13
Patto con un demone
L’Esclusa
Sulla parete
della doccia, spiccava il vuoto ocra di una mattonella staccata e non
sostituita, fra le altre di bianco smaltato. L’irritante bottone che attivava
la doccia (per un tempo così limitato che si era costretti a sciacquarsi a
soste) si trovava proprio sotto quel vuoto: non poteva fare a meno di
incrociarvi lo sguardo. Tentò di grattare via la colla solidificata che un
tempo reggeva, evidentemente senza successo, la mattonella, e spinse quel
dannato bottone più volte, con foga, sperando di aumentare lo scorrere
dell’acqua.
In quel
momento uscivano ridacchiando Liza ed Amy, due ragazzette fresche di recluta.
Dio, com’erano fastidiose! Era stata così un tempo anche lei? Quella risata
sguaiata da oca aveva un non so che di frivolo, di irrispettoso, di fresco… di
nuovo. Aveva riso così stupidamente anche lei, i primi tempi in cui si era
arruolata?
Parlava come
fosse una vecchia, pensò, sbattendosi una mano alla fronte, e invece erano
passati ancora solo cinque anni. Che stupida.
Dopo aver passato più di un mese e mezzo a Kish senza trovare alcuna traccia
dei ribelli, erano stati richiamati alla sede centrale senza apparente motivo.
Da allora li avevano spostati qui e là nella città, quasi che il compito del
suo reparto scelto non fosse altro che coprire i buchi nel sistema di guardia.
Uscendo, la
porticina che chiudeva il vano-doccia cigolò lugubremente, poi si richiuse di
scatto. Lo spogliatoio era vuoto.
Inspirò l’odore
della pelle, controllando che il bagnoschiuma avesse fatto il suo dovere, e non
vi fosse traccia del sapore aspro degli allenamenti. Non era riuscita nemmeno a
parlargli.
Perché
adesso le veniva questo stupido pensiero? Le lacrime iniziarono a pungerle gli
occhi, per trattenerle prese un lungo respiro con le palpebre spalancate.
Erano così
simili…
Doveva
smettere di pensarci. Prese l’asciugamano e quasi si grattò via la pelle
strofinandosi; afferrò il tubetto di crema idratante, ma lo rigettò dentro il borsone,
perché proprio non le andava di stare lì a massaggiarsi finché la crema non si
fosse asciugata. Pazienza, le si sarebbe seccata la pelle.
Si mise in
spalla il borsone, e quasi non si accorse del tempo che intercorse fra gli
spogliatoi e la mensa.
Sedendosi al
tavolo, si accorse di aver preso la minestra.
Paul, seduto
di fronte a lei, gesticolava con la forchetta, quasi mettendo in mostra l’uroboros impresso nella mano, e ponendo
così una certa enfasi alle sue parole.
«Scusa, a me
sembra proprio un idiota. Insomma, perché andarsene, se sapeva che fine ha
fatto suo fratello?».
Ovviamente…
non si parlava d’altro da quella mattina.
«Magari non
lo sapeva nemmeno» rispose quel tipo, come si chiamava? Ah, si, Abe, il figlio
di Richard Murray, delle truppe del primo cerchio di mura (zona nord-est), con
quel suo accento inglese stranamente marcato per uno che sia sempre vissuto a
Babilonia. Ultimamente aveva iniziato a bazzicare fra le truppe speciali, per
qualche motivo, e ciò dava un sottile fastidio, perché una legge implicita
richiedeva di fraternizzare solo con quelli della propria divisione, quelli con
cui rischiavi la vita, e che diventavano come dei fratelli. Ma in fondo non era
che un’abitudine imposta dal cameratismo.
«Ma sì che
lo sapeva, Altrimenti perché andarsene?».
«Beh, chi
può dirlo? Basandoci sui dati, possiamo solo dire che non si trova più nella
zona dei Contemporanei» disse, con un tono diplomatico che ricordava fin troppo
il padre.
Lauren
sbriciolò uno dei crostini che la sua mano aveva deciso sarebbero stati molto
bene con la minestra, ed intinse il cucchiaio, cercando di mimetizzarsi con
l’ambiente di mandibole masticanti.
«State
parlando di Daniel?» si unì Patrick, altro intruso, ma giustificato, visto che
stavano mangiando nella mensa delle reclute. Però la presenza era fin troppo
ingombrante, mentre si sedeva rumorosamente accanto a lei, con il vassoio
stracolmo di roba. « A me piaceva».
“Ma
davvero?” avrebbe voluto chiedergli. “Certo che ti piaceva, a te piacciono
tutti, stupido bamboccio in cerca di attenzioni…” ma perché ce l’aveva con
Patrick?
«Beh, sapete
che vi dico? Si merita qualsiasi cosa gli faranno, come se l’è meritato suo
fratello».
«Come puoi
dire qualcosa del genere? era tuo amico» disse, guardando verso il suo
piatto, quasi senza accorgersene, certo
senza pensare.
Vide con la coda dell’occhio che l’attenzione di Paul le si rivolgeva, sentì
che le lanciava uno sguardo di ghiaccio. Continuò a rimestare col cucchiaio la
minestra.
«Non lo sarebbe stato, se avessi saputo ci avrebbe tradito per quei
fondamentalisti».
«Da quando sei così fedele, Paul?» gli chiese, decidendo che era il caso di
alzare gli occhi «e… e da quando leggi quelle stupidaggini sul sovrano
immortale?».
«Non sono
affari tuoi».
«Sei mio amico, certo che sono affari miei. Capisco che sia un periodo
difficile, ma...- “vuoi smetterla?” cercò di interromperla. – ma credere in
queste cose non è da te, e...»
«Tu che ne
sai di me?- sbraitò a denti stretti, per non alzare la voce, e battendo un
pugno sul tavolo, che rese nullo il suo tentativo di non attirare l’attenzione-
smetti di parlare di cose che non sai...».
«Bene, allora dimmi pure».
«Non puoi
capire».
«No, sul
serio, spiegami perchè...» si interruppe, comprendendo che non sarebbe valso a
niente. «Nulla, lascia perdere» e tornò a fissare le piccole increspature che
il suo respiro muoveva sulla minestra.
Le narici di
Paul fremevano, quasi volesse attaccarla, ma non potesse, perché lei era una
donna, oltre che la sua compagna in armi. Si costrinse a chiedere:« Piuttosto,
dove ci hanno spostato la prossima settimana?».
«Al palazzo
sud, hanno di nuovo aumentato le ore di pattuglia» rispose, continuando come
lui a fingere che la tensione di poco prima non ci fosse mai stata.
«Ah si? Quando la smetteranno di sbatterci
da una parte all’altra?» aggiunse Timothy.
«Stanno
perdendo il controllo, e non hanno abbastanza uomini per fingere di essere più
forti di quanti siano in realtà».
Gli altri
voltarono lo sguardo perplesso verso Abe, che, noncurante dell’effetto delle sue
parole, puliva scrupolosamente le lenti dei suoi occhiali di corno.
*
Il Soldato
Districo il
passo nella palude di spavento. L’acqua nera e densa mi bagna le ginocchia, mi
avvinghia le caviglie, agitata dal desiderio di immergermi interamente nel suo
abbraccio. Lei versa calde lacrime di
rimpianto, nere e dense come denso e scuro è il liquido già versato; mi stringe
e nell’abbraccio dolce e struggente della morte, lacrime mi grondarono in gola,
fin nelle profondità del mio corpo, mescendosi al mio sangue, soffocandomi.
Tento di scacciare a braccia tese la sua immagine fumosa, di strappare la
stretta trama dell’oscurità. L’attenzione si acuisce nella tensione, e
percepisco senza vederla un’altra figura, supina e mezza inghiottita dal
pantano. Pur non sapendo chi sia, ho avvertito già con la sua presenza chi è.
Credo di conoscerla, la sua storia, come se mi passasse davanti, mentre,
annusandolo, inizio a ringhiare contro l’intruso. Ci accomuna la stessa fatica,
eppure collera nera mi entra in circolo nelle vene, già infette di paura, e
pungente come filo spinato, raggiunge il cuore in un trionfo di euforia. Vorrei
tendere una mano allo sconosciuto, invece gli stringo le dita intorno alla
gola. Forse basta la sensazione della sua pelle per dirmi chi sia: è un
ribelle, peggio, è un traditore. Stringo di più le mani attorno alla gola,
premendo più forte sulla giugulare; nell’euforia i battiti si fanno veloci, mi
manca il respiro.
Cos’è la
pazzia, se non esaltazione dell’io?
Cos’è l’odio, se non affermazione dell’essenza? Esisto, esisto e la tua
esistenza non mi permette di essere pienamente me stesso. Perciò ti odio.
Stringo, stringo sempre più forte. Una risata risale dalle viscere, euforica di
paura, e prorompe rompendo il silenzio. Il rumore della mia stessa voce mi fa
ritirare dentro me stesso. È paura, quella che provo? Non riesco a respirare,
vorrei gridare, ma non ci riesco.
Nel silenzio, una nota piano cresce, melanconica. L’acqua della palude calma le
sue onde, si cristallizza in una fredda distesa oscura: la paura si dirada con
l’oscurità, nel freddo silente comincio a vedere. Distinguo i contorni della
nera figura che mi sovrasta, poi una luce mi permette di vedere chiaro, facendo
sorgere i suoi lineamenti contratti, il suo sguardo da folle, le sue dita
strette intorno alla gola. Lo sguardo del carnefice sembra chiedermi pietà,
chiedo pietà per me stesso, mentre stringe ancora più forte; sembra chiedermi
di fermarlo, prima che la vita mi scivoli giù dalle dita. Sembra chiedermi come
sia possibile che sia il carnefice e la vittima, ad un tempo. E incombe su di
me la nera figura del soldato, finché non è sfuggito anche l’ultimo respiro. E
quel sorriso crudele dipinto sul mio volto.
No, non sul mio. Su quello di mio fratello.
Ricordo
vagamente il mio grido nella notte. Madido di sudore, cercai di riprendere
coscienza della realtà; ma l’oscurità notturna rallentava il processo, come in
continuità col sogno.
«Stai
tremando» asserì freddamente un’altra voce; ci misi un attimo di troppo per
rendermi conto che non era la mia, per l’alienazione del sogno.
Un movimento
alla parete tradì la sua figura, nascosta dall’imponenza della sua stessa
ombra. Come uno stupido mi chiesi come una figura così esile potesse produrre
una macchia di quelle proporzioni sulla parete. Oscillavo ancora fra
scetticismo e il dubbio.
«Cosa ci fai
qui?» le chiesi, non senza sforzo, con un tono che non nascondeva l’invito ad
andarsene.
«Controllo soltanto che pensieri passano sul mio cavaliere la notte prima di
mostrare la sua lealtà». Lentamente, si avvicinò al letto, ponendomisi davanti,
e con uno sguardo contorto riprese: «Dicono che la notte porti consiglio, hai
qualche ripensamento, mio cavaliere?».
«Lilith smettila, è stato solo un sogno…».
«Solo un sogno?» sillabò, contenendo a stento lo sdegno «Cosa ne sai tu di cosa
sono i sogni? Non posso fidarmi di te, se già nel sonno decidi di tradirmi… E
che cos’era, quella visione? Hai forse paura di me?».
Il suo tono era mutato nuovamente, facendosi lascivo ed ironico. Cambiava
espressione come fossero maschere, nulla più che una copertura da esporre a
piacere, cosicché era difficile comprendere se con esse cambiasse anche il suo
pensiero.
«Cosa vuoi che ti risponda?» le chiesi con uno sguardo severo, poiché aveva
deciso di mettermi con le spalle al muro per un’idiozia. Ed ecco che il suo
aspetto mutò nuovamente, sembrando dispiaciuta del suo comportamento. Come
stringendosi su se stessa, si sedette sul letto, accanto a me, guardando fisso
verso il pavimento, ammutolita.
Dopo attimi di silenzio mi chiese, quasi tremante: «Hai davvero paura di me?».
Avrei voluto risponderle di no, ma a che sarebbe servito? Avrebbe subito
compreso che mentivo. Invece restai in silenzio, e come risposta le presi la
mano, sperando che quel gesto bastasse a calmarla e che non portasse ad altre
domande. Lei intrecciò le dita alle mie, si sporse verso di me, e delicatamente
cominciò a baciarmi il collo. Ma i suoi baci da delicati si fecero violenti, mi
morse ridendo la pelle, con cattiveria. La spinsi via, ed alzandomi: «Perché
fai sempre così?- le chiesi- Mi chiedi di fidarmi di te, ma come potrei?».
L’espressione cattiva era stata soppiantata da un’altra smarrita. «Non capisci?
Sostieni che i soldati rinascono diversi… bene, tu quante anime hai…preso? Non
so nemmeno come dirlo! Come posso fidarmi di te, se nemmeno ti conosco. Come
potrei? Come posso capire chi sei tu veramente, e quando invece sei altro?».
Alle mie parole, un’altra espressione. Guardandomi fisso gli occhi le si
dilatarono, il respiro divenne affannoso, come annaspasse alla ricerca di aria.
Iniziando a tremare, si strinse nelle sue braccia, e dondolandosi, ripeteva
frettolosamente parole che non capivo, un dialogo di domande e risposte che
costruiva da sola. Non mi sarei mai aspettato una reazione del genere, nemmeno
considerando il suo carattere incostante. Per cercare di calmarla, mi costrinsi
ad abbandonare la solidità di comportamento che avevo imparato ad assumere
quando ero con lei: non potevo, infatti, adattarmi ai suoi repentini mutamenti,
perché il suo comportamento così volubile, mi avrebbe inconsciamente costretto
a cambiare velocemente anche i miei sentimenti.
Mi misi davanti a lei, abbassandomi sulle ginocchia per arrivare all’altezza di
lei ancora seduta sul letto; la presi per le spalle, cercando di far cessare i
suoi movimenti, e cercando di rassicurarla con un tono comprensivo.
Ma lei scosse la testa, si divincolò dalle mie braccia, e, nuovamente presente
a sé stessa, guardandomi in modo disperato, mi chiese: «Come posso risponderti,
se non ho una risposta nemmeno per me?».
*
La
Fenice
Non pensi mai che quel che fai sia
sbagliato? Chiede una delle voci, dall’intero. Suona
familiare alla coscienza, ma ci conosciamo ancora poco.
Certo che ci
penso, gli rispondo, ma non posso fare altrimenti.
Vorrai seguirLa fino alla fine? Chiede
un’altra, da un altro angolo della testa, un po’ più in profondità. Cos’altro
potrei fare? Ho siglato un accordo, ormai siamo legate per sempre, e torneremo
ad essere una cosa sola.
Sussurri echeggiano, nella camera dei sacrifici, come nella testa. Passeggio
fra i morituri assopiti, cercando di decidermi per quale anima aggiungere alla
collezione. Rabbrividisco quando mi attraversa l’imperativo: “E’ necessario, devi essere più forte”.
Mi soffermo
su un pensiero che scivola via; appartiene ad un insorto reso ormai docile dal
dolce oblio della dea. Chissà se non sia
meglio così, rivivere nell’estremo della vita i propri ricordi, e così
cancellarli, bruciare tutti i pentimenti, tutte le effimere felicità, tutti gl’imperituri
inganni, dare alle fiamme tutto il proprio passato, in pasto alla Dea, smettere
di lottare contro la sua fame, ed infine, lasciare reggere il corpo solo dalle
catene, abbandonarsi con tutti sé stessi al profondo silenzio. A volte pesano
così tanto i ricordi.
Forse questo è anche il suo pensiero, mi dico osservando i suoi lineamenti
caduti, la mandibola aperta, i muscoli rilassati, senza più forze; forse anche
lui si starà chiedendo perché lottare, perché ha lottato fin dal primo istante.
Infondo la meta è sempre la stessa, che si muoia combattendo o da vecchi in un
letto. “Il fine è uno, ed è la Morte”.
Ormai si è lasciato troppo andare, la Parca ha reciso quasi tutta la trama,
resta solo qualche filo di un’esistenza stracciata. Non posso nutrirmi di lui.
Se segui i suoi comandi, dovrai avere
anche tu i tuoi fini, torna a farsi sentire la voce del nuovo arrivato, che
evidentemente non conosce le regole del mio regime, ed, infastidendomi, inizia
a rovistare fra i miei propri pensieri, cercandosi da sé la risposta che non
voglio dargli. Afferratolo per la collottola, lo costringo a ritornare al suo
posto. Non iniziate a confondervi, ordino a tutti. Abbiamo sprecato troppo
tempo per mettere ordine. Mesi interi a restare segregati nelle mie stanze, con
la mandibola abbandonata come quella dei morituri di questa stanza, senza più
ricordare a chi appartenevano i ricordi sparpagliati alla rinfusa, cercando di
placare quelli che turbinavano senza più controllo, senza più comandante:
quelli più dolorosi, più pesanti.
Io credo che se ci prendi con te,
deve esserci qualche altro motivo, riprende, indomita, la stessa voce nella mia testa; aggiunge,
un po’ timoroso, se per caso non mi senta sola.
Zitto stupido, ingiungo, ma dentro dentro qualche parte di me dice che forse ha
ragione. Non importerebbe. In fondo, voi cosa siete, se non qualche filo non
reciso che ho voluto aggiungere alla mia tela? Siete qualche ricordo, sperduto,
forse mezzo carbonizzato, che ho voluto inserire fra i miei, dove c’era spazio;
non siete altro che questo, e voi non mi rendete certo meno grave la mia
solitudine.
Ferito, il
brandello di un’altra anima ingiunge che è un isolamento che ho scelto da sola,
prima di cadere nel silenzio. Tu non sei
mai sola, aggiunge rassicurante una voce, la più familiare di tutte.
Cerco ancora
fra i corpi abbandonati un’anima non troppo perduta per essere salvata, vagando
fra i sentori di frammenti di ricordi. Percepisco, un po’ nascosto, il rumore
di acqua che gronda giù da una cascata. La vedo brillare di raggi, come una
chiara chioma schiumosa. Dalla mia sinistra giunge imprevisto, e si impone, il
ricordo di uno scriba: ancora imberbe, fra altri ragazzi, affonda lo stilo
sulla tavoletta friabile, apprende a saldare la memoria, come una formula
magica. E mentre sono ancora inebriata dalla fragranza dell’argilla che cuoce
al sole, eccomi ad accarezzare un vecchio cane cieco, col pelo incrostato di
sporco in grandi ciocche, che abbaia affaticandosi ma ancora contento di vedere
il padrone.
Cos’è che
distingue, in fondo, un uomo ed un dio? Entrambi camminano lo stesso mondo,
cambia solo la prospettiva: noi guardiamo il cielo, il loro sopra è la terra, e
guardano straniati quegli strani esseri che camminano sopra di loro, a testa in
giù. Entrambi proviamo le stesse passioni, forse loro sono più volubili, e per
i mortali sono più durature, per il desiderio di qualcosa, almeno qualcosa, che
resti per sempre. Entrambi siamo l’affiorare come coscienza di tanti individui,
tanti piccoli individui che discutono fra loro su chi abbia la meglio, e possa
porsi sul capo la corona di Io. Cos’è, dunque, che ci distingue? Il tempo.
Nient’altro
che questo: loro hanno più tempo. Ciò li rende più grandi, forse ai nostri
occhi immensi. Non hanno fretta, possono aspettare; l’ingordigia non la
conoscono, perché hanno già vissuto tutto almeno una volta, e tutto vivranno
ancora una volta, per sempre. Ci distingue anche ciò che viene col tempo.
L’esperienza. Loro non hanno vissuto una sola vita, ma tante, sotto vesti
differenti. Incuriositi, hanno camminato fra gli uomini, per provare anche loro
quell’unica cosa che il cielo non ha: una scadenza. E sono morti e risorti e
morti di nuovo, ed hanno ingoiato le stesse fatiche, gli stessi rimorsi, le
stesse artrosi che sono lo squisito saluto al mondo. Hanno amato i mortali,
perché solo i mortali conoscono la voracità nell’amore, che prende tutto. Ed
hanno pianto sui loro corpi avvizziti, prima di tornare nel cielo, a
dimenticare.
E poi un
giorno, stanchi del loro vagare, hanno smesso di visitare la terra. Inorgogliti
dalla loro infinita conoscenza, hanno guardato quegli esseri ingenui che
aprivano or ora gli occhi sul mondo, che come eterni bambini provavano
meraviglia per ogni banalità, li hanno guardati con un nuovo disprezzo. A che
scopo scendere e camminare fra loro, quando potevano amarsi fra pari?
Una sola è
rimasta, e per sempre rimarrà; io, che ormai sono la più antica di tutte. Che
differenza fanno queste divinità altere che sedute sui loro troni si
rammolliscono aspettando i fumi delle vittime sacrificali, che differenza con
quegli altri più giovani, che amano, servono, temono, vivono più intensamente?
Non è altro che questo, il Suo fuoco, non è altro che passione.
I corpi
della mia generazione sono stati sepolti sotto le montagne del mondo, per loro,
che hanno costituito le dimensioni dell’universo, sono stati già scritti gli
epitaffi con le stelle. Io sono Sud, la più vecchia, ormai, la più antica di
tutte.
Ricordati, Nil, tu non sei la Dea.
Mi ferma una
risata familiare, mentre sono sul punto di andare via a stomaco vuoto. Giace
sotto i ricordi più vigorosi di altre anime più attaccate alla vita, ma essa mi
attira comunque per la sua familiarità. Ne cerco la fonte, mentre il cuore
sembra spaccarmi il torace, avvinghiata ad un terribile presentimento. La fonte
è una donna.
Come hanno
osato? Come osato farle assaggiare il gusto di una donna, per Lei che solo ha
conosciuto il sangue maschile? Le sue serve che conoscono che la sua vendetta
non è diretta contro il genere femminile. Ecco che torna, l’imperativo: “Il suo passato ho destinato per te. Dal tuo
ventre sterile mai potrà nascere la vita, e cosa puoi conoscere della vita, se
non ne potrai mai portare una al mondo? Ecco, il mio ultimo dono, io ti dono il
sangue di una madre”.
Riposa
eretta dalle catene che le incidono i polsi. Ha qualcosa di familiare, ma non
saprei dire cosa, così le chiedo, ingenuamente come una bambina. «Come ti
chiami?».
«Come ti
chiami?» ripeto, ricevendo come sola risposta la mia eco.
E’ troppo
debole per sentirmi, che sia giunta troppo tardi per salvarla? Ritorno sui miei
passi, col rimorso di un sacrificio inutile, con la delusione per una divinità
che non crede nemmeno più in ciò che dovrebbe proteggere.
«Aspetta…»
ansima mangiandosi le ultime lettere. «Per
favore, aspetta…».
Involontario,
spunta un sorriso cattivo e distrugge la mia rassegnazione. Prende il
sopravvento dentro di me quella parte demonica che vorrei mostrare come un
trofeo. La donna, risvegliandosi, sembra riacquistare le forze insieme alla
coscienza di dove si trovi. Apre gli occhi e chiede: «Ti prego, liberami».
«Non posso».
«Ti prego…»
la sua voce è roca, viene fuori a fatica, come se giungesse da lontano. «Ti
prego, liberami, ti prego, liberami» continua a sussurrare, vaneggiando in un piagnisteo,
guardandomi fisso con quei suoi occhi ormai vuoti.
«Non posso… non sono quelle catene a tenerti prigioniera…» non termino la
frase, che subito scoppia in un pianto disperato, da bambina. «TI PREGO!».
La sua mente è così annebbiata da non essere nemmeno sorpresa di udire la voce
di una ragazzina nel mezzo di quel dolore. Eppure, resta avvinghiata al bordo
della coscienza.
«Qual è il tuo nome?».
«M-miriam»
risponde speranzosa.
«Miriam, non
posso liberarti. Sai cosa ti sta succedendo?». Scuote la testa, lentamente. «Tu
stai svanendo, non posso fare nulla per concederti la vita, credimi, vorrei, ma
non posso» immersa nei raggiri per siglare il contratto, quasi dimentico che
una parte di me lo vorrebbe davvero. L’altra parte di me, quella senza scrupoli,
riesce a fingere la costernazione che in un altro stato avrei provato davvero.
«ma forse… Miriam… tu non sei di Babilonia, non è vero?» le chiedo,
interrompendo un esecuzione celere per il riaffiorare della sua familiarità.
«No… per favore…».
«Da dove vieni?».
«I miei genitori, loro erano di Babilonia. Noi… noi siamo scappati tanto tempo
fa, siamo andati nell’altro te-empo… mi hanno ca-catturata… Orhan…. Hanno preso
anche lui».
«Dall’altro tempo? Come hai fatto ad arrivare qui?» .
«Mi hanno
portato qui i cavalieri in uniforme».
«Perché? Che interesse avevano in te?».
«Mio-mio marito... ha aiutato i r-ribelli… loro lo sapevano, che ho incontrato
il ragazzo».
Mi avvicino alla donna, le accarezzo i capelli: «Cosa vuoi che faccia per te?».
La donna fra le lacrime, annuisce, mi ringrazia come fossi una benefattrice.
«Qual è il tuo desiderio?».
«Mio figlio… ha-hanno preso anche mio figlio, Orhan… Ti-ti prego, salva almeno
lui…».
«Lo farò – (grazie grazie, biascica )– se vuoi, lo
possiamo fare insieme.
Miriam, ti
fidi di me?».
*
Il Penitente
Il vento
infuria sulle case nella scogliera, soffiando da un cielo pesante, iroso, che
sembra pesare sulle spalle. Salendo i tre scalini che fanno da introduzione
alla porta d’ingresso, busso forte sul legno fradicio, di un verde pallido.
Busso ancora, e poi ancora più insistentemente, ma non giunge nessuna risposta
dai vicini della casa accanto. Non perdendo più tempo, busso alla casa dopo, e
a quella dopo ancora, e quella dopo ancora. Nessuna risposta. Pieno di amarezza
volgo le spalle alla porta incrostata di un arancione ostile, ma proprio in
quel momento si affaccia uno spiraglio, ed una voce stanca chiede
scontrosamente di cosa abbia bisogno. La signora Russell si pulisce le mani
sporche in una pezza, stacca i pezzi di impasto che le si sono appiccicati fra
le dita.
«Mia moglie… la prego, le si sono rotte le acque…»
Il suo volto s’illumina come di chi abbia colto un collegamento; lasciando la
porta aperta, si affretta per il corridoio, entrando in una stanza; non ho il
tempo di chiedermi cosa stia facendo, che subito ne riesce, fra le mani ancora
impastate, al posto dello strofinaccio, un gran numero di teli.
«Forza,
andiamo» e aggiunge, rispondendo alla mia espressione interrogativa: «Quella
donna che vive con voi mi aveva avvisato che sarebbe successo da un momento
all’altro».
Tic, tac. Il
rumore del telaio della Morte che tesse accanto a me. Con i fili sembra
giocare, si sofferma a decidere se unirli e o se dividerli, come le detta il
capriccio. Tesse con dita veloci una parte della tela, poi cambia idea, disfa
parte della trama. Il cuore mi diventa pesante, mentre recide un filo.
Attraverso
la porta della camera da letto un gemito stranamente mi rassicura, è almeno
testimonianza che sia ancora viva.
“Non vivrà ancora per molto” sussurra con
voce agghiacciante la Morte nella sindone nera. Un lungo velo le copre il
volto, ma lascia trasparire quel tanto che basta per indovinare un sorriso
irrisorio. Tic, tac, e spezza un altro filo. Lo schioccare secco del telaio batte
in sincrono con l’orologio, che segna l’ora.
Perché non dovrebbe? Perché qualcosa dovrebbe andare storto?
“Perché sempre è richiesto un prezzo. Non
si può trascurare l’ordine, senza che altro attraversi il confine”.
Mi alzo per misurare la camera angusta a passi nervosi. La nera figura
della Parca, curva sul telaio, passa e ripassa la spola sull’ordito. Cosa
significa? Una delle due dovrà morire?
“Per sorvolare sul vostro crimine,
deve tornare a posarsi nella caligine. Salva una vita, dell’altra
mostra disprezzo”.
Non puoi parlare
chiaramente? Chiedo, prendendomi fra le mani la fronte sudata. Perché dovrebbe
morire una delle due? Se davvero è una dea che nasce lì dentro, perché non
dovrebbe mantenere la sua promessa?
“La loro vita non è ancora divisa, se una
soccombe, le perderai entrambe. Cosa credevi, che fosse facile come vivere
eludere la legge che estingue il morire?
E’ uno scambio, nulla più che uno scambio, una legge giusta, se rifletti, in
fondo.
Il loro destino l’ha sancito l’istante che ti ha risparmiato la vita. Ricorda
la legge: Salva una vita, dell’altra mostra disprezzo” e tagliò un altro
filo dalla sua tela.
C’è una
pagina in più di ciò che mi spetta, nel Libro dei destini, fitta di annotazioni
fugaci a matita. Quelle mani raggrinzite, attente a distinguere all’arcolaio i
singoli fili dalla matassa informe, in un solo gesto cancellarono tutti i
progetti, tutti i problemi irrisolti. Dovrà rimanere bianca? Le chiesi,
abbandonando l’orgoglio, con tono implorante: Che senso ha una vita senza un destino?
“Il fine è uno, ed è la Morte”.
Ed io vivrò, per anni ancora, brancolando in un mondo che per me non ha
significato? Che fine avrà la mia vita, fuori dal destino del mondo? Perché
allora risparmiarmi?
“Chi ha detto debba esistere un senso?” dichiara in un ghigno la Morte.
Sedendo,
sprofondo nel divano, e come il mio corpo sprofondano i miei pensieri. La
Morte, fedele compagna, accompagna col suo ritmo tagliente i gemiti lamentevoli
della camera chiusa. Mi afferra, salda, la vuotezza dell’essere. A sguardo
fisso, lascio scivolare gli istanti in quella tremenda melodia, senza muovere
in un solo muscolo.
Lascio scivolare insieme agli istanti ogni meta, ogni speranza, ogni legame,
che si scoprono finzioni e si aggiungono al cumulo di illusioni ai miei piedi,
finché anche il mio interno mostro non cessa di esistere. Non posseggo più
nulla. Non sono più nulla.
Dentro il
mio essere ormai vuoto, la Morte rimbomba con voce suadente:
“Non perderti”.
Perché non dovrei?
“Perché la tua Dea non ti ha abbandonato,
in fondo”.
Tic, tac: il telaio scandisce il silenzio. Un urlo, un altro filo tagliato. E
finalmente il mio cuore si riempie di nuovo di un’incredula speranza.
La Morte sorride maligna, la mia fedele compagna sa che finalmente ho compreso.
Non riuscivo a vedere la dea di Aurora, lei stessa sembrava più non
comprendere, mentre il ventre le si arrotondava e cresceva dentro di lei. Come
uno stupido non capivo, ed invece era talmente palese: è sempre stata accanto a
me.
*
Il Pellegrino
Non riusciva
a respirare. Svegliandosi, subito la testa iniziò a pulsare. Aprì gli occhi, ma
non riuscì a vedere nulla: che fosse diventato cieco?
Lentamente, tuttavia, si abituarono alla flebile luminosità, che filtrava
attraverso le fessure del tessuto: gli avevano coperto la testa con un sacco.
Cercò di alzarsi, ma una mano possente, borbottando qualcosa in una lingua
sconosciuta, gli spinse di nuovo il volto verso il pavimento… no, non era un
vero pavimento. Sembrava paglia, o qualcosa del genere. Alla sua si aggiunsero
altre voci, e tutte parlavano quella strana lingua… ma che stava pensando, era
davvero così intontito? Sarà un dialetto babilonese, si rispose. Cercò di
capire qualcosa, ma le loro parole si perdevano nella confusione della sua
testa dolorante. Quel bastardo, lo aveva attaccato alle spalle…
Tu non puoi difenderti, lì fuori, diceva Taylor. Forse non aveva tutti i torti.
Perché doveva finire sempre così? Perché lo sballottavano tra le loro fazioni,
picchiandolo ogni volta senza che potesse capirne il motivo… no, questa volta
lo sapeva. Lo odiavano credendolo un soldato… ma David, lui non si era unito ai
ribelli? Così aveva detto quella ragazzina…maledetta! Era colpa sua se si
trovava legato e con un sacco in testa. Sapeva che uscire dalla Torre non
sarebbe stata una buona idea.
Una porta cigolò, nell’aprire e richiudersi. Una delle voci uscì. Quel cigolio
rimbombò nella testa dolorante come un tuono.
L’aria fetida all’interno del sacco lo soffocava. Chiese ai ribelli di
toglierlo, cercando di parlare nella loro lingua, ma loro forse non lo
capirono, o fecero finta di non sentirlo. La mano che incombeva sulla sua testa
la ricacciò fra la paglia, facendo irrompere alcuni aghi all’interno delle
fessure.
Il tuono della porta, qualcuno che entrava. Frasi dette in fretta, qualche
risata martellante. L’uomo accanto lo aiutò a mettersi in piedi, ma nel farlo
il sangue gli salì alla testa, e perse l’equilibrio, rischiando di cadere. E
allora l’uomo lo prese in spalla, fra le risate generali.
«Dove mi state portando?» cercò di dire, ma le parole gli uscirono confuse,
sbiascicate. E tra l’altro stava parlando in inglese. Cercò di ripetere nel
dialetto di Mul, ma come si diceva... non ricordava più le parole. Gli
danzavano davanti, dispettose, senza riuscire a focalizzarle. Stupido, stupido,
dove si era cacciato… e il buio.
Quando rinvenne, si trovava ancora sulla spalla dell’uomo: non doveva essere
passato molto tempo. Cercò nuovamente di chiedergli di metterlo giù; questa
volta le parole erano più nitide, ma lui non sembrava capirle. Qualcosa era
cambiato, non erano più nella stanza, ne nei corridoi vicini alla stanza, lo
avvertiva, ma gli ci volle un attimo per capire da cosa l’aveva intuito: voci
su voci si moltiplicavano da ogni parte, come il brusio di un alveare, incessante
e minaccioso.
Urtò contro qualcosa: una soglia? Poi l’uomo lo mise per terra, cercando di
farlo stare in piedi. A stento si reggeva sulle gambe, ma loro volevano che
avanzasse, nel buio del sacco. Qualcuno lo spinse da dietro, e allora si
costrinse a muovere i primi passi, tremando.
Mani lo spingevano, indicandogli la direzione da seguire: si trovo fra due muri
di persone. Un rombo di urla, appena varcò la soglia. E una sola parola,
gridata all’unisono, distinta. La prima parola che riusciva a decifrare, non
perché la conoscesse, ma perché, sputata con tale rabbia, il significato
diventava palese: traditore.
Avanzava a tentoni fra gente ostile, cercando di cacciare via nella mente
l’immagine di una forca. Quasi perse l’equilibrio, inciampando su qualcuno, che
lo spinse via.
Le lacrime
gli pungevano gli occhi, bagnando il lurido panno del sacco. Lo condannavano,
ma lui non aveva fatto nulla. Sarebbe morto, qui, fra volti sconosciuti, in una
terra straniera… e non avrebbe potuto mantenere la promessa fatta a sua madre.
Inciampò, ma questa volta cadde su degli scalini. Avendo le mani legate, non
poté frenarsi per non sbattere in pieno
volto con il legno di un palco. Delle mani robuste lo rimisero in piedi,
aiutandolo a salire. Ma non c’era altruismo in quel gesto. Solo l’inesorabile
desiderio di rendere l’esecuzione più veloce.
Qualcuno lo
costrinse ad inginocchiarsi, mentre gli toglievano il cappuccio.
La luce lo accecò, ma piano i contorni si fecero più nitidi. Il palco era
accerchiato da una moltitudine di gente, a confronto del quale la sua diversità
sembrava risaltare. Davanti a lui c’era un trono, di legno anch’esso,
rozzamente intagliato con delle figure acuminate.
Vi stava
seduto mollemente, più giovane di quanto si sarebbe aspettato, e dall’alto
della sua posizione poteva permettersi di sedere in modo strafottente,
accerchiando con la gamba uno dei braccioli; le sue mani, ricoperte di anelli,
giocherellano distrattamente con un medaglione che portava al collo. Lo guardò
con i suoi occhi neri, dall’alto al basso quasi con disgusto. Le parole gli
salirono alla bocca, non sapendo da dove, in un sussurro: l’erede di Babilonia.
*
Il
Penitente
«Signora Russell, potrebbe venire un attimo
con me?»
Neidi mi guarda allibita: «Non vedi che è un brutto momento?»
Ma Aurora mi sorride, pallida e tremante. Ricambio, non molto convinto,
cercando di rassicurarla con uno sguardo pieno di terrore. Il letto su cui è
distesa è rosso di sangue.
«La prego, è importante».
Scambiando uno sguardo perplesso con Neidi, Eveline Russel si dirige verso la
porta, con l’intento di seguirmi. Un gemito riesce ad intrufolarsi fuori
comunque, mentre chiudo velocemente l’uscio.
«Cosa succede, signor Parker» mi chiede appellandosi ad un nome falso.
Continuando a camminare: «Non sta andando bene, non è vero?».
Scuote la testa, mentre saliamo gli scalini che portano al piano di sopra. «C’è
troppo sangue…».
«Non c’è proprio nulla che possa fare?» le parole mi escono quasi con rabbia.
Eveline mi scruta per un attimo, leggo l’incertezza dietro la maschera di
comprensione.
« Capisco cosa può provare, ne sono davvero dispiaciuta. Ma lei non può far
nulla…».
« Mi sta dicendo che dovrei guardarla morire così, con le mani in mano?»
attraverso la porta della soffitta, che tengo aperta, perché entri anche lei.
Resta lì, ferma sulla soglia, a pensare per qualche secondo, poi entra. Mi
chiudo la porta alle spalle, e, senza che se ne renda conto, giro la chiave.
Tremo, rigirandola fra le mani, poi la nascondo di fretta nelle tasche. Lei si
accorge di qualcosa, ma mi segue comunque per la stanza.
«Signor Parker, non sono del tutto sicura di quello che stiamo facendo».
Sì, qui
dovremmo essere esattamente sopra la stanza. Eveline Russel continua a
guardarmi in cerca di una risposta, ma io non le presto attenzione, immerso nei
miei calcoli.
Compio
qualche passo intorno a lei, guardando le assi del pavimento, immaginando cosa
vi sia sotto, come se potessi vedervi attraverso, e cercando, muovendomi, di
costringerla a posizionarsi dove ne ho bisogno: esattamente sopra il letto.
Salva una vita, dell’altra mostra
disprezzo.
« Sa, credo che qualcosa da fare ci sia, in realtà…».
È un attimo, sfodero il coltello nascosto nella manica e le taglio la gola.
Non ha nemmeno il tempo di urlare, riesce solo a lanciarmi un ultimo sguardo
sorpreso, poi con un tonfo cade per terra.
Senza curarmi del corpo che continua a contorcersi nel pavimento, mi rivolgo
alla nera figura accanto a me, con la vista annebbiata dal suono di un altro
urlo, dal piano di sotto.
« E adesso?» domando al demone Lilith, «Adesso cosa devo fare?».
“Le parole sono incise nella tua mente”.
Leggendo
nella memoria, comincio a ripetere quella dannata cantilena, di quelle dannate
parole che ossessivamente sono tornate alla mente, trasformando in incubo ogni
sogno. Affiorando sulle labbra mi sembra che suonino, non tradotte, nella loro
forma originaria, parole senza senso, sulle quali per tanto mi sono
interrogato, e che adesso sembrano invece così ovvie.
Accecato
dall’euforia, vedo che il sangue del sacrificio piegarsi al mio volere.
*
Aurora
Le caviglie
le formicolavano ancora dell’erba umida del prato, ma l’avevano già sollevata
da parecchio tempo. Una goccia le cadde sul mento, scivolando per un cammino
inconsueto nella testa abbandonata all’indietro. Le si incastrò fra i capelli.
Iniziava a piovere.
Quando il
sacerdote aveva asperso di acqua benedetta la donna sconosciuta, fra gente
sconosciuta, si era sentita bagnare le gambe. Aveva toccato timidamente la
spalla di Nate, quasi preoccupata di disturbare il vedovo accanto a lui; gli
aveva lanciato uno sguardo che sperava comunicasse tutto. Ricordava di essersi
alzata allora, o che l’avessero alzata, questo era ancora vago, e, dopo aver
fatto qualche passo le gambe avevano ceduto. Non ricordava invece il momento in
cui era caduta; ma doveva essere successo, sentiva il vestito pesante di terra.
Tutto
questo, il funerale, lo ricordava come fosse distante, ma in qualche modo si
rendeva conto che doveva essere il momento in corso, oppure quello appena terminato.
Si era chiusa dentro sé stessa, e solo qualche stimolo più invadente riusciva
ad entrare, come il formicolio umido degli aghi d’erba, che lasciava
intrufolare perché le piaceva fra le sensazione attutite.
Dopo la
caduta, trascorso un tempo che le sembrava lontanissimo, si risvegliò come da
un sogno, ma sapeva che doveva essere passato solo un momento, ricordava di
aver udito urlare l’uomo che la reggeva, che scoprì essere Nathaniel (e chi
altri avrebbe dovuto prenderla?), lo aveva udito urlare mentre la trasportava:
«Perché non la portiamo all’ospedale?».
E qualcuno
rispondere: «Stupido, non sappiamo cosa potrebbe succedere!». Era Neidi, li
aveva seguiti anche al funerale? Per lui sarebbe stata una sorpresa, non sapeva
che in quei giorni aveva vissuto sopra, nascosta in soffitta.
Incastrata
fra i capelli aveva una foglia. Con uno sforzo estraneo sollevò un braccio
leggero e la districò, ma non riusciva a lasciarla cadere, le piaceva
stringerla, umida e morbida, vagamente rassodata dalla linfa che si andava
essiccando. La adagiarono dentro un veicolo, era quello con cui erano venuti?
Poi tutto si spense, e si ritrovò a fluttuare fra pensieri che non prendevano
consistenza.
Un odore
aspro le attraversò le narici attraversandola fulminando fino alla testa. Si
ritrovò Neidi curva sopra di lei che le faceva aspirare i fumi di una
bottiglietta. La mano le si era abbandonata su un lenzuolo morbido: aveva perso
la foglia.
«Su, piccola
mia, uno sforzo e sarà tutto finito- le disse, trattandola con quella cura
eccessiva che si riserva ad una persona malata che non collabora per
riprendersi- quando te lo dirò, dovrai iniziare a spingere».
Annuì, e in
quello si rese conto di avere la faccia bagnata, righe di sudore che le
colavano dalla fronte disincrostando lo sporco del terriccio. Perché stava
piangendo?
Vide la
porta aprirsi, ed entrare Eveline Russell carica di teli fumanti nel freddo
invernale. Si concentrò nel fissare le rughette che le increspavano gli angoli
della bocca, e solo all’ultimo vide, nello spiraglio della porta, i suoi occhi
preoccupati. La porta si richiuse.
Le
contrazioni al ventre le toglievano tutte le forze, un dolore che la torturava
dall’interno: si ritrovò ad odiare il suo corpo. Perché era così difficile?
Perché venire al mondo era così difficile? Cosa c’era di naturale in questo
dolore che sembrava strapparle via parte di sé stessa, che lacerava in due quel
legame che le era cresciuto dentro ed era suo, tutto suo, cosa c’era? Ad un
altra fitta, sprofondò nuovamente nelle sue tenebre. Volontariamente.
Delle pezze
sulla fronte le fecero rendere conto di stare bruciando. La foschia si diradò a
poco a poco, non riportandola subito alle soglie con la realtà. Le piaceva
galleggiare immersa nel liquido dei suoi pensieri, concentrarsi sul proprio
respiro sentito dall’interno, sui movimenti che avvertiva accadere dentro un
corpo che adesso percepiva in tutta la sua fisicità, come se lo guardasse
dall’interno, ed era estraneo e suo allo stesso tempo. La rassicurava cullarsi
in quel limbo, e lì sentire con una ferma certezza la presenza di quell’altro
essere che era lei stessa e allo stesso tempo non lo era; e non voleva, proprio
non voleva che quel legame che le univa si staccasse.
Pensò che
una volta nata, avrebbe finalmente conosciuto la figlia che le era cresciuta
dentro, ma scartò subito quel pensiero, perché già la conosceva, già era sua,
non voleva osservarla da fuori, come qualcosa di estraneo. Aveva stretto le
braccia intorno al ventre. Attraverso il pelo dell’acqua, osservava i movimenti
delle due donne che si affaccendavano sopra di lei, le giungevano sfocati e
brillanti, come la danza di un caleidoscopio. Sentì il proprio respiro
fermamente, un’ultima volta, al ritmo di un rumore distante che sembrava
tornare da lei a scandire i secondi che scivolavano, l’infrangersi delle onde
sulla scogliera, dalla calma impetuosa che giorno dopo giorno a sé reclamava le
rocce. Volle abbandonarsi al ritmo delle onde, ma Neidi si era chinata sopra di
lei, la faceva respirare dalla bottiglietta.
«Reida devi
rimanere sveglia! Adesso devi spingere, piccola mia, devi spingere». Si rese
conto di stare stringendo la mano di Eveline Russell. Che qualcosa le si era
lacerato dall’interno.
La porta si
aprì.
«Signora
Russell, potrebbe venire un attimo con me?» chiese con una strana luce negli
occhi, spenti, freddi, lasciavano intravedere qualcosa che stava accadendo in
profondità.
«Non vedi
che non è un buon momento?».
Sollevandosi
per guardarlo, vide il lenzuolo sporco di sangue. Fu un attimo, comprese,
decise, nascose tutto e sorrise, cercando di rassicurarlo, ma sotto c’era
qualcosa che cercava disperatamente di chiedergli di perdonarla.
Lui non se
ne accorse, ricambiò con una smorfia che avrebbe dovuto essere di conforto; non
era mai stato bravo a mentire.
«La prego, è
importante».
Eveline
scambiò uno sguardo perplesso con Neidi, si convinse, richiuse la porta.
Rimaste da sole, si lasciò sprofondare nuovamente nel limbo. Nella testa un
fischio permeava tutto come vapore su una finestra.
Lì restava
sospesa una domanda, percepì finalmente con chiarezza la portata dei propri
pensieri, quel flusso sotterraneo che fino ad adesso aveva cercato di
nascondere, ed era riuscito ad infiltrarsi solo a volte nel flusso della
coscienza, come una sensazione indistinta, un malessere che non si concentra ma
diffonde in ogni particella di attimo come un lento soffocare: nessuna caduta
nell’abisso, la semplice voglia di distendersi e chiudere gli occhi per
dimenticarsi del mondo. Ma adesso l’abisso si apriva, turbava l’acqua che agitava
la superficie, e la vedeva, finalmente, quella domanda che oscurò tutto il
resto: “Che cosa abbiamo fatto?”.
L’orrore
risalì dal fondale dilatandole le pupille, si ritrovò urlante nel letto rosso
del suo sangue, con Neidi che le urlava anche lei piangendo di spingere, solo
un ultimo sforzo, doveva spingere. Reida la guardò, nella casa finalmente in
silenzio; scosse la testa.
“Che cosa ho
fatto?” mormorò ricadendo nel baratro. L’avrebbe accolto col suo ultimo
respiro, l’abisso sarebbe entrato dentro di lei e l’avrebbe resa all’infinita
quiete della morte, trasportando con sé quell’essere che ancora non le era
disgiunto, non ancora la bestia. Neidi incombeva sopra di lei muovendosi tumultuosamente
come si muove il pelo dell’acqua, cercava qualcosa che la costringesse a
rimanere; non capiva che non si può combattere contro la ferma decisione di
morire.
Mentre il
nulla cominciava ad avvolgerla, si chiese se per caso non fosse così la morte,
quel lento fluttuare fra pensieri che ad uno ad uno si spengono, ma poi decise
che probabilmente ognuno aveva il suo proprio modo di morire, e a lei era
sempre piaciuto tanto il mare.
...Sulla scogliera i secondi che
passano....
Riusciva a
sentire ormai solo il mare che scandiva il tempo come un grande orologio, sulle
pupille le calava una foschia, i contorni si sfocavano, e riusciva a vedere
ormai bene solo al centro, i chiodi nelle assi di legno sul soffitto... il
soffitto.
Neidi, lo
vedi il soffitto? Una lingua di fuoco vi strisciava sibilando a tracciare dei
simboli che in qualche modo riusciva ancora a comprendere, tagliava le assi
fino a mordersi la coda, fino a tracciare il marchio. Una risata isterica
risalì dalle viscere, non trovò spazio fino alla gola. “Che cosa hai fatto?”.
Ti prego, non è possibile. “Che cosa hai fatto?”. Degli artigli le entrarono
nel ventre, strapparono di dosso la piccola vita che teneva in grembo; afferrò
quel filo sottile che ancora la legava alla vita. Ti prego, non tagliarlo.
Urlò, riprendendo un attimo coscienza, urlò una maledizione che non comprendeva
nemmeno. Il soffitto incendiato mandava una luce accecante; rimase impresa
sulla retina, quando sopraggiunse l’oscurità.