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Autore: MoneLu1223    21/05/2014    0 recensioni
"Ha presente le ultime ricerche che sta svolgendo?"
"Come potrei non…"
"Bene. Per i prossimi due mesi andrà a lavorare sul territorio."
La cosa mi suonò strana. Io studiavo la terra che mille anni fa era chiamata America. Era sparito quel continente, immerso dalle acque, spazzato via dai cataclismi.
Genere: Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 5 - JULIET

 
 
 
Il silenzio piombò nella sala, carico di tensione.
Gli occhi di papà si ridussero a due fessure, mentre studiava l’individuo che si ritrovava davanti e il suo sguardo saettava da me a Jake e viceversa. Indugiò qualche secondo prima di proferir parola e puntò i suoi occhi nei miei.
“Juliet, potresti lasciarmi cinque minuti da solo con il signor Anderson? Vorrei poter scambiare qualche parola con lui.”
“No, papà.” la mia voce era diventata fredda, avevo intuito quali fossero le sue intenzioni.
“Juliet, tu non puoi ca…”
Dalla mia bocca ne uscì una risatina nervosa, poi lo guardai seria, inarcando le sopracciglia.
“Papà, dovresti smetterla di trattarmi come una bambina. Ho trent’anni ormai, sono abbastanza grande da comprendere come stanno le cose.” Sbottai.
Il volto di mio padre passò dal bianco al bordeaux nel giro di pochi secondi.
“Non osare rivolgerti così a tuo padre, signorina.”
Stava per mollarmi un ceffone, quando la mamma si intromise.
“Per l’amor del cielo, Alan! Non alzare le mani su nostra figlia!” urlò mia madre.
“Sta zitta, Amélie. So io cos’è giusto fare con mia figlia e cosa non lo è.”
Lo guardai con astio e rivolsi uno sguardo riconoscente a mia madre, poi qualcosa mi distrasse: un rumore di passi arrivava dal corridoio. La porta si aprì: sulla soglia c’erano i miei due fratelli gemelli minori: Matthew e Christopher. Rimasero sulla porta qualche secondo a contemplare la scena che gli si parava dinanzi, poi con un cenno salutarono mio padre, il quale aveva assunto un espressione più rilassata e fece un sorriso forzato. Qualcosa mi diceva che non avrebbe voluto che loro sapessero quello che stava succedendo. Io li salutai con un cenno della mano e presentai loro a Jake.
“Jake, loro sono Matthew e Christopher, i miei fratelli minori. Mi sostituiranno a lavoro quando noi  non ci saremo.”
A quelle parole papà fece una smorfia disgustata. Odiava il mio lavoro quasi quanto odiava la costruzione di Jake e questo era un motivo in più per tenerlo a debita distanza. Più lontano restavo da lui, meglio sarebbe stato.
“Piacere di fare la vostra conoscenza.” esordì Jake.
Seguì una stretta di mano silenziosa, poi mio padre parlò nuovamente.
“Matt, Chris, vi sarei grato se usciste da questa stanza per un po’, ci rivedremo più tardi.”
I gemelli annuirono, fecero un ultimo cenno di saluto rivolto a tutti e richiusero la porta alle loro spalle, lasciando che l’eco dei loro passi si perdesse in lontananza, poi mio padre si rivolse ancora una volta a me.
“Non voglio un uomo del genere a casa mia, Juliet. Non voglio rivederlo qui mai più.”
Quelle parole ebbero un tale impatto su di me che ogni sillaba che ne uscì dopo dalla mia bocca fu uno scoppio d’ ira.
“Questa è anche casa mia, papà. Faresti meglio a ricordarlo. Io posso invitare qui chi mi pare e piace, non me ne importa un accidente se poi questa persona non ha le tue stesse idee.”
Poi mi rivolsi a Jake, raccogliendo tutte le cartelline e gli appunti da sopra al tavolo.
“Andiamo nella biblioteca Jake, non vorrei che altri ci disturbassero.”
Con un ultima occhiata di disprezzo a mio padre mi voltai e mi incamminai per il lungo corridoio insieme a Jake. Passò qualche minuto prima che Jake aprisse bocca, a quanto pare era rimasto incantato a fissare le enormi pareti di vetro trasparente nelle quali si potevano notare i pesciolini che nuotavano veloci.
“Carino.” disse Jake accennando alle pareti e poi volgendo lo sguardo verso di me.
“Stravaganze da ricchi.” Ribattei io scrollando appena le spalle. “Papà voleva fare l’originale, così ha deciso di far diventare questo posto un acquario gigante.”
Di nuovo papà, pensai. Era mai possibile che in quella casa non si parlasse d’altro che di quell’uomo? Tutti lo consideravano un eroe, tranne me, la mamma e i miei fratelli s’intende. Da anni avevo cominciato a detestarlo, era diventato odioso. Interruppi i miei pensieri su di lui solo quando fummo arrivati all’ingresso della biblioteca. Presi dalla tasca del mio jeans una card e la feci passare attraverso la fessura nella porta. Una fredda voce femminile e metallica annunciò che il riconoscimento era andato a buon fine. Jake indugiò sulla soglia, così lo esortai ad entrare e ad accomodarsi.
“Le serve qualcosa signorina Rose?” una voce sommessa arrivò dall’angolo, ma era solo Silvia, un'altra delle nostre domestiche.
“Ti ringrazio, Silvia, ma non abbiamo bisogno di aiuto. Piuttosto vorrei che lei uscisse dalla stanza, sarebbe possibile?”
“Come vuole signorina Rose, se ha bisogno di me sa dove trovarmi.” Disse lei accennando un saluto sia a me che a Jake.
“Grazie.” fu l’ ultima parola che le dissi prima che uscisse in silenzio dalla stanza.
Mi sedetti a capotavola e poggiai le mie cartelline e i miei appunti sul legno di noce, così fece Jake, poi mi guardò cupo. Rimasi in silenzio per qualche minuto a dondolarmi sulla sedia girevole, poi lui ruppe il silenzio.
“C’è qualcosa che ti turba, Juliet? Sembri sovrappensiero.”
  Nella sua voce avvertivo una punta di preoccupazione.
“Solo, mi dispiace per la scenata a cui hai dovuto assistere stasera . La prossima volta sceglierò un posto migliore dove parlare di queste cose.” Osservai asciutta mentre scrutavo il suo viso per captarne i pensieri.
“Non preoccuparti.” fece lui scrollando le spalle e rivolgendomi un piccolo sorriso forzato.
“Sai, prima che diventasse il direttore di quella stupida società, non era così sgradevole. È diventato così solo da una decina di anni per colpa dei suoi colleghi. Ora il lavoro per lui è più importante di qualsiasi altra cosa.”  accennai  alla fotografia che era appesa in alto, sulla porta.
“È stata scattata il giorno del mio diploma, ancora prima di essere nominato. Allora era un padre come gli altri. Era certo amante della natura, ma mai come adesso. Ora ne sembra davvero ossessionato. Sì, credo che ossessionato sia la parola più giusta. Anche se una parte dei suoi progetti mi è sembrata buona, quello di buttare giù l’High Skyrider mi sembra una pazzia. Dove andranno a finire tutte quelle persone una volta buttata giù la costruzione? A questo lui non pensa. Ogni tanto cerco di farlo riflettere sull’impatto che questa cosa avrà sulla popolazione, ma lui mi ripete che non sono affari miei e che farei meglio a stare fuori dalla faccenda. Ovviamente tutti pensavano che noi (Io, Matthew e Christopher) avremmo seguito le orme di papà, nulla di più sbagliato: da quando ha cominciato a diventare così ossessivo nei confronti del suo lavoro i nostri rapporti si sono indeboliti, niente è più come prima. Lui però pensa che i miei fratelli non siano al corrente di nulla, mentre loro sanno tutto e si dissociano completamente dalle sue idee. Anche la mamma è in forte disaccordo con questa faccenda dell’High Skyrider. Una sua amica abita lì dentro e le racconta che stanno bene e che nel caso mio padre decidesse di abbattere la struttura, gli inquilini, gli si ritorcerebbero contro. Ma secondo me gli starebbe bene una bella strigliata. Magari riuscirà a comprendere meglio la situazione. Mia madre non glielo dice, comunque. Non osa mancargli di rispetto neanche per un secondo. Hai visto cosa avrebbe fatto a me se non lo avesse fermato, no?”
Jake aveva ascoltato in silenzio tutto quello che avevo detto, ma quando finii di parlare annuì lentamente, sorpreso.
“Così anche tu pensi che buttare giù la mia costruzione sia una follia?”
“Certamente!” esordii. “Tutte quelle povere persone in mezzo ad una strada, ma cosa avrà per la testa mio padre?”.
D’un tratto una figura piccola e marrone s’insinuò nella stanza, era il mio cane, Duncan. Si fermò vicino a Jake per qualche minuto, lo annusò, poi scodinzolò felice ai suoi piedi.
“Duncan, vieni qui bello.” Il piccolo pastore tedesco si avvicinò a me e si sdraiò ai miei piedi. Gli accarezzai la testa, distratta, poi mi voltai verso la finestra e notai le luci dell’ High Skyrider in lontananza.
“Comunque, non era per il viaggio che siamo qui?” osservò Jake.
“Giusto, scusa. È che mi sono lasciata un po’ trascinare dagli eventi di stasera. Non era così che mi ero immaginata questo incontro.”   dissi con un filo di voce, ero un po’ imbarazzata per l’accaduto.
Così passammo il resto della serata a fantasticare ancora una volta su quello che sarebbe potuto succedere durante il viaggio e delle cose che avremmo potuto affrontare. Era semplicemente fantastico poter parlare così. Era come se tutta la rabbia di qualche ora prima, tutte le preoccupazioni, fossero evaporate e queste avessero lasciato il posto alla speranza, alla voglia di scoprire, alla sete di sapere.
Non vedevo l’ora di partire e sei giorni per me non sembravano più così pochi, erano un eternità. Un eternità per cui sarebbe valsa la pena di aspettare. Tutto ciò che era nuovo per me era una fonte d’ispirazione, un modo per aprire ancora di più la mia mente alle nuove frontiere. Il nuovo mi spaventava e mi attirava al tempo stesso, ma niente mi avrebbe fermata, neanche quell’ottuso di mio padre. Non sarebbe stata certo una persona come lui a farmi cambiare idea. E poi c’era mia madre… e i miei fratelli. Loro mi avrebbero appoggiata sempre, in qualsiasi circostanza. Se c’è una cosa che ho imparato è che se si crede in qualcosa bisogna lottare perché si avveri, non possiamo lasciare che gli altri influenzino le nostre scelte. Non dobbiamo permettere a nessuno di cambiare le nostre idee, se ci crediamo fino in fondo. Così ,tra una chiacchiera e l’altra, tra un sogno e un ipotesi, arrivò la mezzanotte, quindi era arrivata ora di separarci.
“Mi ha fatto piacere parlare con te. Solo che mi dispiace ancora per quanto è successo prima, sai…”
Jake m’interruppe.
“Sta tranquilla, Juliet. È tutto apposto, non devi sentirti in colpa. Solo che non mi sarei mai aspettato che tuo padre fosse tanto…”
“Testardo, intendi? Sì, lo è.” Dissi ridendo.
“No…diverso. Non potrebbe essere più diverso da te di così. Ma anche testardo credo sia la definizione più azzeccata.”
Dato il comportamento di mio padre, presi la cosa come un complimento. Ero fiera di essere differente da lui, di avere quel qualcosa in più che lui forse non aveva. Sorrisi ancora.
“Domani sera è meglio se ci ritroviamo in un altro posto. Decidi tu quale, vorrei evitare altri disastri come quello di qualche ora fa.”
“Ti avviserò allora.” Abbozzò un sorriso e poi mi fece un cenno di saluto.
Lo accompagnai fino al cancello. Quando uscimmo fuori dalla villa sembrava molto più a suo agio. E chi poteva dargli torto? Neanche io ero a mio agio lì, sentivo che quello non era il posto in cui dovevo stare. Che la mia vera vita doveva essere altrove. Alzai la mano in segno di saluto mentre lui chiudeva la portiera del taxi jet , un rombo assordante e questo sparì nel cuore della notte.
  
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