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Autore: Daisy Pearl    25/05/2014    1 recensioni
Finì di parlare e ansimò brevemente, come se avesse fatto una corsa infinita, lo sentii andare avanti e indietro e in qualche modo riuscii a immaginarmelo. Aveva un lungo abito bianco che si adagiava sul pavimento in pietra. La veste ondeggiava con eleganza e sembrava brillare di luce propria. Le lunghe ali erano spalancate sulle sue spalle, candide come il vestito e, a completarne la figura c’erano i classici boccoli oro che gli ricadevano sulle spalle con gentilezza. Potevo quasi vedere gli occhi azzurri come il cielo fissarmi attendendo che fossi in grado di alzarmi, in quel modo mi avrebbe potuta portare dove dovevo stare.
Mi avrebbe portata all’inferno.
- Questa è la storia di Mar e di Dave. Una storia di magia, tradimenti, colpi di scena, pazza, lucidità, amore. Bene e male si intrecciano in continuazione fondendosi in alcuni punti per poi separarsi. Il confine tra bianco e nero non è mai stato così invisibile.
Genere: Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Gioco di...'
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Scusatemi tantissimo per l'immenso ritardo! Ancora la storia non è finita, ma preferisco lo stesso postarvi un altro capitolo, sperando che voi ricordiate un pochettino cos'era successo nello scorso XD
Grazie a chi ancora mi segue ;), siete fantastici!

Daisy

 

CAPITOLO 26

“E’ una stanza normale?” domandai diffidente guardandomi attorno.
“Normalissima!” rispose Cyfer, studiando anche lui la stanza con gli occhi.
“Nessuna porta blindata?” continuai sfiorando una piccola scrivania appoggiata contro il muro.
“Nessuna!”
“Nessuna telecamera?” ero sempre più scettica, guardai  Cyfer attendendo una risposta, ma lui continuava ad esaminare la stanza con la fronte aggrottata.
“Nessuna!” fu Samantha a rispondere, entrando nella stanza e parandosi di fronte a me con la mani sui fianchi come a volermi imporre di fidarmi “Fa parte dell’accordo che avete preso con Dush!” puntualizzò.
Si vedeva che non approvava la decisione presa dal suo superiore eppure non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce.
“Bene!” le voltai le spalle e mi diressi verso il letto. Solo allora mi resi conto di essere davvero parecchio stanca. Quella giornata era stata spossante e forse il mio corpo ancora risentiva degli effetti dei sedativi.
Mi sedetti su di esso e lanciai uno sguardo alle persone che occupavano la stanza e notai che non sembravano avere alcuna intenzione di andarsene: Samantha mi stava scrutando con attenzione, come se stesse valutando quanto azzardata fosse la scelta di lasciarmi dormire in una stanza senza un sistema d’allarme evoluto o quantomeno che la soddisfacesse, Cyfer invece continuava a sfiorare le superfici dei pochi mobili presenti fra quelle quattro mura, probabilmente stava cercando una ricetrasmettente o il cavo di una telecamera.
Sapere che nemmeno lui si fidava ciecamente di quello che era il suo capo non era affatto rassicurante.
“Vorrei dormire, possibilmente da sola!” dissi ad alta voce e con tono fermo. Già dovevo stare in loro compagnia tutto il giorno, non potevo sopportare un minuto di più.
Cyfer mi guardò come se la mia voce l’avesse improvvisamente distolto dai suoi pensieri.
“Uh, si certo!” disse semplicemente. Attesi che arrivassero alla porta. Samantha mi lanciò uno sguardo di ammonimento al quale risposi sorridendo in modo beffardo. Lei non parve soddisfatta, tuttavia mi voltò le spalle e oltrepassò la porta.
“Cyfer!” lo chiamai, quando lui stava per seguirla.
I suoi occhi incontrarono i miei e ci fissammo per un lungo istante. Non ero sicura che lui fosse in grado di capire come mi sentissi o che situazione stavo vivendo, eppure sentivo di poterlo considerare come mio unico alleato in quel covo di agenti segreti da strapazzo.
“Assicurati che non mi sedino durante la notte!” non era un ordine, solo il mio modo per fargli capire che ero preoccupata per la mia incolumità e che non mi fidavo.
“A costo di stare fuori dalla tua stanza per tutta la notte!” rispose con voce ferma. Un grosso peso si sollevò dal mio cuore mentre lui mi lanciava un cenno d’intesa prima di chiudersi la porta alle sue spalle.
Espirai. Non mi ero resa conto di star trattenendo il fiato. Sentii i muscoli del mio corpo contratti e costatai che non mi ero neppure accorta di quello. La mia mente era rimasta per gran parte della giornata disconnessa dal resto del corpo. Il mio cervello ragionava, vagliava le possibilità, malediceva me stessa per ciò che avevo fatto, mi distruggeva e mi dava uno scopo al tempo stesso. Tutte queste tensioni si erano ripercosse sul mio fisico e in quel momento riuscii a sentirlo.
Sapevo di non potermi però permettere il lusso di riposare, dovevo approfittare di quelle ore da sola per riflettere e creare un piano. Era più che ovvio che quell’associazione volesse da me informazioni e grazie alla diligente Samantha le aveva più o meno ottenuti. Avevano tutti i dati per potersela cavare da soli, almeno per quanto riguardava il rintracciare Dave, eppure ero certa che non sarebbero riusciti a fermarlo, come non erano riusciti a fermare me, ed io ero una briciola in confronto a Dave.
Non potevo mettermi da parte, non potevo lasciare tutto nelle mani di quegli incapaci, dovevo agire per conto mio.
Sapevo di trovarmi ancora nell’area in cui non potevo utilizzare il mio potere, non me lo avevano detto chiaramente, ma era implicito, loro non si fidavano di me come io non mi fidavo di loro. Nonostante questo sapevo che l’amplificatore poteva funzionare, almeno dentro ai confini del campo di protezione. Se fossi riuscita a ricrearlo il passo successivo sarebbe stato quello di uscire dal campo schermato, in quel modo sarei potuta entrare in contatto con Dave.
Andai verso la scrivania e cercai nei cassetti, trovai un plico di fogli e diverse penne, proprio ciò di cui avevo bisogno.
Il fatto che nessuno fosse riuscito a creare un amplificatore era davvero curioso, a meno che non ci avesse provato nessuno con poteri magici. Era su questo che si basava la mia teoria: secondo me persone comuni non potevano creare un oggetto in grado di amplificare il segnale creato dal potere, però poteva riuscirci qualcuno come me, dopotutto io non ero una persona comune.
Mi sedetti alla scrivania e avvicinai una delle penne al foglio. Ero piuttosto sicura che non fosse necessario seguire un metodo preciso per tracciare le linee che avevo visto impresse sulla pedana, dopotutto su quello si basava la magia creativa. Mangiucchiai il tappo della penna mentre pensavo da che punto potevo iniziare.
Iniziai a disegnare, prima con tratti incerti, poi sempre più sicura di me. Iniziai dal triangolo, proseguii con i segmenti e infine con il cerchio, da sinistra a destra, posai un dito al centro del disegno e aspettai di sentire il potere crescere in me, ma non accadde nulla. Forse il disegno doveva contenermi del tutto, dovevo farlo più grande. O forse avevo sbagliato metodo.
Presi il plico di fogli e lo adagiai sul piccolo pavimento. Ne presi uno, poi un altro ancora, fino ad averne nove, disposti in file da tre, l’una sotto l’altra.
Mi alzai il piedi e osservai le dimensioni di nove fogli A4 disposti per terra. Notai che non si discostavano molto dalle dimensioni della piastra sulla quale era inciso l’amplificatore. Tolsi le scarpe e mi inginocchiai sulla carta. Presi la penna e iniziai a tracciare gli stessi segni fatti precedentemente, con lo stesso ordine. Al termine mi alzai in piedi, ponendomi esattamente al centro del triangolo centrale e chiusi gli occhi, ma non avvenne nulla.
Strinsi i pugni, ma non mi diedi per vinta e immaginai che l’amplificatore iniziasse a funzionare. Immaginai  di sentire il potere crescere dentro di me, quasi riuscivo a percepirlo mentre ad ondate mi riempia e mi svuotava. Rimasi un attimo in estasi  mentre mi beavo di quella sensazione di completezza. Aprii gli occhi e mi accorsi che non era accaduto assolutamente nulla. Mi ero concentrata sul potere, lo avevo percepito eppure l’amplificatore non aveva funzionato.
Digrignai i denti e afferrai con rabbia  uno dei fogli laterali accartocciandolo e lanciandolo con tutta la forza che avevo contro la parete.
Sentivo la rabbia che pian piano cresceva dentro di me, era la rabbia dovuta all’impotenza, alla consapevolezza di non riuscire a raggiungere l’obiettivo prefissato.
Mi sedetti a terra, sopra i fogli ormai stropicciati e immersi le mani dei capelli, chiudendomi su me stessa come a voler creare un guscio contro il mondo esterno. Dovevo riflettere, dovevo calmarmi, altrimenti non avrei ottenuto nulla. Dovevo pensare ad un modo, dovevo entrare in contatto con Dave, la mia morte lo aveva distrutto, se avesse saputo che ero viva forse avrebbe avuto la forza di combattere il mostro che stava crescendo dentro di lui.
Iniziai a temere che la magia creativa non potesse funzionare per creare l’amplificatore, ero più che certa che ogni linea significasse qualcosa, era grazie a quei segni che il segnale del potere si ampliava. Avevo imparato che con la magia creativa si potevano fare tante cose, ma c’erano fondamentalmente due limiti: il primo erano le quantità, potevo immaginare di distruggere l’intera terra, ma non sarei stata in grado di farlo se non avessi avuto la quantità sufficiente di potere.  Il secondo limite era l’immaginazione stessa, non potevo creare qualcosa a caso, senza conoscerne o immaginarne nei minimi dettagli il funzionamento. Se volevo creare un amplificatore dovevo comprenderne il significato e, allo stesso tempo se ci fossi riuscita non avrei potuto crearlo perché mi trovavo in un campo di contenimento.
Strinsi i pugni attorno alle ciocche di capelli che mi ero precedentemente afferrata e scossi la testa. Non c’era via d’uscita, continuavo a girare in tondo attorno alla soluzione senza essere in grado di raggiungerla.
Era così snervante.
Presi un altro foglio e lo appallottolai con mala grazia prima di scagliarlo contro la parete. Quello cadde a terra facendo un piccolo rumore. Non potevo starmene lì, con le mani in mano senza fare nulla mentre la vita di Dave e quella di altre persone era appesa al sottile filo del tempo.
Era tutta colpa mia. Cercavo di non ripetermelo spesso eppure era innegabile. Era colpa mia e Jasmine si era premurata di rinfacciarmelo prima di farmi morire,  era stata la mia stupidità, la mia sete di potere a far accadere tutto ciò.
Ero stata ingannata, certo, ma il male non era Jasmine, ero io. Era dentro di me la scintilla che avrebbe permesso a Jasmine di portare a termine il suo piano.
Dovevo trovare una soluzione. Disegnai nuovamente il simbolo inciso sull’amplificatore e ne studiai i tratti, cosa poteva significare?
Non so quanto tempo rimasi lì, a fissare quel disegno, a me parvero secondi, ma probabilmente furono ore. Riflettevo, percorrevo ogni tratto con la mia mente immaginando cosa potesse esserci nella testa di chi l’aveva creato. Cercavo di tenere lontano il pensiero che, anche se avessi capito il suo funzionamento, non lo avrei potuto riprodurre finchè fossi stata chiusa lì dentro. La comprensione sarebbe stata il primo passo, l’evasione il secondo.
Il mondo intorno a me divenne sempre più sfocato finchè non scivolai nel sonno.
 
Mar perché non mi hai ucciso?
Le mie mani non sono sporche di sangue eppure ho preso delle vite. Ne ho prese tante, Mar.
La tua per prima. La tua meravigliosa e lucente vita ora abita in me.
Dovrei esserne felice perché una parte di te è indissolubilmente legata alla mia essenza, eppure io non posso accontentarmi di quella parte. Non mi importa se non saresti mai stata mia, ma dovevi essere viva e forte per dirmelo.
Mi sembra di dimenticarti lo sai? E’ una cosa che mi spaventa. Il ricordo di te si fa sempre più labile. Com’erano i tuoi occhi Mar?  Credo di essermici perso almeno un milione di volte eppure non li ricordo.
Ucciderò nuovamente Mar, e presto. Forse questa volta dimenticherò i tuoi lunghi capelli setosi dopo averlo fatto.
Non voglio dimenticarti. Ricordarti vuol dire rammentare cosa sono ora: un mostro, un essere abominevole. Finchè riesco a tenere presente questo forse posso avere momenti di lucidità simili a questo, ma se dimentico Lui prenderà il sopravvento.
Perdonami se puoi.
 
“DAVE!” urlai. Non capivo dove mi trovavo, sapevo solo di avere il viso bagnato e di sentirmi stordita.
“Sono viva, sono qui!” aggiunsi con foga e iniziando a guardarmi attorno, come per cercarlo. Eppure lui non era lì. Ero nella mia stanza,  mi ero addormentata sui fogli che stavo studiando, il viso era bagnato dal sudore e da quelle piccole gocce salate che avevo cercato di rinnegare per tutta la mia vita.
Sentii un forte trambusto provenire da oltre la porta, un istante dopo si spalancò e apparvero due uomini in uniforme blu, ognuno con un mitra in mano puntato contro di me. Le loro espressioni erano serie e mi fecero rabbrividire. Scrutarono la stanza mentre io tornavo bruscamente al presente.
“Fatemi passare!” una voce imperativa arrivò dalle loro spalle, gli uomini non obiettarono e si spostarono leggermente senza però abbassare la guardia.
Cyfer entrò nella stanza e posò lo sguardo prima su di me e poi sulla camera. Seguì i suoi occhi e mi resi conto solo allora in che stato fosse ridotto quel posto: c’erano fogli sparsi sul pavimento, altri appallottolati, penne un po’ dappertutto, doveva sembrare la camera di un pazzo. A concludere l’opera c’ero io, probabilmente avevo il viso sconvolto, le lacrime che avevano lasciato dei solchi di acqua lungo le guance e gli occhi arrossati.
Cercai di riprendere il controllo della situazione, non dovevo apparire debole di fronte a quegli uomini, loro dovevano temermi.
“Cos’è successo? Ti abbiamo sentita urlare!” domandò Cyfer scrutando la stanza, come se si aspettasse di veder comparire un aggressore da un momento all’altro.
Mi alzai in piedi e constatai con piacere che le gambe mi reggevano alla perfezione. A testa alta guardai Cyfer come per fronteggiarlo.
“Chi sono questi uomini?” domandai con voce ferma.
“Agenti!” rispose prontamente Cyfer muovendo qualche passo verso di me.
Mi guardò in viso per un lungo istante, con un’espressione che catalogai come di preoccupazione.
“Cosa ci fanno nella mia stanza armati?”  sottolineai col tono della voce l’ultima parola.
“Erano di guardia fuori dalla porta!” si giustificò lui “ E ti hanno sentita urlare!”
“Mi sembrava strano che non ci fosse alcuna porta blindata!” esclamai cercando di mantenere un tono glaciale “Ovviamente non c’era perché al suo posto di sono due agenti armati fino ai denti!”
“Quattro!” precisò Cyfer con tono un po’ colpevole.
Lanciai un’occhiata alle sue spalle cercando gli altri due, ma non li vidi.
“Sono di guardia fuori dalla porta!” mi informò Cyfer “Siamo in cinque, se conti anche me!”
“Che ci facevi qua fuori?” fui piuttosto brusca nel chiederglielo, avevo davvero i nervi a fior di pelle.
“Mi stavo assicurando che nessuno ti sedasse!”
“Ma che premuroso!” sbottai, anche se ero piuttosto sollevata nel sentirglielo dire.
“Cosa cercavi di fare?” domandò lui indicando i fogli sparsi lungo tutta la camera.
“Disegnavo!” dissi con tono innocente.
“Lasciateci! E’ tutto sotto controllo!” ordinò Cyfer.
“Ma signore…” cercò di obiettare uno degli agenti.
“La signorina Jones ha urlato per via di un incubo, non è vero?” domandò Cyfer ad alta voce.
“Ovviamente!” stetti al suo gioco “Se fossi stata attaccata da qualcuno me la sarei cavata da sola, non un urlo sarebbe uscito  dalle mie labbra!” sorrisi con fare provocatorio, ritrovando da qualche parte dentro di me, la Mar che ero sempre stata.
Gli agenti mi scrutarono, ognuno a proprio modo, senza nascondere che non si fidavano minimamente di me, dopo di che uscirono dalla porta.
“Dovresti dormire!” disse Cyfer guardandomi in faccia con aria seria.
“Ogni ora che userò per dormire sarà un’ ora tolta alla vita di quelle persone che ancora posso salvare!” ero determinata a farmi lasciare in pace da lui, dovevo continuare a ragionare.
Cyfer sospirò.
“Non avrei mai pensato che parole simili sarebbero uscite dalle tue labbra. Hai fama di essere una persona parecchio egoista!”
“Te ne vai?” non ribattei.
“Io e te siamo una squadra, che ti piaccia o meno, quindi,no, non me ne andò. Non ti lascerò chiusa in questa stanza a cercare di contattare Dave!” prese in mano uno dei fogli sparsi sulla scrivania e me lo sventolò sotto al naso. Aveva compreso cosa stavo cercando di fare, una volta tanto c’era arrivato.
“Io non…” cercai di negare ma lui mi interruppe.
“Non è produttivo rimurginare sulla magia, dobbiamo usare metodi più sicuri. Se riusciamo a trovare Dave possiamo fermare tutto, allora non avrai più bisogno di metterti in contatto con lui perché lui sarà dinnanzi a te!”
Mi immaginai la scena: Dave immobilizzato da parecchi agenti mentre le sue pupille diventavano rosse come il sangue, mentre si dibatteva per raggiungermi e rubarmi ancora una volta l’essenza. Rabbrividii e scacciai l’immagine dalla mia mente.
“Un intero staff si sta occupando del suo rintracciamento!”
“Stai dicendo che tu e la tua associazione vi volete liberare di me, ora che non vi sono più utile?” mi misi sulla difensiva pronta ad agire nel caso quello che avevo chiesto fosse stato confermato.
“Nonostante tutto noi non sappiamo, ora come ora, come aiutare Dave, possiamo rintracciarlo, forse saremmo in grado di riprendercelo, ma poi? Dobbiamo guarirlo e non sono così certo che questa sia la priorità!”
“Che intendi dire?”
“Hai visto cos’ è successo con te, invece di rimetterti in forze hanno deciso di studiarti, farebbero sicuramente la stessa cosa con Dave, per questo dobbiamo trovare un modo di aiutarlo. Se sappiamo già come fare possiamo intervenire subito e impedire che venga studiato come cavia da laboratorio!”
Annuii decisa. Quello che diceva era giusto e inoltre con quel discorso mi aveva ridato un obiettivo materiale che non fosse lo studio di un simbolo magico. La sensazione impotenza diminuì sempre di più fino a scomparire del tutto.
“Come possiamo trovare una soluzione?” domandai rammentando che nemmeno Myria era riuscita in quell’intento.
Cyfer fece il sorriso di chi la sapeva lunga.
“Seguimi!” disse semplicemente.
Uscì dalla porta e io mi affrettai a seguirlo.
“Signore, dove sta andando?” domandò uno degli agenti a Cyfer guardando prima lui e poi me.
“Faccio vedere l’edificio alla signorina, dato che non riesce a dormire, ho il permesso di Dush!” sentenziò con un tono che non ammetteva repliche. L’agente si zittì all’istante e io mi ritrovai ad ammirare la figura di Cyfer-capo. L’avevo sempre visto come il ficcanaso che mi metteva i bastoni tra le ruote eppure era piuttosto bravo come superiore di qualcuno, il suo tono autoritario e l’evidente importanza che aveva all’interno di quella società mi faceva ricredere sulla sua persona. Forse non era un totale idiota, non più di tutti gli altri, per lo meno.
“Dush non ne sa nulla vero?”
 Domandai una volta che fummo abbastanza lontani da non farci sentire.
Cyfer sorrise “Ovviamente no, altrimenti avremmo già alle calcagna l’impeccabile agente Longboom!” assunse un tono pomposo nel dirlo, come a volerla scimmiottare.
“Già, il segugio!” sorrisi a mia volta rilassandomi un po’ mentre percorrevamo corridoi a me sconosciuti.
“Abbiamo dalle tre alle cinque ore prima che ci trovino!” mi informò Cyfer.
“Così tante?” mi accigliai.
“Lo faccio bene il mio lavoro!”
Alzai un sopracciglio in un’evidente espressione di incredulità.
“Dico davvero! Vedi questo?” mi mostrò un dispositivo rettangolare che teneva in mano “Questo blocca le immagini delle telecamere, il questo momento siamo dei fantasmi!” sorrise con fare rassicurante “E il posto dove di sto portando è talmente grande che, anche se sapessero dove cercarci, ci metterebbero ore a trovarci!”
Battei le mani un paio di volte attenta a non fare troppo rumore.
“Complimenti!” mi finsi colpita. Lui ridacchiò.
“Ti saresti davvero dovuta mettere a dormire, ma piuttosto che lasciarti lì in quella stanza a disegnare forme incomprensibili ho preferito decidere di fare qualcosa di più produttivo!”
Si arrestò di fronte ad una normalissima porta, mi lanciò una lunga occhiata, come a verificare che fossi pronta e la aprì sparendo oltre ad essa.
Rapidamente lo seguii, ma nessuna parola poteva prepararmi a quello che avrei visto una volta entrata.
Mi guardai attorno con la bocca leggermente spalancata, avrei voluto esprimere il mio stupore eppure dalla mia bocca non uscii nemmeno un suono.
Mi trovavo in un’enorme biblioteca. Gli scaffali di pietra erano disposti a raggiera ed erano alti quasi dieci metri.  Alzai la testa accarezzando con lo sguardo ogni singolo volume, inghiottendo tutta quella meraviglia nel più completo dei silenzi. Mossi un paio di passi all’interno e li sentii riecheggiare mentre il suono urtava contro le pareti e la pietra lì intorno creando un meraviglioso eco.
Poi mi persi ad osservare il soffitto, una magnifica volta di pietra colma di incisioni e disegni. Sembrava di essere entrati in una cattedrale, l’architettura di quel posto non aveva nulla a che fare con quella dell’edificio dov’ero stata fino in quel momento. Aveva le dimensioni di una reggia e sembrava scavata nella pietra stessa.
“Benvenuta nella nostra umile biblioteca!” sussurrò con ironia Cyfer.
“Umile…” commentai con un filo di voce, incapace di staccare gli occhi dagli scaffali che mi circondavano.
“Pensa che questa non è neppure l’entrata principale, quella è molto più sfarzosa. Siamo dovuti passare da qui perché quella è più sorvegliata e noi non dobbiamo farci notare!”
Non osavo immaginare come potesse essere un’entrata più sfarzosa di quella.
Seguii in silenzio Cyfer tra quegli alti scaffali. Camminavo in punta dei piedi cercando di non fare rumore, il riecheggiare dei nostri passi a mio avviso violava la sacralità di quel posto. Ben presto mi fu chiaro che la biblioteca doveva avere una pianta circolare, era una cosa che avevo intuito appena entrata nella stanza, a causa della disposizione a raggiera degli scaffali, ma man mano ci addentravamo la cosa si faceva sempre più evidente. Ogni scaffale era lungo una trentina di metri, dopo di che, al termine di due scaffali uno di fianco all’altro ne veniva posto un terzo, all’esatta metà della distanza tra di essi e via dicendo. Questa struttura si ripeteva per tutta la biblioteca rendendo difficile orientarsi al suo interno. Capivo perché  Cyfer aveva detto che anche se avessero saputo che ci trovavamo lì ci avrebbero messo un po’ a trovarci.
“Tu hai idea di dove stiamo andando?” domandai con un filo di voce mentre il mio senso dell’orientamento era praticamente stato azzerato.
“Ovviamente!” rispose lui senza voltarsi verso di me.
“E dove stiamo andando?”
“Al centro esatto della biblioteca, lì ci sono i computer, da li faremo una ricerca e vedremo di capire cosa ci serve.
Non so per quanto tempo camminammo, forse per cinque minuti buoni, ma quando raggiungemmo il centro della biblioteca rimasi ancora più esterrefatta.
Gli scaffali ad un certo punto finivano e si apriva una zona circolare con decine di lunghi tavoli di legno disposti in modo ordinato uno di fianco all’altro. Ai lati c’erano diverse postazioni dotate di computer. Sembrava una radura in un bosco fatto di scaffali e di libri. Al centro esatto della stanza c’era una statua bianca. Essa iniziava con un piedistallo rettangolare, sul quale poggiava un figura indubbiamente femminile. senza guardare Cyfer mi diressi verso la figura al centro della stanza, come se essa fosse una calamita e io un pezzo di ferro dolce. I miei passi riecheggiavano nella stanza eppure io proseguii senza più preoccuparmi del rumore. Esistevamo solo io e la mia curiosità di vedere la statua più da vicino.
Ad ogni metro che facevo verso il centro, il mio cuore batteva sempre più velocemente, come se si aspettasse che qualcosa stesse per avvenire e si stesse preparando a ciò.
La figura incisa nella roccia aveva un portamento fiero, quasi regale eppure sapevo che non era una regina. Portava un lungo mantello che sembrava vero grazie alla precisione con la quale erano state intagliate le pieghe della stoffa, pareva ondeggiare a causa del vento. Lunghi capelli ricci ricadevano con grazia sulle spalle della donna. Capelli bianchi come il resto della roccia eppure non poteva essere stato quello il loro colore originale. Arrivai così vicino da poter sfiorare la statua eppure non lo feci. Ero alle sue spalle e ancora non ne avevo visto il volto, anche se in cuor mio già lo immaginavo. Mi mossi attorno al piedistallo ma non alzai subito lo sguardo. I miei occhi si posarono sulle mani della donna chiuse a pugno e adagiate lungo i fianchi. Quando fui di fronte ala statua lentamente alzai la testa. Più dettagli incontravo più la consapevolezza di aver già visto quella donna si faceva forte.
Finalmente i miei occhi incontrarono il suo viso. Trattenni il respiro mentre osservavo lo sguardo fiero e alto, gli zigomi che sembravano morbidi seppur fatti di pietra. Era così reale che avrei potuto tranquillamente salutarla aspettandomi una risposta da parte sua. Solo il colore bianco la rendeva priva di vita, facendomi capire che lei non era come me.
La sua bianca immagine si sovrappose ad una colorata e vivida impressa a fuoco nella mia memoria. E improvvisamente seppi che quel lungo mantello doveva essere nero, i capelli sciolti sulle spalle erano rosso fuoco e gli occhi verdi come i boschi, verdi come quelli di Dave.
“Myria” sussurrai i fior di labbra.
   
 
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