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Autore: Astrid Romanova    25/05/2014    1 recensioni
«Il segreto per non subire la mancanza di controllo è desiderare di non averlo. Se non hai aspettative non hai delusioni, se scegli di non scegliere non puoi mai sbagliarti» [...]
«Lancia una moneta» [...] «Aspetta che ti dica cosa il caso ha scelto per te» [...] «non tirarti indietro».
Io mi tiravo sempre indietro. [...] Mi sembrava tutto vano. E anche se avevo sempre saputo che ogni cosa non viene creata per esistere per sempre, che prima o poi, in un modo o nell'altro, tutto finisce in niente, non mi ero mai resa conto di quanto la parola “effimero” potesse fare paura. Non era solo qualcosa che spariva. Era qualcosa che spariva e ti lasciava con un pugno di mosche. Ma persino le mosche volavano via quando aprivi la mano. [...]
«Credo che dovresti provarci» disse lui all'improvviso, ridestandomi dai miei pensieri.
[...] In fondo aveva ragione. Alla peggio avrei scoperto di non essere pronta, di non essere in grado di vivere in quel modo. Il termine provarci era già di per sé sintomatico di qualcosa da cui non ti aspetti necessariamente una vittoria. Provare non è obiettivo.
«Se non hai obiettivi, qualsiasi meta è un traguardo»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 5
Blind Date

Grazie a Dio non prevediamo il futuro, altrimenti non ci alzeremmo mai dal letto.
-B. Weston, I Segreti di Osage County

 Non è che non lo sapessi che era solo questione di tempo, ma avevo smesso di pensarci perciò me n'ero dimenticata. C'erano altre questioni a calamitare la mia attenzione, questioni che avevano preso un volo per il Canada solo tre giorni prima.
   Era una domenica pomeriggio che minacciava pioggia, ma il mio umore era raramente stato migliore. Peccato che il mio piccolo idillio personale non fosse destinato a durare.
   «Ah, l'ho fissato per domani sera» esclamò Chase, al termine di una conversazione sull'imminente lavoro che io e Darcey ci eravamo accollate, quello all'imperial Mall.
   Benché sapessi che non avesse il minimo senso, la mia prima osservazione mentale fu che Chase avesse fissato la data e l'ora per lo svolgimento del nostro incarico al posto di Céline Foster, ma ovviamente non poteva essere quello.
   «Di che parli?».
   Non fui a porre la domanda, ma Darcey. C'eravamo noi tre, Jaena, Scott, Nathaniel, Rhonda e Wyatt intorno al tavolo da giardino sul retro della casa dei Kidman, e nessuno aveva capito di che diavolo stesse parlando Chase.
   «Dell'appuntamento al buio di Cam» spiegò lui allegramente, come se fosse stata una cosa programmata in simpatia invece che una bella e buona pugnalata alle spalle.
   «COSA?» sbottai immediatamente.
   Sì, sapevo che era solo questione di tempo perché avevo saputo fin dall'inizio che Chase facesse sul serio. Ma trovarsi di fronte al fatto compiuto mi faceva comunque girare le palle.
   «Hai un'appuntamento al buio?» mi domandò Wyatt, incuriosito.
   La curiosità in effetti era su tutti i volti che mi circondavano, eccetto Scott che doveva essere stato presente quella mattina, in camera di Chase, dopo che ci eravamo incrociati sulla soglia, mentre il traditore organizzava la cosa. Magari gli aveva anche dato una mano.
   «No che non ce l'ho» affermai convinta, lanciando un'occhiataccia al gemello cattivo.
   «Sì che ce l'hai» mi contraddisse lui, in quel modo petulante dei bambini.
   «No, invece» mi ostinai.
   «Ti dico di sì» insistette lui serenamente, come se non fosse possibile negare in alcun modo la verità.
   «Te lo scordi».
   Non potevo cedere. Non avrei ceduto. Non se ne parlava neanche.
   «Alle nove al Barrel».
   Col cavolo.
   «Neanche morta».
  Tutti assistevano allo scambio di battute tra me e Chase con una aria vagamente annoiata, a quel punto. Era ordinaria amministrazione che io e lui ci rimbeccassimo in quel modo, lui sempre pacifico e io sempre più in fiamme. Non c'era modo di interromperci finché non avessimo smesso volontariamente, quindi ormai non ci provava più nessuno. Aspettavano solo che passasse, come la pioggerella molesta tipica di quello strano maggio.
   «Non comportarti da repressa, Cameron, alle nove al Barrel» si impuntò Chase.
   Repressa. Il codice penale andava rivisto: oltre che come legittima difesa, l'omicio doveva essere considerato giustificabile anche se commesso da un soggetto che usi l'aggettivo "represso".
   «E tu non fare lo stronzo, Chase. Non mi interessa, non vado a nessun appuntamento al buio, nada, niet, scordatelo».
   Mi guardò con un sopracciglio alzato che non presagiva nulla di buono.
   «Scommettiamo?».
   Promemoria per il pianeta terra: mai scommettere contro Chase Kidman.

 
•●•

   Siccome era più sexy che una donna si presentasse con cinque o dieci minuti di ritardo, Chase mi trattenne in macchina per un quarto d'ora.
   «Così capisci subito se è un cazzone senza niente di meglio da fare nella vita, o se è davvero interessato all'appuntamento» si giustificò.
   Quando aveva detto la parola “scommettiamo?” mi ero immaginata lui che barava a morra cinese, come faceva sempre quando andavamo al liceo, abbassando la mano per ultimo o gridando “jolly!”. Non esisteva il jolly, in quel gioco, ma questo non era mai sembrato importargli. Così, anche se non avrei mai fatto quella scommessa con lui, mi ritrovai a pensare ad un gioco in cui non potesse barare. Un testa a testa dove non avrebbe avuto il potere di manipolare il risultato.
    Il lancio di una moneta.
   Jaena, seduta di fianco a me, aveva dovuto farmi chioccare due dita davanti alla faccia, perché mi ero persa nei miei pensieri. Quella, quella poteva essere una decisione da imputare al caso. Come il corso di fotografia, era qualcosa che non mi andava direttamente di fare, ma che non mi ero mai data la possibilità di provare. Si trattava solo di una serata, non di sposarmi con uno sconosciuto. Una serata. Qualcosa di diverso. Qualcosa che mi dimostrasse di saper ancora socializzare con persone nuove e che, contemporaneamente, avrebbe zittito Chase.
   Tanto per non destare sospetti avevo ripreso ad esprimere il mio rifiuto con toni sempre più accesi, ma quando mi ero trovata un minuto da sola avevo preso la moneta e l'avevo lanciata.
   Perciò ero lì, quel lunedì sera, sul sedile anteriore dell'auto di Chase. Alle nostre spalle c'erano Darcey e Scott, mentre su una macchina parcheggiata dietro di noi stazionavano Wyatt – l'altro guidatore – Jaena, Rhonda e Micah, il musicista della compagnia che da meno di un anno aveva rotto con la ex-ragazza. A lui serviva quel genere di incontri, non a me. Alla loro presenza mi ero opposta ancor più strenuamente, ma non potevo impedire a nessuno di passare la serata lì al Barrel. Avrebbero fatto finta di non conoscermi mentre mi spiavano. Della serie "oltre al danno la beffa".
   «Ora direi che puoi andare, Cenerentola» mi fece Chase.
   Lo guardai storto ma non risposi, limitandomi a scendere dalla macchina per potermi finalmente liberare della sua invadente presenza.
   Secondo quanto detto da Chase, avrei trovato il tizio dell'appuntamento seduto al tavolo sei. Supponevo che si fossero messi d'accordo. Il che mi fece automaticamente pensare che Chase si fosse finto me quando lo aveva contattato tramite uno di quei siti idioti che permettevano alle persone di incontrarsi in quel modo assurdo. Già i siti di incontri per single, dove almeno c'erano le foto e i dati degli iscritti, mi avevano sempre fatto una pessima impressione, figurarsi quelli dove vieni collegato ad uno sconosciuto a caso senza volto. La trovavo una cosa triste e anche un po' patetica, ma adesso c'ero dentro anch'io e questo mi faceva sentire triste e patetica. Se non altro avevo ancora la mia dignità, visto che l'idea non era stata mia e che non avevo mai davvero avuto l'intenzione di fare una cosa del genere.
   Quando entrai feci scivolare lo suguardo sui tavoli del locale, che ospitavano i più disparatigeneri di persone: coppiette che si tenevano le mani appoggiate alla superficie di finto legno rossastro, compagnie di liceali in cerca disvago, gruppetti di ragazzi di circa la mia età che ridevano affiancati al bancone o raccolti sui divanetti posizionati sul fondo della sala. In un angolo c'era un novero di sole donne, probabilmente fuori per una serata tutta al femminile. Posizionati strategicamente vicino all'uscita c'erano un paio di uomini tra i quaranta e i cinquanta che avevano proprio l'aria dei fumatori incalliti, tanto che uno dei due aveva già una sigaretta tra le dita. In quell'agglomerato umano c'era una sola anima solitaria, seduta ad un tavolo a circa metà sala e intenta a fissare il cubo di metallo che conteneva i tovaglioli. Le luci rossastre e violacee del locale, tenute accortamente soffuse, mi impedivano di identificare le fattezze dell'uomo che stavo per incontrare. Nemmeno i faretti gialli posti a intervalli regolari contro il muro riuscivano a rischiarare la figura, e comunque lui dava le spalle alla parete su cui erano posizionati, quella alla mia sinistra. Le lampadine gialle appese sopra il bancone, invece, erano troppo distanti per poter essere di qualche aiuto. Non potevo fare nessuna constatazione pre-incontro e la cosa non mi piaceva affatto. Potevo solo farmi avanti.
   Avevo già visto quei capelli neri. Corti, con la riga laterale, qualche ciuffo che ricadeva sulla fronte nonostante fossero tirati indietro. Avevo già visto anche la linea di quella mascella, la curva del collo, la forma del naso.
   Dio, avevo già visto quel viso. Eccome se l'avevo già visto.
   «Ian?».
   Lui si voltò verso di me, ferma a circa un metro di distanza. La sua bocca si aprì incredula come la mia, nei suoi occhi leggevo lo stesso shock che avvertivo nella pancia, sulla pelle, in ogni muscolo del mio corpo.
   «Cameron?»
  Le mie sinapsi si erano scollegate, non riuscivo a pensare a niente di concreto. Le ovvie domande che attraversavano a razzo la mia testa non prendevano forma, non si solidificavano in parole compiute. Per un attimo smisi di respirare, finchè non mi ritrovai quasi ad annaspare in cerca di... di qualcosa. Qualsiasi cosa. Una spiegazione.
   «Che diavolo...» biascicai, incapace di esprimere chiaramente il mio sconcerto.
   «Tu che diavolo!» mi anticipò, capendo la mia domanda prima che potessi porla e cercando di rivolgermela a sua volta.
   «Da quando vai a degli appuntamenti al buio?» continuò diversi secondi, non ricevendo alcuna risposta da parte mia.
   «Da quando ti chiami Jordan Rhys?» lo rimbeccai.
   «Ma Cristo, non sono io Jordan!» esclamò con ovvietà, come se fosse impossibile che io potessi aver veramente creduto una cosa simile.
   Avrebbe potuto aver ragione. Avrei potuto aver sbagliato tavolo. Ma se lui sapeva dell'appuntamento al buio significava che vi fosse coinvolto, quindi non avevo sbagliato. E lui doveva tirare fuori qualcosa di meglio di un “Cristo!”.
   «E allora che diavolo ci fai qui?» chiesi ancora una volta, parlando più rapidamente e in tono più alto per evitare di essere interrotta di nuovo.      
   «Perché...».
   Perchè?
   «Oh, Cristo, siediti» mi ordinò brusco.
   Non accennai a muovermi, guardandolo di traverso. Solo allora notai che si era fatto un piercing al sopracciglio sinistro, ma era una questione del tutto irrilevante. Avrebbe dovuto ricordarsi che non davo retta a chi pretendeva di comandare invece di chiedere.
   Ma lui aveva sempre voluto comandare.
   Sospirò.
   «Siediti, per favore».
   Così andava meglio.
   Presi posto di fronte a lui, dall'altra parte del tavolo.
   «Jordan arriverà tra un minuto, è in bagno» mi informò. «Io l'ho solo accompagnato».
   Bastava poco per rendere tutto più chiaro e, passata la sorpresa – soppiantata dall'istantaneo nervosismo che io e Ian riuscivamo a metterci addosso solo guardandoci – era più facile concentrarsi sulla situazione. Jordane sisteva e non era Ian. Ian era solo un suo amico che, mi auguravo, a tempo debito se ne sarebbe andato.
   «Ho capito» risposi, mantenendo comunque una certa cautela.
   Una sola parola sbagliata e io e lui potevamo metterci a litigare così, su due piedi. Eravamo già partiti con quello sbagliato.
   «Intanto dimmi la verità: sei interessata a quest'appuntamento o, chessò, sei qui per una scommessa o cose del genere?».
   Se solo anche lui fosse stato altrettanto prudente. D'altro canto era quello che scatenava le liti, anche al liceo. Io ero quella che non riusciva ad evitare di rispondergli.
   «La verità è che non sono cazzi tuoi».
   Curioso come riuscisse a tirare fuori la parte più aggressiva di me anche dopo tutti quegli anni.
   «Chiedevo solo» si difese seccato, appoggiandosi allo schienale della sedia come per prendere le distanze. «Volevo essere sicuro che non fossi qui per prenderlo in giro».
   Ma per chi mi aveva presa?
   Mi venne in mente che, magari, quella non era la prima volta che Jordan partecipava a questo genere di incontri, e forse le sue esperienze passate non erano state delle migliori. Oppure il poverino era solo un tipo insicuro. Ma Ian mi conosceva, per la miseria.
   «Bel modo di far iniziare un'appuntamento, dubitare dei principi di un'altra persona».
   Mi tirai indietro a mia volta e incrociai le braccia al petto.
   Rimanemmo in silenzio per diversi secondi, senza guardarci se non di sfuggita. Due bambini arrabbiati.
   «Ci sta impiegando un bel po' il tuo amico» commentai.
   «Se è per quello, tu sei arrivata in ritardo di un quarto d'ora» ribattè lui.
   Non aveva tutti i torti.
   «Almeno c'è davvero qualcuno, in bagno?» insinuai, abbandonando immediatamente l'argomento “tempo”.
   «Per chi mi hai preso?» mi punzecchiò imitando la domanda retorica che io stessa gli avevo fatto.
   Poco ci mancava che mi facesse il verso.
   Comunque, sinceramente? Avevo smesso di fidarmi di Ian Ward otto anni prima, non avrei ricominciato in quel momento.
   «Incredibilmente, ho bisogno di andare in bagno» affermai allusiva.
  Mi alzai con dignità e, mentre lo facevo, scorsi con la coda dell'occhio la porta di ingresso venire aperta. Ad entrare furono Darcey e il resto della cricca, che mi individuarono subito. Darcey lanciò un'occhiata al ragazzo seduto altavolo e poi tornò a guardare me, sorridendomi e mostrandomi i pollici alzati. Lei non l'aveva riconosciuto; comprensibile, dopotutto quel tempo.
   Scossi la testa e tornai a concentrarmi sulla mia meta, le avrei spiegato tutto in un momento migliore.
  Quando arrivai in bagno me ne fregai della sconvenienza e a voce alta chiamai Jordan Rhys: se era davvero lì mi avrebbe risposto.
   «Sì?» giunse una voce dalla porta sulla destra, quella del cubicolo degli uomini.
   Il Barrel era un bel posto, ma i suoi bagni lasciavano abbastanza a desiderare.
   Rimasi così stupita di aver ricevuto una risposta che non seppi più cosa aggiungere. Dopo una manciata di scondi la porta si aprì e ne emerse un ragazzo magrolino e allampanato, completamente sbarbato ma con delle folte sopracciglia, gli occhietti azzurri vispi e i capelli biondo cenere del tutto spettinati. Sulle guance e sul naso aveva una spruzzatina di efelidi, accompagnate da qualche solco lasciato probabilmente dall'acne ormai scomparsa.
  Be', non aveva per niente l'aria del tipo insicuro. Al contrario, nonostante il suo fisico suggerisse che potesse essere di costituzione un po' deboluccia, l'espressione del suo viso e il suo sguardo davano tutt'altra impressione. Dovevo ammettere che un po' mi inquietava.
   «Cameron Grayson» mi presentai con ritardo, tendendogli una mano.
   La sua stretta era sicura e un po' troppo decisa, il suo sorriso beffardo.
  «Piacere di conoscerti, Cameron Grayson. Vuoi saltare i convenevoli e andare direttamente al sodo?» scherzò, riferendosi probabilmente al fatto che ci trovassimo soli in bagno. Eppure non è che il suo tono fosse poi così tanto scherzoso.
   «Ah-ah». Ma che divertente.
   Decisi di cambiare argomento.
   «Hai un gran bell'amico, lo sai?» accennai ironica.
   Jordan sembrava divertito dalla – evidente – scarsa considerazione che avevo del suo accompagnatore.
   «Perché, che ti ha detto?» mi domandò curioso, ma sembrava che già conoscesse la risposta o che potesse immaginarsela.
   «È invadente e pensa che io sia una specie di vedova nera» ammisi senza problemi.
   Preferii sorvolare momentaneamente sul fatto che già ci conoscessimo.
   Come avevo sospettato, non era affatto sorpreso.
   «Cioè, ti ha insultata?».
   «Non direttamente, ma so leggere tra le righe».
   Jordan ridacchiò e mi superò per tornare in sala, senza nemmeno invitarmi a seguirlo. Le sue gambe erano decisamente più lunghe delle mie, ma non mi misi a saltellargli dietro per tenere il passo. Arrivai al tavolo che lui si era già seduto, perciò non rimaneva più posto per me. Mi aspettai che Ian avesse la buona creanza di alzarsi per lasciarmi lo spazio, a quel punto, e permettere a me e al suo amico di iniziare finalmente quel dannato appuntamento, ma non si mosse.
   «Sei proprio un coglione, lo sai?» gli stava dicendo Jordan quando arrivai a destinazione.
   «Lei è più stronza di te, quindi non sono servito a molto» rispose Ian, ben cosciente che la stronza fosse proprio di fianco a lui.
   Jordan, alla mia sinistra, alzò gli occhi su di me e si tirò un po' indietro con la sedia, battendole mani sulle sue cosce.
  «Vieni qui, Cameron» mi invitò gioviale. «Ma poi che razza di nome è Cameron? È da uomo!» proseguì, chiaramente molto divertito dalla sua scoperta.
   In realtà Cameron era un nome unisex, ma starglielo a spiegare mi sembrava una perdita di tempo. Qualcosa mi diceva che comunque non gli sarebbe interessato.
   «Stare in piedi fa bene alla schiena» dissi per declinare l'offerta, il tono un po' troppo scocciato.
  «Come preferisci. Allora, io e te abbiamo un appuntamento, giusto? Credo che dovrei offrirti da bere, ma non ho soldi. Ci penserà il mio amico invadente, non preoccuparti».
   L'ultima delle mie preoccupazioni, a quel punto, era che mi venisse offerto da bere. In che diavolo di situazione mi ero cacciata? Quei due erano uno peggio dell'altro. Mi sentivo presa per il culo su due fronti.
   «Sei carina, sai?» continuò, ma per qualche motivo non riuscii a prenderlo come un complimento. Probabilmente perché l'aveva detto come un maniaco che faceva apprezzamenti sul culo di una passante.
   Si appoggiò allo schienale e si mise comodo sulla sedia, prendendo a giocare con l'aggeggio di metallo che numerava il tavolo. Aveva un sorriso un po' sadico un po' sornione sul viso. Un sorriso largo, ma per niente amichevole.
   «È carina, vero Ian?».
   «Sì» rispose semplicemente lui, piatto.
   Dal tono con cui pronunciò quelle due lettere e dallo sguardo che riservava a Jordan non sembrava davvero d'accordo con lui, sembrava... accondiscendente. O circospetto. 
   «Sì, sei carina» proseguì ancora Jordan. «E sei sveglia, o almeno così sembri. Insomma, sei venuta fin dentro il bagno per cercarmi, no?».
   Si mise a ridere da solo, sbattendo una mano sul tavolo. Istintivamente feci un passo indietro.
   «Che c'è, ti ho spaventata? Non dovevo sbattere così la mano, vero? A volte sono un po' troppo vivace» si giustificò. «È che davvero, mai vista una così, una ragazza carina che mi viene a cercare in bagno!» riprese a ridere, così tanto da piegarsi in due.
   Guardai Ian di traverso come se guardare lui potesse essermi in qualche modo d'aiuto. Ma lui guardava ancora Jordan con sguardo attento, come se lo tenesse d'occhio.
   Quando finalmente Jordan smise di ridere e raddrizzò di nuovo la schiena, tirò su col naso e si passò un dito sotto le narici.
   «Sicura che non ti vuoi sedere?» mi domandò di nuovo.
   Il suo comportamento iniziava seriamente a seccarmi. Tutta quella circostanza iniziava as eccarmi.
   «Per sedermi voglio sedermi, ma non sulle tue gambe».
   Con la coda dell'occhio, visto che fissavo Jordan, vidi Ian alzare repentino lo sguardo su di me. Ma ci feci a mala pena caso visto che il volto di Jordan era improvvisamente diventato ostile.
   «Perché, cos'hanno che non va le mie gambe?» mi chiese minaccioso.
   Il suo fulmineo cambio di atteggiamento mi spiazzò e, inutile negarlo, mi spaventò.
  Bene, avevo peggiorato le cose. Appena mi fossi liberata di quei due fuori di testa avrei ucciso Chase, altroché se lo avrei fatto. Ebbi l'istinto di andarmene proprio in quell'istante, ma ero così disorientata che non sapevo nemmeno come fare. Potevo andarmene e basta, ma avevo paura che Jordan mi fermasse in qualche modo. Non riuscivo a capire cosa gli passasse nella testa, mi era solo chiaro che non fosse il tipo a cui piaceva vedersi voltare le spalle. Non volevo farlo incazzare ancora di più.
   Lanciai un'altra occhiata a Ian, che tra i due era il meno suonato e, nonostante il nostro complicato rapporto, almeno era una faccia amica. Mi stava guardando; non appena intercettai il suo sguardo scosse lentamente la testa. In quel frangente suonava tanto come un avvertimento. Lo raccolsi.
   «Niente, è a me che non piace sedermi in braccio a qualcuno. Ho paura di pesare troppo» mi inventai, sforzandomi di utilizzare un tono leggero. In ogni caso dubitavo che Jordan sarebbe stato ingrado di accorgersi se mentivo.
   Sul suo volto ricomparve il sorriso, ma io ero ancora agitata. Se volevo calmarmi dovevo riuscire a racapezzarmi almeno un po', il che era più facile a dirsi che a farsi.
   «Non dire stronzate, scommetto che sei leggera come una piuma».
   «Secondo me ha il culo grosso» intervenne subito Ian.
   Questo suscitò un nuovo scoppio di risa da parte di Jordan, che diede a me il tempo di dare uno sguardo a Ian e a quest'ultimo di farmi l'occhiolino.
   E, all'improvviso, capii. Capii il suo comportamento al primo approccio, capii le sue parole e cosa davvero stava cercando di dirmi. Il suo “Volevo essere sicuro che non fossi qui per prenderlo in giro”. La sua cautela nel trattare con Jordan. Il suo dargli ragione, eppure con circospezione. Persino il suo darmi della stronza e non lasciarmi il posto. Era tutto coerente con una sola spiegazione, una che avrei dovuto capire non appena avevo incontrato Jordan. Jordan che era stato in bagno per un tempo spropositato, si strofinava il naso, cambiava umore facilmente, rideva per niente.
   No, non ero stata in grado di leggere tra le righe, avevo sbagliato tutto. Il fatto che conoscessi Ian e mi aveva deviata, facenomi credere che l'unica ragione della sua ostilità fosse un qualche tipo di risentimento che provava nei miei confronti. Ma lui non aveva paura che volessi prendere in giro Jordan perché lo avrei ferito, magari. Aveva paura perché lo avrei fatto incazzare. Perché se Jordan Rhys non si era appena sniffato qualcosa io ero la nuova direttrice del New York Times.
   Non era la prima volta che mi trovavo di fronte ad un drogato. Potevo contare sulla sicurezza offerta dall'essere in un locale pubblico, con la maggior parte dei miei amici seduti poco più in là, spalleggiata da un amico – più o meno – evidentemente abituato a trattare con lui.
   Ma volevo andarmene. Immediatamente. Più di quanto avessi desiderato farlo fino a una manciata di secondi prima. 
  Tuttavia ero ancora del parere che quella poteva essere la mossa sbagliata. Dovevo solo mantenere la calma e aspettare il momento giusto; se non altro, ora che avevo capito la situazione, sempre che ci avessi visto giusto, sarebbe stato più facile capire come comportarmi.
   «Sì, sei proprio un coglione» riprese Jordan quando riuscì a bloccare le risate. «Sai cosa mi ha detto lei?» continuò, indicandomi col pollice. «Ha detto che sei un “gran bell'amico” e che sei invadente. Sai che ha ragione? Sei proprio un bell'amico. E sei invadente. Un coglione invadente».
   Ian reagì semplicemente con un sorriso misurato.
   «Mi sembra di capire che non le sto simpatico» commentò divertito, ma non sapevo più se lo era davvero o se fingeva soltanto.
  «Meglio per me. Io ti sto simpatico, vero Cameron?» sottolineò il mio nome usando il tono di un vecchio camionista che avesse del catarro in gola, sgommando sulla “C”.
   Sperai che non lo ripetesse mai più.
   «Più di lui di sicuro» dissi, cercando di buttarla sul ridere nella speranza che lui scoppiasse di nuovo.
  Mentre si sbellicava era meno preoccupante, e non poteva fare domande a cui avrei dovuto dare risposte calcolate facendo attenzione a non contrariarlo.
   Riuscii nel mio intento e vidi Ian tirare un sospiro di sollievo. Chissà se si era ritrovato molte altre volte in circostanze simili. Sospettavo di sì. Ma se fosse stato più chiaro fin all'inizio ci saremmo risparmiati un sacco di problemi.
   «Senti, brutto ingrato, porto la tua amichetta a prendere da bere visto che devo sborsare io» annunciò alzandosi.
   «Mi raccomando, qualcosa senza zuccheri, deve tenersi in linea!» ci accordò Jordan.
   Mentre mi avviavo per seguire Ian al bancone, Jordan mi guardò il sedere e risalì fino al mio viso, facendomi l'occhiolino. Strinsi i pugni per non rabbrividire dal disgusto.
   Arrivati al bancone Ian si assicurò di posizionarsi in un punto da cui Jordan non potessevederci.
   «Dovresti andartene» mi disse, appoggiando un braccio sulla superficie del piano e guardandomi dritta negli occhi, come se così avesse potuto inculcarmi il messaggio nella testa.
   Ma non serviva, ne ero ben consapevole da sola.
   «Puoi dirlo forte che me ne vado».
   Lui alzò un sopracciglio continuando a scrutarmi.
   «Bene. Allora fallo adesso che sei lontana. Se torni lì cercherà di trattenerti, e se tu insisterai si arrabbierà».
   E anche questo lo avevo capito per conto mio.
   «Era la mia intenzione».
   «Avresi dovuto darmi retta subito» mi accusò.
   «Avresti dovuto essere più chiaro» ribattei immediatamente.
  «Cos'avrei dovuto dire? Guarda che Jordan è in bagno per tirare di coca, forse è meglio se non rimani. Tanti saluti» sbottò alterandosi, eppure riuscì a tenere un tono basso che divenne quasi impercettibile quando pronunciò le tre parole critiche.
   «Una cosa del genere, sì» confermai implacabile.
   Potevo anche essergli grata, in fondo, per aver tentato di mettermi in guardia e avermi parato il culo durante tutta la conversazione, ma di certo avrebbe potuto fare di meglio. A cominciare dall'impedirmi di trovarmi faccia a faccia con un drogato.
   «E tu potevi evitare di andarlo a cercare in bagno» mi sgridò stringendo i denti.
   «E secondo te l'oroscopo mi aveva avvisata che il tuo amico si è appena fatto una dose?».
   Ma anche se me lo fossi immaginato sul serio, che differenza avrebbe fatto? Jordan sarebbe tornato al tavolo e allora ci saremmo ritrovato nella stessa situazione di prima, solo che io sarei stata seduta e mi sarei sentita ancora più a disagio.
   «No, hai ragione, non potevi saperlo» disse, ma non suonava affatto come un'ammissione. «Sai cosa potevi fare? Potevi arrivare in orario, lui non sarebbe andato in bagno e a quest'ora staremmo tutti meglio!».
   Il suo sussurro era un urlo strozzato, ormai. Anche il mio.
   «Oh certo» sputai, «avremmo chiacchierato amabilmente finché non sarebbe comunque andato in bagno, e allora dimmi che differensa avrebbe fatto!».
   «Cristo, quanto sei ostinata!».
   «Puoi invocare anche il resto della trinità, rimarrai un maledettissimo coglione!».
  Per qualche secondo ci guardammo in cagnesco, poi sospirammo nello stesso momento abbassandogli occhi. Mi sembrava di essere tornata al passato, a quando avevamo diciotto anni e passavamo metà del nostro tempo a litigare, a scannarci a vicenda, a sputarci addosso puro veleno finendo per sbattere tutte le porte. Finendo per tornare indietro, subito dopo, e prendere l'uno le mani dell'altra. Finendo per dire “è l'ultima volta, okay?”. Finendo per darci un bacio. Finendo in camera da letto.
   Per poi ricominciare a gridare.
   «Comunque sei stata brava. L'altra volta è andata molto peggio» riprese in tono molto più tranquillo, quasi stanco.
   «L'altra volta?» chiesi senza pensare.
   Avevo supposto che il nostro potesse non essere un caso isolato, ma avere la conferma era più triste di quanto avessi immaginato.
   Ian sospirò.
   «Questo è il quarto tentativo».
   «E tu lo segui tutte le volte?».
   «La prima volta no, ma dopo aver sventato la denuncia per un pelo ho pensato fosse meglio controllarlo a vista».
   Non volevo nemmeno immaginare cosa fosse successo. Sicuramente niente di troppo grave se ne parlava con quella calma, ma nemmeno qualcosa di piacevole. L'avevo scampata più bella di quanto avessi creduto.
   «E questo non hai pensato di dirmelo subito, vero?».
   Ero così ironica che persino la sottigliezza della mia ironia era ironica di per sé.
   Non la prese tanto bene.
   «Avrei voluto. La prima cosa che ho pensato quando ti ho vista è stato: “perché proprio lei?”. Ma poi mi hai fatto girare le palle e mi sono innervosito. Non dire che non te la sei cercata».
   Me l'ero... dannato Ian Ward.
   «Cercata? Sei tu che hai iniziato a fare il comandante Ward, come al solito».
   Comandante Ward. Lo chiamavo sempre così quando iniziavamo a litigare.
   Lui aprì la bocca per ribattere, glielo si leggeva in faccia che avrebbe voluto rispondermi a tono. Eppure non lo fece. Rimase lì, sul punto di contestare ancora una volta. Io polemizzavo, lui polemizzava e non ne uscivamo mai finché uno dei due non si tappava la bocca per evitare di andare troppo oltre. Ero quasi sempre stata io a dare un taglio alle nostre discussioni.
   Quella volta, invece, sebbene ancora lontani dai livelli di rabbia che raggiungevamo un tempo, fu lui a fermarsi.
   «È meglio che io torni indietro» affermò infine, rassegnato.
   Fece i primi passi, ma lo trattenni afferrandogli un braccio. Non volevo che il nostro primo incontro dopo tutti quegli anni si concludesse così, e per quanto torto lui potesse aver avuto anche io avevo la mia parte di colpa. La nostra testardaggine, all'epoca, ci aveva allontanati definitivamente. Ora eravamo cresciuti, eravamo più responsabili di noi stessi ed era ora di smetterla di voltarci le spalle, lasciandoci l'amaro in bocca.
   «Un attimo. Come te la caverai adesso? Non si arrabbierà quando non mi vedrà tornare con te?»
  Sperai capisse che la mia preoccupazione era per lui, non per me. Ma qualcosa nel mio sguardo, nella mia espressione o nel tono della mia voce glielo lasciarono intendere.
   «Non preoccuparti, so come gestirlo» mi rassicurò con un sorriso.
   Ne abbozzai uno anch'io.
   «Bene. Allora... grazie, Ian».
   Non ero certa di sapere "grazie" per cosa. Forse perché, al di à di tutto, mi aveva dato una via di fuga. 
   «Di niente, Cameron».
   E, detto da lui, il mio nome aveva un suono del tutto diverso.
Partendo dal presupposto che a me, questo capitolo, non piace (eppure appena l'avevo scritto ne ero entusiasta, bah) non mi aspetto che piaccia a voi, ma è importante ai fini della trama per due buone ragioni che non vi spiego. Tuttavia, è proprio questo capitolo che celebra finalmente l'entrata nella prima zona davvero attiva della storia. Mi spiego meglio: da qui in avanti la narrazione diventerà più rapida e le situazioni più interessanti. Stiamo entrando nel vivo. Non voglio però che vi facciate l'idea sbagliata: i pensieri ossessionanti di Cameron continueranno ad occupare una buona parte dei capitoli, ma saranno più mirati. I capitoli stessi manterranno più o meno la stessa lunghezza e quindi, visto il mio stile di narrazione, comprenderanno una quantità limitata di "punti salienti". Se non l'avevate ancora capito sono il tipo di autrice che procede con calma, che cerca di creare uno sfondo ampio agli avvenimenti della propria storia e lascia spazio ad un certo grado di introspezione, cercando di far emergere il più chiaramente possibile la psicologia della protagonista. Ma nel momento in cui deciderò di dare un colpo alla storia ve ne accorgerete eccome. 
Forse dopo sei capitoli pensavate che fossimo vicini all'inizio della partita? No, abbiamo appena iniziato a scaldarci.

Come sempre grazie a chi è passato di qui, a chi mi segue e, soprattutto, alle poche anime pie che mi mettono a parte dei loro pensieri. Non sarebbe male per il mio ego pigrone ricevere una bella scossa o una bastonata in testa - opinioni positive o critiche sono entrambe ben accette, se espresse con discernimento - ma la loro assenza non influenzerò il procedere della storia, questo ve lo garantisco.

State sempre in piedi,
Astrid
   
 
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