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Autore: Diacquaesangue    20/05/2014    0 recensioni
Un altro tempo è stato colonizzato dal nostro. Daniel, partito alla ricerca della verità sulla morte del fratello, rimane intrappolato in quella matassa di inganni, che non gli permettono di ripartire, e nemmeno di trovare la verità che stava cercando. Perso nella tela di menzogne tessute da qualcun altro, scoprirà che le certezze che aveva su sé stesso sono altrettanto labili dei contorni del tempo. Ma qual è il legame con la storia di Nathaniel? Qual'è il vero piano della Dea? Come è morto suo fratello?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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patto con un demone

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Patto con un demone

 

 

 

 

 

L’Esclusa

Sulla parete della doccia, spiccava il vuoto ocra di una mattonella staccata e non sostituita, fra le altre di bianco smaltato. L’irritante bottone che attivava la doccia (per un tempo così limitato che si era costretti a sciacquarsi a soste) si trovava proprio sotto quel vuoto: non poteva fare a meno di incrociarvi lo sguardo. Tentò di grattare via la colla solidificata che un tempo reggeva, evidentemente senza successo, la mattonella, e spinse quel dannato bottone più volte, con foga, sperando di aumentare lo scorrere dell’acqua.

In quel momento uscivano ridacchiando Liza ed Amy, due ragazzette fresche di recluta. Dio, com’erano fastidiose! Era stata così un tempo anche lei? Quella risata sguaiata da oca aveva un non so che di frivolo, di irrispettoso, di fresco… di nuovo. Aveva riso così stupidamente anche lei, i primi tempi in cui si era arruolata?

Parlava come fosse una vecchia, pensò, sbattendosi una mano alla fronte, e invece erano passati ancora solo cinque anni. Che stupida.
Dopo aver passato più di un mese e mezzo a Kish senza trovare alcuna traccia dei ribelli, erano stati richiamati alla sede centrale senza apparente motivo. Da allora li avevano spostati qui e là nella città, quasi che il compito del suo reparto scelto non fosse altro che coprire i buchi nel sistema di guardia.

Uscendo, la porticina che chiudeva il vano-doccia cigolò lugubremente, poi si richiuse di scatto. Lo spogliatoio era vuoto.

Inspirò l’odore della pelle, controllando che il bagnoschiuma avesse fatto il suo dovere, e non vi fosse traccia del sapore aspro degli allenamenti. Non era riuscita nemmeno a parlargli.

Perché adesso le veniva questo stupido pensiero? Le lacrime iniziarono a pungerle gli occhi, per trattenerle prese un lungo respiro con le palpebre spalancate.

Erano così simili…

Doveva smettere di pensarci. Prese l’asciugamano e quasi si grattò via la pelle strofinandosi; afferrò il tubetto di crema idratante, ma lo rigettò dentro il borsone, perché proprio non le andava di stare lì a massaggiarsi finché la crema non si fosse asciugata. Pazienza, le si sarebbe seccata la pelle.

Si mise in spalla il borsone, e quasi non si accorse del tempo che intercorse fra gli spogliatoi e la mensa.

 

Sedendosi al tavolo, si accorse di aver preso la minestra.

Paul, seduto di fronte a lei, gesticolava con la forchetta, quasi mettendo in mostra l’uroboros impresso nella mano, e ponendo così una certa enfasi alle sue parole.

«Scusa, a me sembra proprio un idiota. Insomma, perché andarsene, se sapeva che fine ha fatto suo fratello?».

Ovviamente… non si parlava d’altro da quella mattina.

«Magari non lo sapeva nemmeno» rispose quel tipo, come si chiamava? Ah, si, Abe, il figlio di Richard Murray, delle truppe del primo cerchio di mura (zona nord-est), con quel suo accento inglese stranamente marcato per uno che sia sempre vissuto a Babilonia. Ultimamente aveva iniziato a bazzicare fra le truppe speciali, per qualche motivo, e ciò dava un sottile fastidio, perché una legge implicita richiedeva di fraternizzare solo con quelli della propria divisione, quelli con cui rischiavi la vita, e che diventavano come dei fratelli. Ma in fondo non era che un’abitudine imposta dal cameratismo.

«Ma sì che lo sapeva, Altrimenti perché andarsene?».

«Beh, chi può dirlo? Basandoci sui dati, possiamo solo dire che non si trova più nella zona dei Contemporanei» disse, con un tono diplomatico che ricordava fin troppo il padre.

Lauren sbriciolò uno dei crostini che la sua mano aveva deciso sarebbero stati molto bene con la minestra, ed intinse il cucchiaio, cercando di mimetizzarsi con l’ambiente di mandibole masticanti.

«State parlando di Daniel?» si unì Patrick, altro intruso, ma giustificato, visto che stavano mangiando nella mensa delle reclute. Però la presenza era fin troppo ingombrante, mentre si sedeva rumorosamente accanto a lei, con il vassoio stracolmo di roba. « A me piaceva».

“Ma davvero?” avrebbe voluto chiedergli. “Certo che ti piaceva, a te piacciono tutti, stupido bamboccio in cerca di attenzioni…” ma perché ce l’aveva con Patrick?

«Beh, sapete che vi dico? Si merita qualsiasi cosa gli faranno, come se l’è meritato suo fratello».

«Come puoi dire qualcosa del genere? era tuo amico» disse, guardando verso il suo piatto,  quasi senza accorgersene, certo senza pensare.
Vide con la coda dell’occhio che l’attenzione di Paul le si rivolgeva, sentì che le lanciava uno sguardo di ghiaccio. Continuò a rimestare col cucchiaio la minestra.
«Non lo sarebbe stato, se avessi saputo ci avrebbe tradito per quei fondamentalisti».
«Da quando sei così fedele, Paul?» gli chiese, decidendo che era il caso di alzare gli occhi «e… e da quando leggi quelle stupidaggini sul sovrano immortale?».

«Non sono affari tuoi».
«Sei mio amico, certo che sono affari miei. Capisco che sia un periodo difficile, ma...- “vuoi smetterla?” cercò di interromperla. – ma credere in queste cose non è da te, e...»

«Tu che ne sai di me?- sbraitò a denti stretti, per non alzare la voce, e battendo un pugno sul tavolo, che rese nullo il suo tentativo di non attirare l’attenzione- smetti di parlare di cose che non sai...».
«Bene, allora dimmi pure».

«Non puoi capire».

«No, sul serio, spiegami perchè...» si interruppe, comprendendo che non sarebbe valso a niente. «Nulla, lascia perdere» e tornò a fissare le piccole increspature che il suo respiro muoveva sulla minestra.

Le narici di Paul fremevano, quasi volesse attaccarla, ma non potesse, perché lei era una donna, oltre che la sua compagna in armi. Si costrinse a chiedere:« Piuttosto, dove ci hanno spostato la prossima settimana?».

«Al palazzo sud, hanno di nuovo aumentato le ore di pattuglia» rispose, continuando come lui a fingere che la tensione di poco prima non ci fosse mai stata.
«Ah si? Quando la smetteranno di  sbatterci da una parte all’altra?» aggiunse Timothy.

«Stanno perdendo il controllo, e non hanno abbastanza uomini per fingere di essere più forti di quanti siano in realtà».

Gli altri voltarono lo sguardo perplesso verso Abe, che, noncurante dell’effetto delle sue parole, puliva scrupolosamente le lenti dei suoi occhiali di corno.

 

 

*

 

 

Il Soldato

Districo il passo nella palude di spavento. L’acqua nera e densa mi bagna le ginocchia, mi avvinghia le caviglie, agitata dal desiderio di immergermi interamente nel suo abbraccio. Lei versa calde lacrime di rimpianto, nere e dense come denso e scuro è il liquido già versato; mi stringe e nell’abbraccio dolce e struggente della morte, lacrime mi grondarono in gola, fin nelle profondità del mio corpo, mescendosi al mio sangue, soffocandomi. Tento di scacciare a braccia tese la sua immagine fumosa, di strappare la stretta trama dell’oscurità. L’attenzione si acuisce nella tensione, e percepisco senza vederla un’altra figura, supina e mezza inghiottita dal pantano. Pur non sapendo chi sia, ho avvertito già con la sua presenza chi è. Credo di conoscerla, la sua storia, come se mi passasse davanti, mentre, annusandolo, inizio a ringhiare contro l’intruso. Ci accomuna la stessa fatica, eppure collera nera mi entra in circolo nelle vene, già infette di paura, e pungente come filo spinato, raggiunge il cuore in un trionfo di euforia. Vorrei tendere una mano allo sconosciuto, invece gli stringo le dita intorno alla gola. Forse basta la sensazione della sua pelle per dirmi chi sia: è un ribelle, peggio, è un traditore. Stringo di più le mani attorno alla gola, premendo più forte sulla giugulare; nell’euforia i battiti si fanno veloci, mi manca il respiro.

Cos’è la pazzia, se non esaltazione dell’io? Cos’è l’odio, se non affermazione dell’essenza? Esisto, esisto e la tua esistenza non mi permette di essere pienamente me stesso. Perciò ti odio. Stringo, stringo sempre più forte. Una risata risale dalle viscere, euforica di paura, e prorompe rompendo il silenzio. Il rumore della mia stessa voce mi fa ritirare dentro me stesso. È paura, quella che provo? Non riesco a respirare, vorrei gridare, ma non ci riesco.
Nel silenzio, una nota piano cresce, melanconica. L’acqua della palude calma le sue onde, si cristallizza in una fredda distesa oscura: la paura si dirada con l’oscurità, nel freddo silente comincio a vedere. Distinguo i contorni della nera figura che mi sovrasta, poi una luce mi permette di vedere chiaro, facendo sorgere i suoi lineamenti contratti, il suo sguardo da folle, le sue dita strette intorno alla gola. Lo sguardo del carnefice sembra chiedermi pietà, chiedo pietà per me stesso, mentre stringe ancora più forte; sembra chiedermi di fermarlo, prima che la vita mi scivoli giù dalle dita. Sembra chiedermi come sia possibile che sia il carnefice e la vittima, ad un tempo. E incombe su di me la nera figura del soldato, finché non è sfuggito anche l’ultimo respiro. E quel sorriso crudele dipinto sul mio volto.
No, non sul mio. Su quello di mio fratello.

 

Ricordo vagamente il mio grido nella notte. Madido di sudore, cercai di riprendere coscienza della realtà; ma l’oscurità notturna rallentava il processo, come in continuità col sogno.

«Stai tremando» asserì freddamente un’altra voce; ci misi un attimo di troppo per rendermi conto che non era la mia, per l’alienazione del sogno.

Un movimento alla parete tradì la sua figura, nascosta dall’imponenza della sua stessa ombra. Come uno stupido mi chiesi come una figura così esile potesse produrre una macchia di quelle proporzioni sulla parete. Oscillavo ancora fra scetticismo e il dubbio.

«Cosa ci fai qui?» le chiesi, non senza sforzo, con un tono che non nascondeva l’invito ad andarsene.
«Controllo soltanto che pensieri passano sul mio cavaliere la notte prima di mostrare la sua lealtà». Lentamente, si avvicinò al letto, ponendomisi davanti, e con uno sguardo contorto riprese: «Dicono che la notte porti consiglio, hai qualche ripensamento, mio cavaliere?».
«Lilith smettila, è stato solo un sogno…».
«Solo un sogno?» sillabò, contenendo a stento lo sdegno «Cosa ne sai tu di cosa sono i sogni? Non posso fidarmi di te, se già nel sonno decidi di tradirmi… E che cos’era, quella visione? Hai forse paura di me?».
Il suo tono era mutato nuovamente, facendosi lascivo ed ironico. Cambiava espressione come fossero maschere, nulla più che una copertura da esporre a piacere, cosicché era difficile comprendere se con esse cambiasse anche il suo pensiero.
«Cosa vuoi che ti risponda?» le chiesi con uno sguardo severo, poiché aveva deciso di mettermi con le spalle al muro per un’idiozia. Ed ecco che il suo aspetto mutò nuovamente, sembrando dispiaciuta del suo comportamento. Come stringendosi su se stessa, si sedette sul letto, accanto a me, guardando fisso verso il pavimento, ammutolita.
Dopo attimi di silenzio mi chiese, quasi tremante: «Hai davvero paura di me?».
Avrei voluto risponderle di no, ma a che sarebbe servito? Avrebbe subito compreso che mentivo. Invece restai in silenzio, e come risposta le presi la mano, sperando che quel gesto bastasse a calmarla e che non portasse ad altre domande. Lei intrecciò le dita alle mie, si sporse verso di me, e delicatamente cominciò a baciarmi il collo. Ma i suoi baci da delicati si fecero violenti, mi morse ridendo la pelle, con cattiveria. La spinsi via, ed alzandomi: «Perché fai sempre così?- le chiesi- Mi chiedi di fidarmi di te, ma come potrei?».
L’espressione cattiva era stata soppiantata da un’altra smarrita. «Non capisci? Sostieni che i soldati rinascono diversi… bene, tu quante anime hai…preso? Non so nemmeno come dirlo! Come posso fidarmi di te, se nemmeno ti conosco. Come potrei? Come posso capire chi sei tu veramente, e quando invece sei altro?».
Alle mie parole, un’altra espressione. Guardandomi fisso gli occhi le si dilatarono, il respiro divenne affannoso, come annaspasse alla ricerca di aria. Iniziando a tremare, si strinse nelle sue braccia, e dondolandosi, ripeteva frettolosamente parole che non capivo, un dialogo di domande e risposte che costruiva da sola. Non mi sarei mai aspettato una reazione del genere, nemmeno considerando il suo carattere incostante. Per cercare di calmarla, mi costrinsi ad abbandonare la solidità di comportamento che avevo imparato ad assumere quando ero con lei: non potevo, infatti, adattarmi ai suoi repentini mutamenti, perché il suo comportamento così volubile, mi avrebbe inconsciamente costretto a cambiare velocemente anche i miei sentimenti.
Mi misi davanti a lei, abbassandomi sulle ginocchia per arrivare all’altezza di lei ancora seduta sul letto; la presi per le spalle, cercando di far cessare i suoi movimenti, e cercando di rassicurarla con un tono comprensivo.
Ma lei scosse la testa, si divincolò dalle mie braccia, e, nuovamente presente a sé stessa, guardandomi in modo disperato, mi chiese: «Come posso risponderti, se non ho una risposta nemmeno per me?».

 

 

*

 

 

La Fenice

Non pensi mai che quel che fai sia sbagliato?  Chiede una delle voci, dall’intero. Suona familiare alla coscienza, ma ci conosciamo ancora poco.

Certo che ci penso, gli rispondo, ma non posso fare altrimenti.
Vorrai seguirLa fino alla fine?  Chiede un’altra, da un altro angolo della testa, un po’ più in profondità. Cos’altro potrei fare? Ho siglato un accordo, ormai siamo legate per sempre, e torneremo ad essere una cosa sola.
Sussurri echeggiano, nella camera dei sacrifici, come nella testa. Passeggio fra i morituri assopiti, cercando di decidermi per quale anima aggiungere alla collezione. Rabbrividisco quando mi attraversa l’imperativo: “E’ necessario, devi essere più forte”.

Mi soffermo su un pensiero che scivola via; appartiene ad un insorto reso ormai docile dal dolce  oblio della dea. Chissà se non sia meglio così, rivivere nell’estremo della vita i propri ricordi, e così cancellarli, bruciare tutti i pentimenti, tutte le effimere felicità, tutti gl’imperituri inganni, dare alle fiamme tutto il proprio passato, in pasto alla Dea, smettere di lottare contro la sua fame, ed infine, lasciare reggere il corpo solo dalle catene, abbandonarsi con tutti sé stessi al profondo silenzio. A volte pesano così tanto i ricordi.
Forse questo è anche il suo pensiero, mi dico osservando i suoi lineamenti caduti, la mandibola aperta, i muscoli rilassati, senza più forze; forse anche lui si starà chiedendo perché lottare, perché ha lottato fin dal primo istante. Infondo la meta è sempre la stessa, che si muoia combattendo o da vecchi in un letto. “Il fine è uno, ed è la Morte”.
Ormai si è lasciato troppo andare, la Parca ha reciso quasi tutta la trama, resta solo qualche filo di un’esistenza stracciata. Non posso nutrirmi di lui.
Se segui i suoi comandi, dovrai avere anche tu i tuoi fini, torna a farsi sentire la voce del nuovo arrivato, che evidentemente non conosce le regole del mio regime, ed, infastidendomi, inizia a rovistare fra i miei propri pensieri, cercandosi da sé la risposta che non voglio dargli. Afferratolo per la collottola, lo costringo a ritornare al suo posto. Non iniziate a confondervi, ordino a tutti. Abbiamo sprecato troppo tempo per mettere ordine. Mesi interi a restare segregati nelle mie stanze, con la mandibola abbandonata come quella dei morituri di questa stanza, senza più ricordare a chi appartenevano i ricordi sparpagliati alla rinfusa, cercando di placare quelli che turbinavano senza più controllo, senza più comandante: quelli più dolorosi, più pesanti.

Io credo che se ci prendi con te, deve esserci qualche altro motivo, riprende, indomita, la stessa voce nella mia testa; aggiunge, un po’ timoroso, se per caso non mi senta sola.
Zitto stupido, ingiungo, ma dentro dentro qualche parte di me dice che forse ha ragione. Non importerebbe. In fondo, voi cosa siete, se non qualche filo non reciso che ho voluto aggiungere alla mia tela? Siete qualche ricordo, sperduto, forse mezzo carbonizzato, che ho voluto inserire fra i miei, dove c’era spazio; non siete altro che questo, e voi non mi rendete certo meno grave la mia solitudine.

Ferito, il brandello di un’altra anima ingiunge che è un isolamento che ho scelto da sola, prima di cadere nel silenzio. Tu non sei mai sola, aggiunge rassicurante una voce, la più familiare di tutte.

Cerco ancora fra i corpi abbandonati un’anima non troppo perduta per essere salvata, vagando fra i sentori di frammenti di ricordi. Percepisco, un po’ nascosto, il rumore di acqua che gronda giù da una cascata. La vedo brillare di raggi, come una chiara chioma schiumosa. Dalla mia sinistra giunge imprevisto, e si impone, il ricordo di uno scriba: ancora imberbe, fra altri ragazzi, affonda lo stilo sulla tavoletta friabile, apprende a saldare la memoria, come una formula magica. E mentre sono ancora inebriata dalla fragranza dell’argilla che cuoce al sole, eccomi ad accarezzare un vecchio cane cieco, col pelo incrostato di sporco in grandi ciocche, che abbaia affaticandosi ma ancora contento di vedere il padrone.

Cos’è che distingue, in fondo, un uomo ed un dio? Entrambi camminano lo stesso mondo, cambia solo la prospettiva: noi guardiamo il cielo, il loro sopra è la terra, e guardano straniati quegli strani esseri che camminano sopra di loro, a testa in giù. Entrambi proviamo le stesse passioni, forse loro sono più volubili, e per i mortali sono più durature, per il desiderio di qualcosa, almeno qualcosa, che resti per sempre. Entrambi siamo l’affiorare come coscienza di tanti individui, tanti piccoli individui che discutono fra loro su chi abbia la meglio, e possa porsi sul capo la corona di Io. Cos’è, dunque, che ci distingue? Il tempo.

Nient’altro che questo: loro hanno più tempo. Ciò li rende più grandi, forse ai nostri occhi immensi. Non hanno fretta, possono aspettare; l’ingordigia non la conoscono, perché hanno già vissuto tutto almeno una volta, e tutto vivranno ancora una volta, per sempre. Ci distingue anche ciò che viene col tempo. L’esperienza. Loro non hanno vissuto una sola vita, ma tante, sotto vesti differenti. Incuriositi, hanno camminato fra gli uomini, per provare anche loro quell’unica cosa che il cielo non ha: una scadenza. E sono morti e risorti e morti di nuovo, ed hanno ingoiato le stesse fatiche, gli stessi rimorsi, le stesse artrosi che sono lo squisito saluto al mondo. Hanno amato i mortali, perché solo i mortali conoscono la voracità nell’amore, che prende tutto. Ed hanno pianto sui loro corpi avvizziti, prima di tornare nel cielo, a dimenticare. 

E poi un giorno, stanchi del loro vagare, hanno smesso di visitare la terra. Inorgogliti dalla loro infinita conoscenza, hanno guardato quegli esseri ingenui che aprivano or ora gli occhi sul mondo, che come eterni bambini provavano meraviglia per ogni banalità, li hanno guardati con un nuovo disprezzo. A che scopo scendere e camminare fra loro, quando potevano amarsi fra pari?

Una sola è rimasta, e per sempre rimarrà; io, che ormai sono la più antica di tutte. Che differenza fanno queste divinità altere che sedute sui loro troni si rammolliscono aspettando i fumi delle vittime sacrificali, che differenza con quegli altri più giovani, che amano, servono, temono, vivono più intensamente? Non è altro che questo, il Suo fuoco, non è altro che passione.

I corpi della mia generazione sono stati sepolti sotto le montagne del mondo, per loro, che hanno costituito le dimensioni dell’universo, sono stati già scritti gli epitaffi con le stelle. Io sono Sud, la più vecchia, ormai, la più antica di tutte.

Ricordati, Nil, tu non sei la Dea.

Mi ferma una risata familiare, mentre sono sul punto di andare via a stomaco vuoto. Giace sotto i ricordi più vigorosi di altre anime più attaccate alla vita, ma essa mi attira comunque per la sua familiarità. Ne cerco la fonte, mentre il cuore sembra spaccarmi il torace, avvinghiata ad un terribile presentimento. La fonte è una donna.

Come hanno osato? Come osato farle assaggiare il gusto di una donna, per Lei che solo ha conosciuto il sangue maschile? Le sue serve che conoscono che la sua vendetta non è diretta contro il genere femminile. Ecco che torna, l’imperativo: “Il suo passato ho destinato per te. Dal tuo ventre sterile mai potrà nascere la vita, e cosa puoi conoscere della vita, se non ne potrai mai portare una al mondo? Ecco, il mio ultimo dono, io ti dono il sangue di una madre”.

Riposa eretta dalle catene che le incidono i polsi. Ha qualcosa di familiare, ma non saprei dire cosa, così le chiedo, ingenuamente come una bambina. «Come ti chiami?».

«Come ti chiami?» ripeto, ricevendo come sola risposta la mia eco.

E’ troppo debole per sentirmi, che sia giunta troppo tardi per salvarla? Ritorno sui miei passi, col rimorso di un sacrificio inutile, con la delusione per una divinità che non crede nemmeno più in ciò che dovrebbe proteggere.

«Aspetta…» ansima mangiandosi le ultime lettere.  «Per favore, aspetta…».

Involontario, spunta un sorriso cattivo e distrugge la mia rassegnazione. Prende il sopravvento dentro di me quella parte demonica che vorrei mostrare come un trofeo. La donna, risvegliandosi, sembra riacquistare le forze insieme alla coscienza di dove si trovi. Apre gli occhi e chiede: «Ti prego, liberami».

«Non posso».

«Ti prego…» la sua voce è roca, viene fuori a fatica, come se giungesse da lontano. «Ti prego, liberami, ti prego, liberami» continua a sussurrare, vaneggiando in un piagnisteo, guardandomi fisso con quei suoi occhi ormai vuoti.
«Non posso… non sono quelle catene a tenerti prigioniera…» non termino la frase, che subito scoppia in un pianto disperato, da bambina. «TI PREGO!».
La sua mente è così annebbiata da non essere nemmeno sorpresa di udire la voce di una ragazzina nel mezzo di quel dolore. Eppure, resta avvinghiata al bordo della coscienza.
«Qual è il tuo nome?».

«M-miriam» risponde speranzosa.

«Miriam, non posso liberarti. Sai cosa ti sta succedendo?». Scuote la testa, lentamente. «Tu stai svanendo, non posso fare nulla per concederti la vita, credimi, vorrei, ma non posso» immersa nei raggiri per siglare il contratto, quasi dimentico che una parte di me lo vorrebbe davvero. L’altra parte di me, quella senza scrupoli, riesce a fingere la costernazione che in un altro stato avrei provato davvero. «ma forse… Miriam… tu non sei di Babilonia, non è vero?» le chiedo, interrompendo un esecuzione celere per il riaffiorare della sua familiarità.
«No… per favore…».
«Da dove vieni?».
«I miei genitori, loro erano di Babilonia. Noi… noi siamo scappati tanto tempo fa, siamo andati nell’altro te-empo… mi hanno ca-catturata… Orhan…. Hanno preso anche lui».
«Dall’altro tempo? Come hai fatto ad arrivare qui?» .

«Mi hanno portato qui i cavalieri in uniforme».
«Perché? Che interesse avevano in te?».
«Mio-mio marito... ha aiutato i r-ribelli… loro lo sapevano, che ho incontrato il ragazzo».
Mi avvicino alla donna, le accarezzo i capelli: «Cosa vuoi che faccia per te?».
La donna fra le lacrime, annuisce, mi ringrazia come fossi una benefattrice.
«Qual è il tuo desiderio?».
«Mio figlio… ha-hanno preso anche mio figlio, Orhan… Ti-ti prego, salva almeno lui…».

«Lo farò – (grazie grazie, biascica )– se vuoi, lo possiamo fare insieme.

Miriam, ti fidi di me?».

 

 

*

 

 

Il Penitente

 

Il vento infuria sulle case nella scogliera, soffiando da un cielo pesante, iroso, che sembra pesare sulle spalle. Salendo i tre scalini che fanno da introduzione alla porta d’ingresso, busso forte sul legno fradicio, di un verde pallido. Busso ancora, e poi ancora più insistentemente, ma non giunge nessuna risposta dai vicini della casa accanto. Non perdendo più tempo, busso alla casa dopo, e a quella dopo ancora, e quella dopo ancora. Nessuna risposta. Pieno di amarezza volgo le spalle alla porta incrostata di un arancione ostile, ma proprio in quel momento si affaccia uno spiraglio, ed una voce stanca chiede scontrosamente di cosa abbia bisogno. La signora Russell si pulisce le mani sporche in una pezza, stacca i pezzi di impasto che le si sono appiccicati fra le dita.
«Mia moglie… la prego, le si sono rotte le acque…»
Il suo volto s’illumina come di chi abbia colto un collegamento; lasciando la porta aperta, si affretta per il corridoio, entrando in una stanza; non ho il tempo di chiedermi cosa stia facendo, che subito ne riesce, fra le mani ancora impastate, al posto dello strofinaccio, un gran numero di teli.

«Forza, andiamo» e aggiunge, rispondendo alla mia espressione interrogativa: «Quella donna che vive con voi mi aveva avvisato che sarebbe successo da un momento all’altro».

 

Tic, tac. Il rumore del telaio della Morte che tesse accanto a me. Con i fili sembra giocare, si sofferma a decidere se unirli e o se dividerli, come le detta il capriccio. Tesse con dita veloci una parte della tela, poi cambia idea, disfa parte della trama. Il cuore mi diventa pesante, mentre recide un filo.

Attraverso la porta della camera da letto un gemito stranamente mi rassicura, è almeno testimonianza che sia ancora viva.

Non vivrà ancora per molto” sussurra con voce agghiacciante la Morte nella sindone nera. Un lungo velo le copre il volto, ma lascia trasparire quel tanto che basta per indovinare un sorriso irrisorio. Tic, tac, e spezza un altro filo. Lo schioccare secco del telaio batte in sincrono con l’orologio, che segna l’ora.
Perché non dovrebbe? Perché qualcosa dovrebbe andare storto?
“Perché sempre è richiesto un prezzo. Non si può trascurare l’ordine, senza che altro attraversi il confine”.
Mi alzo per misurare la camera angusta a passi nervosi. La nera figura della Parca, curva sul telaio, passa e ripassa la spola sull’ordito. Cosa significa? Una delle due dovrà morire?

“Per sorvolare sul vostro crimine, deve tornare a posarsi nella caligine. Salva una vita, dell’altra
mostra disprezzo”.
Non puoi parlare chiaramente? Chiedo, prendendomi fra le mani la fronte sudata. Perché dovrebbe morire una delle due? Se davvero è una dea che nasce lì dentro, perché non dovrebbe mantenere la sua promessa?
La loro vita non è ancora divisa, se una soccombe, le perderai entrambe. Cosa credevi, che fosse facile come vivere eludere la legge che estingue il  morire? E’ uno scambio, nulla più che uno scambio, una legge giusta, se rifletti, in fondo.
Il loro destino l’ha sancito l’istante che ti ha risparmiato la vita. Ricorda la legge: Salva una vita, dell’altra mostra disprezzo”
e tagliò un altro filo dalla sua tela.

C’è una pagina in più di ciò che mi spetta, nel Libro dei destini, fitta di annotazioni fugaci a matita. Quelle mani raggrinzite, attente a distinguere all’arcolaio i singoli fili dalla matassa informe, in un solo gesto cancellarono tutti i progetti, tutti i problemi irrisolti. Dovrà rimanere bianca? Le chiesi, abbandonando l’orgoglio, con tono implorante: Che senso ha una vita senza un destino?
Il fine è uno, ed è la Morte”.
Ed io vivrò, per anni ancora, brancolando in un mondo che per me non ha significato? Che fine avrà la mia vita, fuori dal destino del mondo? Perché allora risparmiarmi?
“Chi ha detto debba esistere un senso?” dichiara in un ghigno la Morte.

Sedendo, sprofondo nel divano, e come il mio corpo sprofondano i miei pensieri. La Morte, fedele compagna, accompagna col suo ritmo tagliente i gemiti lamentevoli della camera chiusa. Mi afferra, salda, la vuotezza dell’essere. A sguardo fisso, lascio scivolare gli istanti in quella tremenda melodia, senza muovere in un solo muscolo.
Lascio scivolare insieme agli istanti ogni meta, ogni speranza, ogni legame, che si scoprono finzioni e si aggiungono al cumulo di illusioni ai miei piedi, finché anche il mio interno mostro non cessa di esistere. Non posseggo più nulla. Non sono più nulla.

Dentro il mio essere ormai vuoto, la Morte rimbomba con voce suadente:

Non perderti”.
Perché non dovrei?
Perché la tua Dea non ti ha abbandonato, in fondo”.
Tic, tac: il telaio scandisce il silenzio. Un urlo, un altro filo tagliato. E finalmente il mio cuore si riempie di nuovo di un’incredula speranza.
La Morte sorride maligna, la mia fedele compagna sa che finalmente ho compreso. Non riuscivo a vedere la dea di Aurora, lei stessa sembrava più non comprendere, mentre il ventre le si arrotondava e cresceva dentro di lei. Come uno stupido non capivo, ed invece era talmente palese: è sempre stata accanto a me.

 

 

*

 

 

Il Pellegrino

Non riusciva a respirare. Svegliandosi, subito la testa iniziò a pulsare. Aprì gli occhi, ma non riuscì a vedere nulla: che fosse diventato cieco?
Lentamente, tuttavia, si abituarono alla flebile luminosità, che filtrava attraverso le fessure del tessuto: gli avevano coperto la testa con un sacco. Cercò di alzarsi, ma una mano possente, borbottando qualcosa in una lingua sconosciuta, gli spinse di nuovo il volto verso il pavimento… no, non era un vero pavimento. Sembrava paglia, o qualcosa del genere. Alla sua si aggiunsero altre voci, e tutte parlavano quella strana lingua… ma che stava pensando, era davvero così intontito? Sarà un dialetto babilonese, si rispose. Cercò di capire qualcosa, ma le loro parole si perdevano nella confusione della sua testa dolorante. Quel bastardo, lo aveva attaccato alle spalle…
Tu non puoi difenderti, lì fuori, diceva Taylor. Forse non aveva tutti i torti. Perché doveva finire sempre così? Perché lo sballottavano tra le loro fazioni, picchiandolo ogni volta senza che potesse capirne il motivo… no, questa volta lo sapeva. Lo odiavano credendolo un soldato… ma David, lui non si era unito ai ribelli? Così aveva detto quella ragazzina…maledetta! Era colpa sua se si trovava legato e con un sacco in testa. Sapeva che uscire dalla Torre non sarebbe stata una buona idea.
Una porta cigolò, nell’aprire e richiudersi. Una delle voci uscì. Quel cigolio rimbombò nella testa dolorante come un tuono.
L’aria fetida all’interno del sacco lo soffocava. Chiese ai ribelli di toglierlo, cercando di parlare nella loro lingua, ma loro forse non lo capirono, o fecero finta di non sentirlo. La mano che incombeva sulla sua testa la ricacciò fra la paglia, facendo irrompere alcuni aghi all’interno delle fessure.
Il tuono della porta, qualcuno che entrava. Frasi dette in fretta, qualche risata martellante. L’uomo accanto lo aiutò a mettersi in piedi, ma nel farlo il sangue gli salì alla testa, e perse l’equilibrio, rischiando di cadere. E allora l’uomo lo prese in spalla, fra le risate generali.
«Dove mi state portando?» cercò di dire, ma le parole gli uscirono confuse, sbiascicate. E tra l’altro stava parlando in inglese. Cercò di ripetere nel dialetto di Mul, ma come si diceva... non ricordava più le parole. Gli danzavano davanti, dispettose, senza riuscire a focalizzarle. Stupido, stupido, dove si era cacciato… e il buio.
Quando rinvenne, si trovava ancora sulla spalla dell’uomo: non doveva essere passato molto tempo. Cercò nuovamente di chiedergli di metterlo giù; questa volta le parole erano più nitide, ma lui non sembrava capirle. Qualcosa era cambiato, non erano più nella stanza, ne nei corridoi vicini alla stanza, lo avvertiva, ma gli ci volle un attimo per capire da cosa l’aveva intuito: voci su voci si moltiplicavano da ogni parte, come il brusio di un alveare, incessante e minaccioso.
Urtò contro qualcosa: una soglia? Poi l’uomo lo mise per terra, cercando di farlo stare in piedi. A stento si reggeva sulle gambe, ma loro volevano che avanzasse, nel buio del sacco. Qualcuno lo spinse da dietro, e allora si costrinse a muovere i primi passi, tremando.
Mani lo spingevano, indicandogli la direzione da seguire: si trovo fra due muri di persone. Un rombo di urla, appena varcò la soglia. E una sola parola, gridata all’unisono, distinta. La prima parola che riusciva a decifrare, non perché la conoscesse, ma perché, sputata con tale rabbia, il significato diventava palese: traditore.
Avanzava a tentoni fra gente ostile, cercando di cacciare via nella mente l’immagine di una forca. Quasi perse l’equilibrio, inciampando su qualcuno, che lo spinse via.

Le lacrime gli pungevano gli occhi, bagnando il lurido panno del sacco. Lo condannavano, ma lui non aveva fatto nulla. Sarebbe morto, qui, fra volti sconosciuti, in una terra straniera… e non avrebbe potuto mantenere la promessa fatta a sua madre.
Inciampò, ma questa volta cadde su degli scalini. Avendo le mani legate, non poté frenarsi per non  sbattere in pieno volto con il legno di un palco. Delle mani robuste lo rimisero in piedi, aiutandolo a salire. Ma non c’era altruismo in quel gesto. Solo l’inesorabile desiderio di rendere l’esecuzione più veloce.

Qualcuno lo costrinse ad inginocchiarsi, mentre gli toglievano il cappuccio.
La luce lo accecò, ma piano i contorni si fecero più nitidi. Il palco era accerchiato da una moltitudine di gente, a confronto del quale la sua diversità sembrava risaltare. Davanti a lui c’era un trono, di legno anch’esso, rozzamente intagliato con delle figure acuminate.

Vi stava seduto mollemente, più giovane di quanto si sarebbe aspettato, e dall’alto della sua posizione poteva permettersi di sedere in modo strafottente, accerchiando con la gamba uno dei braccioli; le sue mani, ricoperte di anelli, giocherellano distrattamente con un medaglione che portava al collo. Lo guardò con i suoi occhi neri, dall’alto al basso quasi con disgusto. Le parole gli salirono alla bocca, non sapendo da dove, in un sussurro: l’erede di Babilonia.

 

 

*

 

 

Il Penitente

 «Signora Russell, potrebbe venire un attimo con me?»
Neidi mi guarda allibita: «Non vedi che è un brutto momento?»
Ma Aurora mi sorride, pallida e tremante. Ricambio, non molto convinto, cercando di rassicurarla con uno sguardo pieno di terrore. Il letto su cui è distesa è rosso di sangue.
«La prego, è importante».
Scambiando uno sguardo perplesso con Neidi, Eveline Russel si dirige verso la porta, con l’intento di seguirmi. Un gemito riesce ad intrufolarsi fuori comunque, mentre chiudo velocemente l’uscio.
«Cosa succede, signor Parker» mi chiede appellandosi ad un nome falso.
Continuando a camminare: «Non sta andando bene, non è vero?».
Scuote la testa, mentre saliamo gli scalini che portano al piano di sopra. «C’è troppo sangue…».
«Non c’è proprio nulla che possa fare?» le parole mi escono quasi con rabbia. Eveline mi scruta per un attimo, leggo l’incertezza dietro la maschera di comprensione.
« Capisco cosa può provare, ne sono davvero dispiaciuta. Ma lei non può far nulla…».
« Mi sta dicendo che dovrei guardarla morire così, con le mani in mano?» attraverso la porta della soffitta, che tengo aperta, perché entri anche lei. Resta lì, ferma sulla soglia, a pensare per qualche secondo, poi entra. Mi chiudo la porta alle spalle, e, senza che se ne renda conto, giro la chiave.
Tremo, rigirandola fra le mani, poi la nascondo di fretta nelle tasche. Lei si accorge di qualcosa, ma mi segue comunque per la stanza.
«Signor Parker, non sono del tutto sicura di quello che stiamo facendo».

Sì, qui dovremmo essere esattamente sopra la stanza. Eveline Russel continua a guardarmi in cerca di una risposta, ma io non le presto attenzione, immerso nei miei calcoli.

Compio qualche passo intorno a lei, guardando le assi del pavimento, immaginando cosa vi sia sotto, come se potessi vedervi attraverso, e cercando, muovendomi, di costringerla a posizionarsi dove ne ho bisogno: esattamente sopra il letto.
Salva una vita, dell’altra mostra disprezzo.
« Sa, credo che qualcosa da fare ci sia, in realtà…».
È un attimo, sfodero il coltello nascosto nella manica e le taglio la gola.
Non ha nemmeno il tempo di urlare, riesce solo a lanciarmi un ultimo sguardo sorpreso, poi con un tonfo cade per terra.
Senza curarmi del corpo che continua a contorcersi nel pavimento, mi rivolgo alla nera figura accanto a me, con la vista annebbiata dal suono di un altro urlo, dal piano di sotto.
« E adesso?» domando al demone Lilith, «Adesso cosa devo fare?».
“Le parole sono incise nella tua mente”.

Leggendo nella memoria, comincio a ripetere quella dannata cantilena, di quelle dannate parole che ossessivamente sono tornate alla mente, trasformando in incubo ogni sogno. Affiorando sulle labbra mi sembra che suonino, non tradotte, nella loro forma originaria, parole senza senso, sulle quali per tanto mi sono interrogato, e che adesso sembrano invece così ovvie.

Accecato dall’euforia, vedo che il sangue del sacrificio piegarsi al mio volere.

 

 

*

 

 

Aurora

 

Le caviglie le formicolavano ancora dell’erba umida del prato, ma l’avevano già sollevata da parecchio tempo. Una goccia le cadde sul mento, scivolando per un cammino inconsueto nella testa abbandonata all’indietro. Le si incastrò fra i capelli. Iniziava a piovere.

Quando il sacerdote aveva asperso di acqua benedetta la donna sconosciuta, fra gente sconosciuta, si era sentita bagnare le gambe. Aveva toccato timidamente la spalla di Nate, quasi preoccupata di disturbare il vedovo accanto a lui; gli aveva lanciato uno sguardo che sperava comunicasse tutto. Ricordava di essersi alzata allora, o che l’avessero alzata, questo era ancora vago, e, dopo aver fatto qualche passo le gambe avevano ceduto. Non ricordava invece il momento in cui era caduta; ma doveva essere successo, sentiva il vestito pesante di terra.

Tutto questo, il funerale, lo ricordava come fosse distante, ma in qualche modo si rendeva conto che doveva essere il momento in corso, oppure quello appena terminato. Si era chiusa dentro sé stessa, e solo qualche stimolo più invadente riusciva ad entrare, come il formicolio umido degli aghi d’erba, che lasciava intrufolare perché le piaceva fra le sensazione attutite.

Dopo la caduta, trascorso un tempo che le sembrava lontanissimo, si risvegliò come da un sogno, ma sapeva che doveva essere passato solo un momento, ricordava di aver udito urlare l’uomo che la reggeva, che scoprì essere Nathaniel (e chi altri avrebbe dovuto prenderla?), lo aveva udito urlare mentre la trasportava: «Perché non la portiamo all’ospedale?».

E qualcuno rispondere: «Stupido, non sappiamo cosa potrebbe succedere!». Era Neidi, li aveva seguiti anche al funerale? Per lui sarebbe stata una sorpresa, non sapeva che in quei giorni aveva vissuto sopra, nascosta in soffitta.

Incastrata fra i capelli aveva una foglia. Con uno sforzo estraneo sollevò un braccio leggero e la districò, ma non riusciva a lasciarla cadere, le piaceva stringerla, umida e morbida, vagamente rassodata dalla linfa che si andava essiccando. La adagiarono dentro un veicolo, era quello con cui erano venuti? Poi tutto si spense, e si ritrovò a fluttuare fra pensieri che non prendevano consistenza.

Un odore aspro le attraversò le narici attraversandola fulminando fino alla testa. Si ritrovò Neidi curva sopra di lei che le faceva aspirare i fumi di una bottiglietta. La mano le si era abbandonata su un lenzuolo morbido: aveva perso la foglia.

«Su, piccola mia, uno sforzo e sarà tutto finito- le disse, trattandola con quella cura eccessiva che si riserva ad una persona malata che non collabora per riprendersi- quando te lo dirò, dovrai iniziare a spingere».

Annuì, e in quello si rese conto di avere la faccia bagnata, righe di sudore che le colavano dalla fronte disincrostando lo sporco del terriccio. Perché stava piangendo?

Vide la porta aprirsi, ed entrare Eveline Russell carica di teli fumanti nel freddo invernale. Si concentrò nel fissare le rughette che le increspavano gli angoli della bocca, e solo all’ultimo vide, nello spiraglio della porta, i suoi occhi preoccupati. La porta si richiuse.

Le contrazioni al ventre le toglievano tutte le forze, un dolore che la torturava dall’interno: si ritrovò ad odiare il suo corpo. Perché era così difficile? Perché venire al mondo era così difficile? Cosa c’era di naturale in questo dolore che sembrava strapparle via parte di sé stessa, che lacerava in due quel legame che le era cresciuto dentro ed era suo, tutto suo, cosa c’era? Ad un altra fitta, sprofondò nuovamente nelle sue tenebre. Volontariamente.

Delle pezze sulla fronte le fecero rendere conto di stare bruciando. La foschia si diradò a poco a poco, non riportandola subito alle soglie con la realtà. Le piaceva galleggiare immersa nel liquido dei suoi pensieri, concentrarsi sul proprio respiro sentito dall’interno, sui movimenti che avvertiva accadere dentro un corpo che adesso percepiva in tutta la sua fisicità, come se lo guardasse dall’interno, ed era estraneo e suo allo stesso tempo. La rassicurava cullarsi in quel limbo, e lì sentire con una ferma certezza la presenza di quell’altro essere che era lei stessa e allo stesso tempo non lo era; e non voleva, proprio non voleva che quel legame che le univa si staccasse.

Pensò che una volta nata, avrebbe finalmente conosciuto la figlia che le era cresciuta dentro, ma scartò subito quel pensiero, perché già la conosceva, già era sua, non voleva osservarla da fuori, come qualcosa di estraneo. Aveva stretto le braccia intorno al ventre. Attraverso il pelo dell’acqua, osservava i movimenti delle due donne che si affaccendavano sopra di lei, le giungevano sfocati e brillanti, come la danza di un caleidoscopio. Sentì il proprio respiro fermamente, un’ultima volta, al ritmo di un rumore distante che sembrava tornare da lei a scandire i secondi che scivolavano, l’infrangersi delle onde sulla scogliera, dalla calma impetuosa che giorno dopo giorno a sé reclamava le rocce. Volle abbandonarsi al ritmo delle onde, ma Neidi si era chinata sopra di lei, la faceva respirare dalla bottiglietta.

«Reida devi rimanere sveglia! Adesso devi spingere, piccola mia, devi spingere». Si rese conto di stare stringendo la mano di Eveline Russell. Che qualcosa le si era lacerato dall’interno.

La porta si aprì.

«Signora Russell, potrebbe venire un attimo con me?» chiese con una strana luce negli occhi, spenti, freddi, lasciavano intravedere qualcosa che stava accadendo in profondità.

«Non vedi che non è un buon momento?».

Sollevandosi per guardarlo, vide il lenzuolo sporco di sangue. Fu un attimo, comprese, decise, nascose tutto e sorrise, cercando di rassicurarlo, ma sotto c’era qualcosa che cercava disperatamente di chiedergli di perdonarla.

Lui non se ne accorse, ricambiò con una smorfia che avrebbe dovuto essere di conforto; non era mai stato bravo a mentire.

«La prego, è importante».

Eveline scambiò uno sguardo perplesso con Neidi, si convinse, richiuse la porta. Rimaste da sole, si lasciò sprofondare nuovamente nel limbo. Nella testa un fischio permeava tutto come vapore su una finestra.

Lì restava sospesa una domanda, percepì finalmente con chiarezza la portata dei propri pensieri, quel flusso sotterraneo che fino ad adesso aveva cercato di nascondere, ed era riuscito ad infiltrarsi solo a volte nel flusso della coscienza, come una sensazione indistinta, un malessere che non si concentra ma diffonde in ogni particella di attimo come un lento soffocare: nessuna caduta nell’abisso, la semplice voglia di distendersi e chiudere gli occhi per dimenticarsi del mondo. Ma adesso l’abisso si apriva, turbava l’acqua che agitava la superficie, e la vedeva, finalmente, quella domanda che oscurò tutto il resto: “Che cosa abbiamo fatto?”.

L’orrore risalì dal fondale dilatandole le pupille, si ritrovò urlante nel letto rosso del suo sangue, con Neidi che le urlava anche lei piangendo di spingere, solo un ultimo sforzo, doveva spingere. Reida la guardò, nella casa finalmente in silenzio; scosse la testa.

“Che cosa ho fatto?” mormorò ricadendo nel baratro. L’avrebbe accolto col suo ultimo respiro, l’abisso sarebbe entrato dentro di lei e l’avrebbe resa all’infinita quiete della morte, trasportando con sé quell’essere che ancora non le era disgiunto, non ancora la bestia. Neidi incombeva sopra di lei muovendosi tumultuosamente come si muove il pelo dell’acqua, cercava qualcosa che la costringesse a rimanere; non capiva che non si può combattere contro la ferma decisione di morire.

Mentre il nulla cominciava ad avvolgerla, si chiese se per caso non fosse così la morte, quel lento fluttuare fra pensieri che ad uno ad uno si spengono, ma poi decise che probabilmente ognuno aveva il suo proprio modo di morire, e a lei era sempre piaciuto tanto il mare.

...Sulla scogliera i secondi che passano....

Riusciva a sentire ormai solo il mare che scandiva il tempo come un grande orologio, sulle pupille le calava una foschia, i contorni si sfocavano, e riusciva a vedere ormai bene solo al centro, i chiodi nelle assi di legno sul soffitto... il soffitto.

Neidi, lo vedi il soffitto? Una lingua di fuoco vi strisciava sibilando a tracciare dei simboli che in qualche modo riusciva ancora a comprendere, tagliava le assi fino a mordersi la coda, fino a tracciare il marchio. Una risata isterica risalì dalle viscere, non trovò spazio fino alla gola. “Che cosa hai fatto?”. Ti prego, non è possibile. “Che cosa hai fatto?”. Degli artigli le entrarono nel ventre, strapparono di dosso la piccola vita che teneva in grembo; afferrò quel filo sottile che ancora la legava alla vita. Ti prego, non tagliarlo. Urlò, riprendendo un attimo coscienza, urlò una maledizione che non comprendeva nemmeno. Il soffitto incendiato mandava una luce accecante; rimase impresa sulla retina, quando sopraggiunse l’oscurità.

   
 
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