a dire il vero. Sara aveva un supponente ghigno di soddisfazione sul volto:
- L’hai visto nel corridoio dell’economato?!? - ripeté incredula - Tutto qui? Per quello che ne sappiamo potrebbe essere un estraneo dalla parlantina sciolta. Uno che non c’entra niente con la biblioteca!!! -
Io scrollai le spalle:
- Beh, oddìo, mi sembra un po’ esagerata come teoria. Glielo chiederò, comunque, o chiederò come si chiama di cognome, così potrai verificare. Va bene così? -
Sara scosse la testa, testarda:
- Sai, quel panzone di Walter giù alla sala principale, oltre che rovinarmi la vita offrendomi in continuazione ciocorì e tavolette di cioccolato, mi ha insegnato un paio di trucchetti col computer... - spostò la poltrona accanto alla mia - ...ad esempio, come poter entrare negli archivi dell’amministrazione. Stai a vedere... -
Cominciò a smanettare sulla tastiera prima che io potessi fare o dire qualunque cosa per fermarla. Restai a guardarla allibita. Lei batté alcuni tasti, concentrata:
- Ecco qui... - disse osservando una schermata azzurrina che era apparsa sullo schermo - ...ah bene, possiamo addirittura consultare la lista delle ultime assunzioni e collaborazioni...-
- L’unico problema - feci notare - è che una biblioteca ha un sacco di collaborazioni esterne. Guarda qua... esperti, supervisori, professori che a vario titolo redigono relazioni per questo e quell’argomento. Senza contare poi le collaborazioni con gli altri istituti, realtà minori che si appoggiano a noi per prestiti e scambi... -
I nominativi sullo schermo erano quindi una buona cinquantina:
- Marciana Venezia:
Ufficio Informazioni Bibliografiche: referente dr. Stefania Rossi Minutelli
Ufficio Manoscritti: referente dr. Susy Marcon
- Biblioteca Civica "Nicolò Bettoni":
M. Loretta Balasso (bibliotecaria)
Claudia Artico (assistente)
La scorremmo in lungo e in largo, attente a scovare qualcuno che di nome proprio facesse Andrea. C’era uno Sperelli Andrea, professore di italiano, collaborazione esterna. Poi un Rigolon Andrea, ingegnere, ancora collaborazione esterna (che se ne faceva una biblioteca di una consulenza di un’ingegnere elettronico?!?). Trovammo il mio nominativo (Visconti Giulia, via L. Faccioli, 25 etc. etc.) e poi quello di Sara. Lei lanciò un gridolino di sorpresa (un po’ disgustato) nell’apprendere che il suo odiato collega Walter era nato lo stesso giorno del suo fidanzato Ivan. Dopo un po’ ci arrendemmo: non c’erano altri Andrea nella lista. Sara mi osservava con un’espressione truce nello sguardo.
- Visto? Cosa ti dicevo? Quello è uno stronzo che si fa passare per qualcun’altro. Sarà uno studente fuori corso, o uno qualsiasi... Lo sapevo io che ti stava prendendo in giro...-
Io mi sentivo abbattuta da quelle parole, ma sembrava avere ragione. Non avevo neanche argomenti per ribattere, continuavo a scorrere stancamente la lista di nominativi in su e in giù. Sara stava continuando la sua filippica quando ebbi un sobbalzo:
- Ehi, guarda qui! - le diedi un vigoroso colpo di gomito che la fece trasalire - come abbiamo fatto a farcelo scappare? -
Lei si girò verso il monitor, seguendo il mio dito che indicava lo schermo: subito sotto il mio nome compariva uno Zipoli Andrea, via Thaon di Revel, 115. C’era anche il numero di telefono. La data di nascita. 25 maggio 1965. Trentatre anni...sì, poteva essere lui. L’indirizzo. Persino il codice fiscale (troppa grazia, disse una vocina impertinente dentro di me). Sara scosse la testa, incredula:
- Mah... non c’era quando abbiamo guardato, come diavolo... -
Io indicai il cursore laterale dello schermo:
- Non abbiamo fatto scorrere la pagina fino in fondo, tutto qua. Ci siamo fissati a leggere i nominativi delle persone che conosciamo, il tuo, il mio, e non ci siamo accorti che restava fuori il finale della lista...-
La mia amica era comunque poco convinta, e fece scorrere lei stessa il cursore in su e giù. La pagina si interrompeva giusta sul blocchetto di testo contenente i miei dati personali, e bisognava spostare in giù la freccetta per far saltar fuori i dati di Andrea. Corrugò la fronte:
- Bah bah bah... - borbottò - non mi pareva, non mi pareva... Questa è una cosa ben strana, che non riesco proprio a spiegarmi...-
Si alzò, sempre con lo sguardo rivolto allo schermo, e rimise a posto la poltrona:
- Comunque ciò non toglie che tu stai andando fuori di testa, e non riesco proprio a capirne i motivi. E voglio andare a fondo su questo...questo Andr... - la voce le si abbassò, e si portò una mano alla gola, corrucciando la fronte - ...la gola... mi fa un po’ male. Che palle, beccarsi una raffreddata in piena estate, speriamo passi... Ciao, a più tardi ! -
Mi lasciò sola nella calura dell’ufficio. Tirai un sospiro di sollievo. Negli ultimi minuti il mal di testa mi tormentava feroce. Non avevo nulla contro Sara (nonostante la sua tenace persecuzione nei confronti di Andrea) ma proprio non ce la facevo più a sopportarla. E forse era stato per quello che non le avevo detto il mio parere riguardo ai dati personali del ragazzo. E cioè che la lista (e non so proprio spiegarmi come) era conclusa con il mio nome, la prima volta che l’avevo consultata con lei. Non c’erano parti nascoste. Non mi pareva, almeno. Ma se glielo avessi detto avrebbe fatto il diavolo a quattro. E le fitte nel mio cervello non me l’avrebbero proprio fatta sopportare. Spensi il computer.
Il giorno successivo, un giovedì che si presentò con nubi nere e gonfie a far sperare nel refrigerio di un temporale estivo, le cose cominciarono non proprio a precipitare, ma comunque a dipanarsi in una serie di preoccupanti episodi.
Tutto cominciò con la telefonata interna dell’amministrazione. La madre di Sara ci informava che la figlia non stava bene, per cui non si sarebbe recata al lavoro, quel giorno (chissà perché ha non ha chiamato direttamente lei, pensai mentre la segretaria mi faceva attendere al telefono). Dopo poco la voce secca della Maria Luisa mi informava che l’improvvisa assenza di Sara comportava tutta una serie di problemi che avrebbero influito sul lavoro di tutti. Io mi morsi le labbra per non chiederle con molto poco tatto se, secondo lei, doveva presentarsi al lavoro anche se malata. Ma mi trattenni. Per evitare ulteriori polemiche (ed eventuali problemi futuri alla mia amica) m’impegnai per recarmi al più presto nei magazzini a ritirare i volumi che avrebbe dovuto prelevare Sara, e che servivano assolutamente pena la distruzione della Cultura in tutto il mondo conosciuto
(risatina sarcastica)
Con non poca fatica riuscii a sganciarmi da quella sgradita conversazione decidendo, un po’ per ripicca, di chiamare Sara per sentire le sue condizioni prima di mettermi al lavoro. Feci il numero, rimanendo interdetta nel sentir suonare a vuoto molto a lungo. Tanto a lungo da esser chiaro che all’altro capo del filo non c'era nessuno. Sara fa chiamare per dire che sta male e poi non risponde al telefono? mi chiesi perplessa. O forse sta così male che non può venire a rispondere? Allarmata, decisi di chiamare casa dei suoi per sapere se avevano qualche notizia in più sullo stato di salute della figlia.
- Ah, Giulia, ciao... ti hanno riferito... - rispose la signora Todescan. Sembrava molto in apprensione.
- Sì, signora, buongiorno. Scusi se disturbo ma non riesco a trovare... -
Lei non mi fece finire:
- Già, già, Sara è qui. E’ arrivata ieri sera, sembrava sfinita. E quel che è peggio non riusciva assolutamente a parlare. Aveva perso completamente la voce. E poi aveva la febbre alta...più di 39°! -
Io mi agitai sulla sedia.
- Non se l’è proprio sentita di tornarsene a casa. L’abbiamo messa subito a letto, facendole prendere un po’ di cose. Tachipirina...e un paio di aspirine... Stanotte ogni tanto andavo a controllarla e ha fatto un sonno agitatissimo, letteralmente fradicia di sudore. Stamattina la febbre c’era ancora, ed anche la mancanza di voce, per cui stiamo aspettando il medico da un momento all’altro... Ma, che tu sappia, ieri non ha mostrato nessun sintomo, al lavoro ? -
Io stavo per rispondere no, quando mi venne in mente quell’accenno al mal di gola, e lo riferii.
- La chiamo appena possibile per sentire cos’ha detto il medico - conclusi - e me la saluti se si sveglia. Arrivederci, signora... -
Rimasi in silenzio ad ascoltare un tuono lontano che brontolava minaccioso, chiedendomi che diavolo stesse succedendo. Prima i miei misteriosi malesseri (e anche in quel momento non è che mi sentissi in forma smagliante, anzi...) ed ora quella misteriosa febbre che aveva preso Sara. “Aveva perso completamente la voce...”, che stranezza. Mi alzai ascoltando la mia schiena lanciare alcune sorde fitte di dolore all’altezza delle reni. “Sono una vecchia cariatide, ormai...” pensai mentre uscivo dall’ufficio e prendevo le scale verso il pianterreno. Quella mattina non avevo ancora scorto Andrea, e ne avevo una voglia pazza. Sul pianerottolo del primo piano pensai di fare una capatina in ufficio economato, con una scusa qualsiasi, poi mi feci forza e mi costrinsi a fare la brava. Scesi le ultime scale, mentre il signor Pesavento lottava con il forte vento che si era alzato, cercando di non far volar via i manifesti dei concorsi appesi sotto la lunga bacheca in entrata.
- Signorina Giulia, pare proprio che verrà giù un uragano - disse vedendomi girare in direzione della rampa che portava al piano interrato - spero abbia un ombrello, se proprio deve uscire -
Gli sorrisi passandogli accanto e aprii la porta del magazzino. L’aria nel vasto e poco illuminato locale era pesante e immobile. Sembrava “trasudare” umidità, e la sensazione era soffocante. Gualtiero, uno degli addetti, mi salutò con un sorriso sdentato:
- Ehi, che bella fanciulla abbiamo qui. Come posso esserle utile? -
Anche se la frase non era poi così strana, il tono di voce era sgradevole e carico di sottintesi. Ora capivo perché Sara non era entusiasta di bazzicare da quelle parti.
- La mia collega Sara della Sala A non è venuta al lavoro, e mi ha chiesto di prelevare alcuni volumi al posto suo. Dovrebbero essere pronti da qualche parte... -
L’uomo si batté comicamente una mano pelosa sulla fronte:
- Mannaggi’a miseria ! - esclamò - ecco cosa mi sono scordato. Mi scusi, signorì, ma l’amministrazione mi ha fatto spostare alcuni scaffali, e ho perso tempo..., temo che dovrà cercarseli lei. Sono in quegli schedari dietro l’archivio dei quotidiani -
Feci un segno (spazientito) di ok con la mano e passai oltre, non prima di aver notato il giornaletto a fumetti spalancato sulle gambe dell’occhio. Altro che scaffali da riordinare. Sparii dietro l’angolo mentre l’uomo iniziava a fischiettare una canzone vecchia come il cucco. L’aria era quasi irrespirabile, e il sudore mi appiccicava i capelli alla fronte e la maglietta alla schiena, con una sensazione sgradevole. Iniziai ad accatastare su un basso tavolino polveroso i volumi man mano che li trovavo. Ogni tanto un tuono in lontananza faceva tremare impercettibilmente il pavimento. Fuori stava effettivamente per prepararsi un diluvio. Meglio così, pensai, speriamo rinfreschi...
Ero intenta nella mia ricerca da un quarto d’ora quando sentii uno scalpiccìo alle mie spalle. Mi voltai, senza scorgere nessuno, né dietro l’angolo da dove ero venuta né nel corridoio semibuio che si dipanava verso sinistra.
- C’è qualcuno? - dissi con noncuranza, mentre riprendevo a consultare gli archivi. Forse era quel Gualtiero che voleva combinare qualche scherzo, o uno dei suoi degni colleghi...
- Oh, signorina Giulia, che piacere vederla... - una voce mi fece girare, e storsi senza volerlo la bocca. Era Ugo Maniero. Come ho già avuto modo di dire, lavorava (forse un vocabolo un po’ troppo forte per lui) su nelle sale di consultazione, e non era visto con molta simpatia dalla popolazione femminile della biblioteca. Probabilmente era innocuo, ma dovevi comunque sorbirti una serie di apprezzamenti non proprio da gentleman. Lo salutai nel modo più incolore possibile, ma questo non smontò il suo tentativo di approccio:
- E cosa ci fa una ragazza così carina qui sotto? (mio Dio, che battuta originale!) Non ha paura del lupo cattivo? - gorgogliò una risata, come se avesse detto la spiritosata più spassosa del mondo. Gli lanciai un’occhiata spazientita. Se ne stava appoggiato ad una colonna quadrata, frugandosi in una narice con l’unghia del mignolo. Ma delicatamente, bisogna dirlo. Mi squadrò da capo a piedi, probabilmente soffermandosi nei punti di maggior attrattiva.
- Fa caldo, eh, qui? - continuò - Ha la schiena tutta bagnata. Di sudore eh, s’intende... - rise ancora, beandosi di quella trovata.
Io speravo fortemente che ignorandolo si stancasse e se andasse. D’altra parte era inutile cercare soccorso morale dagli altri addetti al magazzino, anzi, si rischiava di radunare un bel gruppetto di comici doppiosensisti. Mi scrollai nervosamente il tessuto che aderiva alla schiena madida, maledicendomi di non essere riuscita ad evitare di farlo, e continuai la mia ricerca. Lui sembrava avere tutto il tempo del mondo.
- Allora, quand’è che andiamo a pranzo insieme? - chiese con un sorriso goloso sulla bocca. Niente paura, lo chiedeva ciclicamente a tutte quelle che gli capitavano a tiro. Senza risultato, s’intende.
- Signor Maniero, sa benissimo che con me casca male... - gli dissi senza voltarmi. Lui sogghignò ancora una volta:
- Beh, l’importante sarebbe cascare insieme su qualcosa di morbido... -
Sbuffai rumorosamente scuotendo il capo, spazientita, e mi girai velocemente per tenerlo d’occhio. La prudenza non è mai troppa. Non sia mai che l’afa opprimente del magazzino lo facesse passare dalle parole ai fatti. Era sempre in piedi appoggiato alla colonna, e stava frugandosi nel taschino, probabilmente alla ricerca di una sigaretta che gli conferisse un’aria da macho. Ci mancava anche il fumo, già che non si respira... Mentre lo osservavo vidi apparire, dall’oscurità in fondo al corridoio, una figura conosciuta: era Andrea, che ci stava osservando in silenzio. Veniva lentamente verso di noi, senza far rumore, e sembrava... che cosa strana... quasi che “fluttuasse”, invece di camminare. Ma era così in penombra...
Si bloccò a pochi metri da noi e Ugo Maniero, di spalle e intento a bearsi della rotondità dei miei seni, non se ne avvide. Stavo per salutarlo, e avere così un pretesto per sganciarmi da quella sgradita visita ai raggi X quando la sua faccia sembrò... non tremare, ma quasi, quasi vibrare... come pervasa da un movimento appena sotto la pelle del viso. Ma fu questione di un decimo di secondo, tanto da chiedersi se era successo davvero.
- Ehi, Andrea, ciao! - lo salutai con un tono di voce più vivace del dovuto. Maniero si voltò in direzione del mio sguardo ma il ragazzo si era infilato in un passaggio tra due basse cassettiere ed era scomparso.
- Ma chi... - disse il Maniero, mentre gli passavo accanto chiamando il nome di Andrea. Lo seguii nello stretto passaggio ma non trovai nessuno, se non la polvere e i vecchi libri che mi guardavano muti.
- Andrea? - chiamai ancora, ma decisamente più a bassa voce. Il magazzino non mi rispose, mentre un tuono veniva a schiacciarsi sui vetri opachi e sporchi di una finestrella che dava sul piano stradale. Guardai fuori, ed era come guardare dal vetro di un acquario incrostato dal tempo. Fuori alcuni piedi di passanti acceleravano il passo per sfuggire alle prime grosse gocce che si stava schiacciando sul porfido tiepido. L’aria sapeva di ozono, e di ricordi di temporali d’infanzia. Il mio inseguito, per qualche motivo che sapeva solo lui, si era dileguato. Gironzolai senza risultato per i corridoi formati dagli archivi, poi tornai stancamente verso il punto dove stavo cercando i libri, sicura di dovermi sorbire qualche altra simpatica battuta di Ugo Maniero. L’uomo era appoggiato ad un basso schedario, e si teneva la testa tra le mani. Stava borbottando qualcosa, ma sembrava più un lamento che altro. Forse qualche altro scherzo idiota?, pensai sospettosa.
- Qualcosa che non va, signor Ugo? - chiesi titubante.
Lui si girò in direzione della mia voce, non guardandomi proprio. I suoi occhi... i suoi occhi erano pieni di sangue. Dove di solito c’è il bianco dell’occhio ora vedevo un colore scarlatto scuro. Due sottili lacrime rosse stavano scendendo lungo le guance. Mi cercò con la testa di qua e di là e agitò le mani:
- Chi parla? Chi è? - esclamò agitato - ...e perché cazzo non riaccendete quella luce? -

N.d.A: a differenza di quel che afferma quel furbacchione di Andrea, la poesia lasciata misteriosamente nel pc non è farina del suo sacco, bensì la splendida 'Il tuo più tenue sguardo' di E.E. Cummings.
  
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