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Autore: hollien    27/05/2014    5 recensioni
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Hanamichi Sakuragi lavora come cameriere in un bar nel centro della prefettura di Kanagawa insieme al suo inseparabile migliore amico, Yohei Mito.
Il Monkey’s room, questo è il nome del bar, è gestito dai genitori di Yohei, i quali hanno voluto offrire un posto ad Hanamichi in modo da poterlo aiutare a sostenere le spese per poter continuare a frequentare l’accademia di belle arti. Nonostante la sua vita sia stata caratterizzata da un periodo oscuro di cui tutt’ora non va fiero, Hanamichi cerca di lasciarsi alle spalle le sue brutte esperienze passate rifugiandosi nell’arte, nel lavoro e nel presunto amore che ha per la sorella minore di un suo collega ed amico: Haruko Akagi. Quello che non sa è che tanto altro l’aspetta, primo tra tutti un individuo, o meglio, la narcolessia fatta persona, dal carattere gelido ed intrattabile che gli procurerà non pochi problemi.  
[Slam Dunk - HanaRuHana, Altri pairing]
Il rating potrebbe alzarsi nel corso della storia!
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Akira Sendoh, Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa, Yohei Mito
Note: AU, Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Scleri pre-capitolo: Allora mie piccole pecorelle smarrite, purtroppo per voi ci ritroviamo ad un nuovo ed estenuante capitolo……….
No dai, spero che niente di tutto questo sia vero e che abbiate trovato una lettura scorrevole nel capitolo precedente e che abbia attirato la vostra attenzione fino a qui. Vorrei ringraziare di cuore, prima di tutto, chi ha recensito! Siete la mia fonte di giUoia, sappiatelo. Poi ringrazio anche chi l’ha inserita tra le seguite, le preferite e le ricordate.
Non penso ci sia molto altro da dire, anche perché non voglio fare una pappardella di introduzione come l’ultima volta, credo che non ce ne sia bisogno.
L’unica cosa che vorrei dire è che questa storia non vedrà come protagonisti solo Hanamichi e Rukawa, ma anche qualcun altro che ora non vi dirò. Ci sarà, dunque, una coppia secondaria. O anche due, tutto è nelle mie mani muhahahahaha (sì ho una passione per le risate maniacali se non si fosse capito BD).
Apposto, direi che posso lasciarvi andare e augurarvi un buon proseguimento (mi sento molto una di quelle della pubblicità), non dimenticatevi di farmi avere un vostro piccolo parere!
Disclaimer: I personaggi di Slam Dunk non mi appartengono, ma se mi appartenessero Yohei avrebbe avuto molto più spazio e dignità nel manga. Davvero, io me lo sposerei seduta stante. E poi è un tappo, e io sono tappa, perciò saremmo perfetti insieme. (?)





 
 
Monkey’s room

Chapter 2: Di scimmie sbraitanti e volpi che istigano alla violenza 
 
 
 
 
Era già passata una settimana da quando i due modelli da strapazzo avevano fatto il loro magico ingresso nel Monkey’s eppure, nonostante le belle parole del porcospino, ancora non c’era traccia di un loro possibile ritorno.
Tutti ne erano immensamente grati, ovviamente. Nessuno desiderava riavere lo stesso accalcamento di gente dell’ultima volta; pensare anche solo di dover gestire nuovamente una mandria di ragazzine adolescenti con gli ormoni che scalpitavano come cavalli in corsa non era certo l’obiettivo di vita di chiunque – a parte per Noma, lui si sarebbe lasciato volentieri calpestare anche da tutte per quanto lo riguardava.   
Quella giornata, rispetto a quelle scorse, era relativamente tranquilla: ad un quarto a mezzogiorno della mattina si potevano contare i clienti sulle punta delle dita. L’atmosfera era rilassante e pacifica per tutti, persino per Hanamichi che, stranamente, trovava prendere le ordinazioni meno stressante del solito – o forse era lui che si faceva mille pippe mentali ogni volta per niente.    
«Quand’è che ricominci le lezioni?», domandò Mito al rosso, approfittando del fatto che avesse scambiato il posto con Noma e Takamiya e fosse venuto in cucina ad aiutarlo ad asciugare piatti, bicchieri e posate, meticolosamente lavati da Kogure.
«Tra sei giorni», comunicò sorridente, «e sinceramente non vedo l’ora. Ho bisogno di riprendere in mano la matita e disegnare quanto mi è possibile, finché non mi dolerà il polso.»
Yohei accompagnò il suo sorriso con una breve risata. «Ti piace proprio eh?»
Hanamichi annuì, riponendo i piatti nel primo ripiano del mobile accanto a sé. «Mi piace e sono anche bravo, ma quello era scontato visto che sono un Tensai.»
“Non si smentisce mai”, si disse il suo migliore amico, non osando ribattere a quell’affermazione di supremazia.
«E’ anche il tuo sfogo personale.»
Sakuragi si bloccò per un momento, perso in chissà quali pensieri, poi riprese: «E’ un bene che lo sia. Se non fosse per l’arte, probabilmente, il mio vero sfogo sarebbe quello di picchiare il primo che passa.»
Resosi conto di aver riaperto una parentesi che non avrebbe dovuto nemmeno sfiorare, Yohei si affrettò a buttare la situazione sul ridere, evitando spiacevoli inconvenienti.
«Ora che usi matite e pennelli sei ancora più pericoloso.»
Al rosso sfuggì una risata alla quale il moro si rincuorò. «Smettila di prendermi per il culo e guarda quello che stai facendo. Le cialde finiranno per bruciarsi.»
Esser ripresi da Hanamichi era un evento più unico che raro, oltre che umiliante; di solito era lui quello che combinava casini a destra e a manca. Fu davvero un brutto colpo per il suo giovane cuore esser corretto proprio da colui che andava in giro autoproclamandosi il genio supremo.
Hanamichi, dal canto suo, una volta concluse le sue mansioni, richiamò dalla piccola finestrella che dava al bancone i due membri della Guntai, esprimendo il suo disappunto nell’aver visto Yohei in crisi con un paio di cialde da scottare.
«Vuoi smetterla di mettere il dito nella piaga? Mi infastidisci», disse minaccioso il diretto interessato, rigirando i quadrati dorati sulla piastra grazie all’aiuto di una spatola.
«Non c’è di che», ghignò l’altro, neanche lo avesse ringraziato. «Ora torno di là che c’è bisogno del mio aiuto dato che sono molto più competente di una certa persona qui al mio fianco.»
Volò repentino un mestolo che, però, andò a colpire la superfice piana della porta. Il rossino, grazie ai suoi riflessi pronti, si era già dileguato con la velocità di un felino, aspettandosi un tiro del genere da parte di Yohei.
Aveva scampato il pericolo per un pelo, constatò Hanamichi, avendo udito il rumore ovattato di un oggetto che si infrangeva sulla povera porta innocente; fortuna che era in legno altrimenti Mito avrebbe causato un danno non da niente e un costo che, tra l’altro, avrebbe dovuto pagare di tasca sua.
Sgattaiolò il più lontano possibile, non escludendo la possibilità che lo colpisse a tradimento da dietro approfittando della sua bassezza per risultare quasi invisibile ai suoi occhi.
Conosceva Mito Yohei da diverso tempo, o, meglio, da tutta la vita, e poteva affermare con sicurezza che avrebbe potuto benissimo farlo senza porsi il problema di spaventare la gente all’interno del suo bar.
Fece per dirigersi di nuovo in sala, assicurandosi la piena salvezza, quando, aguzzando l’udito dopo che gli era parso di sentire una voce a lui conosciuta, tornò sui suoi passi e notò la bellissima ragazza dei suoi desideri parlare con un’altra ragazza – una sua amica con tutta probabilità – mentre teneva in mano una rivista ed indicava una pagina di essa, lasciandosi sfuggire diverse risate imbarazzate.
Hanamichi, nascosto dietro il muro - per quanto il suo metro e ottanta gli permettesse di rimanere “invisibile” -, provò un moto di curiosità improvvisa. Voleva assolutamente scoprire che cosa avevano tanto da arrossire entrambe, ridendo nervosamente; e poi desiderava poter passare del tempo con lei, il suo angelo.
«Haruko-san!», chiamò repentino infine, facendo sussultare entrambe come se le avesse appena colte con le mani nel sacco.
«S-Sakuragi-kun!», esclamò lei, richiudendo la rivista alla velocità della luce e nascondendola goffamente dietro la schiena. «Ah Fuji, questo è Sakuragi Hanamichi», lo presentò una volta che si fece più vicino. «E’ uno dei camerieri ed anche un mio carissimo amico.»
A quella orribile parola pronunciata dalla bocca color pesca della Akagi, Hanamichi avrebbe voluto ritirarsi in un angolo buio e lasciarsi marcire fino a quando qualcuno non avesse trovato il suo corpo ricoperto di muschio e funghi velenosi.
“Perché, Kami-sama?”, si domandò mentre osava un sorriso stentato nei confronti della ragazza dai capelli raccolti in due code. “Perché non mi concedi mai una gioia?”
«I-io sono F-Fuji», balbettò in un sussurro la bruna, gli occhi che non riuscivano a sostenere il suo sguardo castano. «P-piacere di conoscerti.»
Il suo nome, in realtà, gli entrò in un orecchio e gli uscì dall’altro, tuttavia si sforzò di dimostrarsi interessato solo per la sua Harukina che lo stava osservando quasi con aspettativa.
«Il piacere è mio», fece un leggero inchino in segno di cortesia, gesto che venne accolto da Fuji con l’ombra di un sorriso. «Come mai da queste parti, Haruko-san? Pensavo avessi iniziato il tirocinio all’ospedale.»
La Akagi fece cenno di no con la testa, lo sguardo intristito. «Purtroppo è stato rimandato per altri cinque giorni per vari problemi con l’organizzazione.»
Sakuragi si rattristò insieme a lei, cercando di dimostrarle tutta l’empatia di cui era disposto. «Non ti preoccupare, Haruko-san. Intanto che aspetti di cominciare puoi sempre venire qui, ci sarà il Tensai a risollevarti il morale», e partì in quarta con una delle sue risate sguaiate, colmando il cuore della Akagi con un po’ del suo buon umore.
«Sei sempre il migliore Sakuragi-kun. Come sai tirarmi su tu il morale non ci riesce nessuno.»
Hanamichi si grattò la nuca rossa, ridendo come un beota patentato per non far trapelare il suo imbarazzo. «Così mi lusinghi troppo Harukina cara!»
Quelle risa generali presto finirono e, approfittando del momento opportuno, Sakuragi chiese innocentemente: «Come mai stai nascondendo quel giornale dietro di te?»
Le pupille della castana si fecero un poco più grandi, le guance che cominciarono ad assumere un colore violaceo. «N-niente! Stavamo solo rovistando qua e là e poi, niente noi…diglielo anche tu, Fuji!», cercò aiuto dalla sua amica ma da lei giunsero solo dei suoni incomprensibili, come se avesse appena perso la voce.
«Non capisco perché tutta questa agitazione», fece il rosso, «volevo solo capire cosa stavate leggendo.»
La Akagi, ripresasi dal suo attimo di black-out totale nella testa, riuscì a tranquillizzarsi grazie al tono di voce inaspettatamente calmo di Sakuragi. Erano più uniche che rare quelle occasioni.
Arresasi a non potergli sfuggire, gli mostrò la rivista ad un palmo dal naso, non riuscendo ad affrontare il suo sguardo. Si vergognava di esser stata beccata così in flagrante mentre sbavava sul suo idolo per eccellenza.
Hanamichi osservò attentamente la figura in primo piano sulla rivista e, quando riconobbe in quella figura un volto che non gli era nuovo, i suoi nervi cominciarono ad infiammarsi simultanei.
«Non so se ti ricordi di lui ma è uno dei due modelli che sono venuti qui una settimana fa.»
Sakuragi scrutò attentamente il ragazzo sulla copertina, sperando che, magari, fissandolo ardentemente, questi avrebbe preso fuoco sia su carta sia per davvero, dovunque egli fosse in quell’istante.
Ricordava la sua faccia da schiaffi perfettamente, persino quelle poche parole – che erano state caratterizzate specialmente da insulti o da ordini – che gli aveva rivolto.
Quando aveva posato gli occhi su di lui dopo il suo primo richiamo sgarbato, Hanamichi aveva subito pensato che fosse di una bellezza eterea, quasi fosse impossibile anche solo scrutarla; spesso all’accademia succedeva che dovesse ritrarre dei giovani di non poca eleganza, avvolti solo da un lenzuolo per coprire il loro organo maschile, ma quel ragazzo superava di gran lunga ognuno di loro con i suoi tratti delicati ma allo stesso tempo decisi.
E questo lo faceva incazzare.
Va bene che lui era il tipo da andare su tutte le furie per il nonnulla, ma non riusciva a sopportare l’idea che primo, Dio avesse guardato solo quel coso e non gli avesse donato anche solo un briciolo della sua bellezza anche a lui – ma con ciò non voleva intendere che si stava autodefinendo brutto, ecco; secondo, detestava che lo avesse guardato dall’alto in basso e che lo avesse comandato neanche fosse il cagnolino bau bau che piaceva tanto alle bambine di cinque anni; terzo, non poteva accettare che la sua dolce Harukina fosse innamorata di un babbeo dalla dubbia intelligenza.
«Ricordo vagamente», mentì spudoratamente infine, rispingendo verso il basso la voglia di prendere quello stupido giornaletto e strapparglielo davanti agli occhi.
Non era più un ragazzo impulsivo, questo era chiaro, ma non poteva nemmeno dire di aver ucciso quella parte di sé che tanto aveva odiato in passato.
Richiudendo in pensieri lontani le immagini che lo stavano minacciando di accavallarsi l’una sopra l’altra nella sua testa per ricordargli quanto fosse stato sull’orlo del baratro un tempo, Hanamichi si concentrò totalmente su Haruko, obbligandosi ad esser spavaldo per evitare che potesse scorgere anche solo un briciolo del suo turbamento.
«Non c’è bisogno che leggi queste riviste Haruko-san», dichiarò a gran voce, mettendosi le mani sui fianchi e gonfiando il petto, «dopotutto davanti ai tuoi occhi hai già un modello!», prima che potesse abbandonarsi ad un’altra delle sue risate di fabbrica, un pugno sul capo lo raggiunse repentino. Sperava di sbagliarsi ma aveva sentito come un “crack” che non preannunciava nulla di buono-
Forse era la volta buona che il suo cranio, dopo tutte le botte che aveva preso dall’individuo che si trovava dietro di lui con un mattarello tra le mani, si era spaccato almeno un po’.
«Haruko», chiamò la voce bassa del Gorilla, superando il povero rossino dolorante, «sai che non vorrei ma potrei chiederti gentilmente di andare? Questo qui», prese Sakuragi per la collottola e lo tirò su neanche pesasse quanto una piuma, «si distrae troppo facilmente per i miei gusti.»
La Akagi, comprendendo le motivazioni di suo fratello, annuì sorridendo. «D’accordo onii-chan. Mi spiace di aver disturbato.»
Hanamichi, impossibilitato dal potersi ribellare, piagnucolò mentalmente tra sé e sé; aveva sperato che la sua Haruko lo avrebbe difeso, invece aveva dato retta al Gorilla senza preoccuparsi delle sue condizioni e di quanto il suo cuore piangesse nel sapere che sarebbe stato separato da lei.
«Non sei un disturbo, è colpa di questo imbecille che non fa il suo lavoro.»
«Non trattarlo troppo male», lo rimproverò appena, voltandosi poi verso Fuji e dicendole che era meglio se ora se ne andavano. 
L’amica non ribatté e acconsentì alla richiesta in un batter d’occhio, agganciandosi alla manica della maglietta di Haruko come per cercare protezione da lei.
Akagi doveva averle messo parecchia paura, figurarsi con quell’oggetto cilindrico in mano – che poi non capiva come potessero fidarsi a lasciarlo gironzolare con un mattarello, era pericoloso per l’incolumità di tutti; o, forse, solo della sua.
«Allora noi andiamo», annunciò la sua Harukina, dedicandogli un sorriso di conforto. O di compassione? «Ganbatte Sakuragi-kun!»
Hanamichi, per quanto gli fu possibile, alzò un braccio per poterla salutare con la mano, ma ormai se ne era già bella che andata, lasciando solo il suo profumo come ricordo.
«Gori…» sillabò con frustrazione, dandogli un colpetto sul petto come per chiedergli di lasciarlo andare.
Akagi non lo lasciò, non ancora, prima aveva giusto due parole da riferirgli.
«Quante volte ti ho detto di non provarci spudoratamente con mia sorella e, soprattutto, non al lavoro?»
Hanamichi sbuffò. «Tante.»
«Quante volte ti ho detto che non voglio vederti distratto e di muovere quelle chiappe pesanti per darci una mano?»
Un grugnito. «Tante.»
«Quante volte ti ho detto che sei un troglodita e che una formica ha il cervello più grande del tuo?»
«Tan- no aspetta, questo non me l’hai mai detto!»
Gori annuì, mollando la presa alla sua collottola. «Mi fa piacere sapere che ogni tanto mi ascolti quando parlo.»
Una volta che il rosso si fu ripreso dal colpo di mattarello sul capo e che avesse accettato l’effettiva mancanza di Haruko nella stanza, si appoggiò al muro, pronto a ricevere la sua dose di epiteti giornalieri da parte del Gorilla incazzato che lo guardava con poca voglia di tenere una discussione civile con lui.
«Allora», cominciò Akagi, e Hanamichi temette già il peggio. Che lo volesse picchiare con quell’oggetto pesante che aveva tra le mani? «Voglio che tu vada a servire i tavoli.»
Un momento di silenzio, anche due, si susseguirono, dopodiché Sakuragi scoppiò in una fragorosa risata, tenendosi addirittura la pancia talmente avevano cominciato a dolergli gli addominali.
«Questa è buona Gori!», esclamò, asciugandosi le lacrime agli angoli degli occhi. «Oggi non è il primo di aprile. Cos’è? Non hai neanche soldi per permetterti un calendario?»
Takenori si trattenne dal colpirlo con il mattarello anche se la voglia era tanta, ma un altro pugno sulla testa non glielo risparmiò. Alle volte non c’era nemmeno motivo di fargli male, ma ormai era diventata un’abitudine alla quale si era affezionato.
«Non sto scherzando. Servi i tavoli come tutti noi facciamo. Devo andarmene per una mezz’ora quindi tu prenderai il mio posto senza discutere.»
Hanamichi, ripresosi in fretta dal colpo, alzò un indice per spiegare le sue ragioni per non fare ciò che gli era stato detto – imposto – di fare.
«Vorrei ricordarti che tutte le volte che c’ho provato ho rovesciato qualcosa a terra. Una volta mi sono pure beccato un calcio nelle palle da una signora perché le ho sporcato la camicetta bianca con il succo di frutta. Passatela tu una notte con i dolori atroci ai coglioni!»
«Hai problemi alle ossa?»
Sakuragi rimase per un attimo interdetto, chiedendosi che diamine centrasse, ma poi rispose un convinto: «No.»
«Disabilità che non hai mai rivelato?»
«Non credo.»
«Problemi di mente?»
«Con tutte le botte che mi hai dato dovrei ma no, è ancora tutto al proprio posto.»
Akagi appoggiò quindi una mano sulla sua spalla, sorridendo a mo’ di psycho. «Allora puoi tranquillamente assolvere il tuo compito, Sakuragi», ma in realtà era come se avesse detto “se non vai ti spezzo in due perciò, se non vuoi rischiare, vai.”
Hanamichi, a quel punto, capì di non avere più vie di scampo. Arreso, sbuffò sonoramente, togliendosi di dosso il palmo di Gori che, sapeva, avrebbe stretto di più la presa se solo avesse provato a rifiutare di nuovo.
«Se mi castrano ancora però ti attribuirò la colpa e ti farò causa», annunciò con convinzione prima di sparirsene senza aspettare una risposta da parte di Akagi, calpestando pesantemente i piedi sul suolo, come per dimostrare quanto fosse irritato in quel momento.
Lui non ci sapeva fare con i clienti: l’unica volta in cui era riuscito a trasportare gli ordini senza fare danni – ed era stata una grande conquista per lui - era stato una settimana prima con i due modelli che, tra l’altro, se ne erano andati prima che potessero consumare le cose richieste, lasciandolo totalmente interdetto.
Il destino voleva che nessuno avesse mai assaggiato qualcosa servito da lui, quasi trasportasse pietanze avvelenate con un pesticida e che dovessero per forza essere eliminate, in un modo o nell’altro.
Ritornò nelle cucine con l’umore nero e, non appena gli saltò all’occhio Megane-kun, si diresse verso di lui e stese le braccia in avanti. «Facciamola finita.»
Kogure lo guardò sbigottito, non comprendendo il motivo di quell’improvvisa e rabbiosa entrata in scena. «Sakuragi?»
«Per la gioia di tutti devo servire i tavoli», ironizzò, mentre il colore della pelle di Kiminobu sbiancava lentamente. Lo sapeva che quella sarebbe stata la sua reazione. «Lamentati con Gori. E’ stato lui a prendere questa decisione per conto suo.»
Kogure si fidava spesso del giudizio di Akagi, ma in questo caso avrebbe avuto molto da ridire. Come minimo, se Hanamichi avesse fatto un danno – e già riusciva ad immaginarsi la dinamica della scena -, sarebbe toccato a lui andare a raccogliere i cocci.
“Se Akagi lo ritiene giusto allora non vedo perché dovrei aver qualcosa da ridire”, si autoconvinse, sbattendosi le mani sul grembiule per poterle ripulire dalla farina.
Gli avrebbe fatto portare qualcosa di semplice, e avrebbe pregato in Dio solo sa che lingua perché riuscisse in quella missione impossibile per i suoi canoni.
«Passami quell’ordinazione per favore», disse cortesemente Megane ad uno dei suoi aiutanti, uno nuovo che Hanamichi non ricordava di aver mai visto.
Questione di pochi attimi e si trovò a tenere tra le mani un bicchiere di latte scremato e un piattino di ceramica con tanto di brioche alla crema con scaglie di cioccolato fondente.
«So che ce la farai, io credo in te», lo incoraggiò Kogure, dandogli una leggera pacca sulla spalla – la stessa su cui si era appoggiato Gori poco prima – per infondergli sicurezza.
«Megane-kun…», lasciò in sospeso la frase per un decimo di secondo prima di riprendere, «lo sai che non sto andando in guerra vero?»
Le guance dell’altro si imporporarono quando si rese conto di esser stato troppo esagerato nel suo incitamento a dare il meglio di sé. Non erano ad una finale dell’Inter-high di basket ma in un semplice bar, in cui l’unica cosa davvero eclatante che dovevano fare era servire i tavoli.
«Per te è come se lo fosse Hana, perciò prendi a cuore le parole di Kogure-san», giunse in suo aiuto Mito, lanciando al rosso uno sguardo vittorioso per qualcosa di cui non sapeva nulla.
«E’ la tua vendetta per prima, Yo?», domandò Hanamichi con un filo di nervosismo, incassando il colpo.
A Yohei sfuggì un ghigno. «Assolutamente no. Lo sai che non sono un tipo vendicativo, io.»
«Che bugiardo.»
Kogure assistette ad uno dei loro soliti teatrini fatti di frecciatine, ma nonostante questo si poteva respirare nell’aria quanto fosse forte la loro amicizia. Sul lavoro non riuscivano mai a dare il meglio di loro, anche perché Mito era sempre richiuso in cucina e Sakuragi si occupava di pulire i tavoli e prendere le ordinazioni insieme al resto dell’Armata; quando invece uscivano in compagnia, ed anche lui ed Akagi si aggregavano, si notava quanta affinità vi fosse tra quei due.
Si comprendevano al volo, alle volte non sprecavano nemmeno parole inutili perché riuscivano a capirsi anche da un semplice sguardo, neanche fossero in simbiosi.
Era invidiabile un’amicizia così lunga e sincera come la loro, una di quelle rare che si spererebbe di avere nei momenti più difficili ma anche nei momenti più belli della propria vita. In sintesi, nella propria quotidianità.
«Mi dispiace interrompervi», si scusò da principio il castano, bloccando quell’infinito battibecco su una questione molto profonda quale chi avesse centrato per primo il cilindro con il cerchio all’età di sette anni. «Le cose si stanno raffreddando. Non vorrei che ricevessimo delle lamentele.»
Si ricomposero in un batter d’occhio, mettendo da parte le loro discussioni personali per un altro momento più consono. Ora dovevano pensare solamente a svolgere bene il loro lavoro.
Hanamichi protese le braccia verso Megane, questa volta con più convinzione e meno rabbia.
«Ho già affrontato una mandria di ragazzine arrapate, quindi ce la farò anche questa volta», decretò in una muta promessa, e Kogure ne fu sinceramente felice, consegnandogli le due ordinazioni quasi fossero una coppa vinta dopo un faticoso torneo.
«A quale tavolo?», chiese, volendo evitare la figura di merda colossale di arrivare in salone e non sapere nemmeno dove recarsi.
«Undici», rispose l’altro, abbozzando un sorriso.
«Perfetto», si incamminò verso la porta semi-chiusa, aiutandosi con un piede ad aprirla sufficientemente perché potesse passare. «Il Tensai Sakuragi Hanamichi va a compiere la sua missione!»
Nemmeno a dirlo, quando fece il suo ingresso in sala, venne accolto dalle risate soffocate della scrofa, di baffo man e dell’anti-figa per eccellenza – anche conosciuti come Takamiya, Okusu e Noma -, che gli si fecero vicini, dandogli il loro supporto morale come solo loro riuscivano a fare.
«Scommetto la mia paga che fai cascare qualcosa», sghignazzò Takamiya, tentato di dargli una lieve spinta, ma, sapendo quali sarebbero state le conseguenze, se ne stette fermo.
«Io scommetto che casca lui», si aggiunse Okusu, arrotolandosi i baffi come un intellettuale.
Noma li rimbeccò. «Siete dei dilettanti! Sicuramente cadrà e finirà addosso a qualcuno.»
Hanamichi, i nervi a fior di pelle, dedicò loro lo sguardo più cattivo di cui fosse disposto, facendoli tremare simultaneamente sul posto. Se avesse cominciato a sbraitare come un deficiente non lo avrebbe mai preso sul serio, ecco perché aveva imparato a rimanersene in silenzio, lasciando che i suoi occhi parlassero per lui.
«Avete detto qualcosa?», domandò poi, i tratti del viso ancora contratti.
Tutti e tre scossero la testa, deglutendo una grande dose di saliva. Sapevano ogni volta quale sarebbe stato il costo da pagare se avessero infastidito al limite il loro capo e, come sempre, da due anni a quella parte, sapevano quando era l’ora di fermarsi. Superare il limite gli era permesso solo quando erano tra di loro e si giocavano anche la madre nelle loro scommesse su Sakuragi.
«Se non avete niente da dire ditemi piuttosto qual è il tavolo 11. Mi secca cercarlo.»
Noma fu il primo a reagire, indicando: «quello là in fondo a destra.»
Takamiya, in contemporanea, sussurrò in modo che solo i due compagni accanto a lui sentissero: «L’avranno fatto apposta a dargli un ordine così lontano. Almeno nessuno se ne accorge se combina uno dei suoi danni.»
Okusu cercò di trattenersi dal ridere mordendosi le labbra.
«A proposito», tossì Noma, cercando di riscaldare l’atmosfera che si era fatta fin troppo tesa per i suoi gusti. «Quello è il tavolo in cui si trova il tizio sospetto che è entrato poco fa, giusto?»
Improvvisamente ebbero l’attenzione di Hanamichi, anche se, allo stesso tempo, con la coda dell’occhio, quest’ultimo si stava assicurando che le ordinazioni rimanessero intatte.
«In che senso sospetto?» chiese vagamente preoccupato di chi si potesse trovare di fronte. Ok, forse preoccupato non era il termine più appropriato per uno come lui. Si poteva dire che fosse …curioso?
«Tu come lo definiresti uno con un berretto da nonno, l’impermeabile con il colletto tirato su fino alla bocca e gli occhiali da sole?» domandò retorico Takamiya.
«Sherlock Holmes?»
«Nel mondo reale, Hanamichi. Non in film o libri.»
«…un tizio sospetto.»
«Appunto.»
Sakuragi farfugliò qualcosa, dopodiché fece spallucce. La cosa, alla fine, non gli interessava poi così tanto.
«Che volete che sia? Ci ho vissuto la mia vita con persone poco raccomandabili e io stesso lo sono stato, un individuo con l’impermeabile non è certo la fine del mondo.»
Detto quello snobbò i commenti che giungevano alle sue spalle dai tre componenti dell’Armata e si incamminò in direzione del tizio dall’aria sospetta che, mano a mano, si faceva sempre più chiaro alla vista delle sue iridi castane, ovviamente controllando sempre che le ordinazioni rimanessero intatte finché non fosse giunto a destinazione.
Non aveva detto fesserie quando aveva annunciato di esser stato uno poco raccomandabile in tempi che furono. La gente si era sempre soffermata sui suoi capelli rossi, marciandoci sopra sul fatto che un ragazzo dalla peluria così strampalata non potesse esser altro che un teppista.
Così l’avevano etichettato alla tenera età di sette anni senza che lui potesse contribuire effettivamente a questo pregiudizio; così era stato all’età di quindici quando, invece, aveva fatto in modo che tutti lo riconoscessero come tale dando il peggio di sé, così anche tutt’ora che era ormai un uomo che dai suoi errori aveva imparato qualcosa.
«Mi scusi se l’ho fatta aspettare», mormorò con cortesia una volta giunto a pochi passi dal fatidico tavolo numero undici.
Il signore, non sapeva definire se anziano o un giovane uomo dato che era tutto imbacuccato di vestiti e altre cianfrusaglie, neanche volesse risultare invisibile, - ci stava riuscendo molto male, a suo modesto parere – rivolse la sua attenzione su di lui, scoprendo le labbra sottili che, indubbiamente, dovevano appartenere ad un ragazzo sulla ventina o, massimo, trentina d’anni. Chissà perché aveva come l’impressione di averle già viste delle labbra così ben definite.
Senza porsi tante altri punti di domanda che non avrebbero avuto delle risposte soddisfacenti, aspettò che l’individuo sospetto dicesse qualcosa, ma da quella bocca non uscì un solo suono. Si limitò solo ad inclinare la testa, come uno scienziato che studiava una cavia da laboratorio.
Hanamichi emise un breve grugnito, infastidito da quel comportamento impassibile - in ogni caso non sarebbe stato da lui non brontolare, anche se in modo accennato, verso qualsiasi cosa.
«Tenga», disse mantenendo la calma, appoggiando sulla superficie piana quanto richiesto dal cliente. «Queste sono le sue ordinazioni: una brioche alla crema con scaglie di cioccolato fondente e un bicchiere di latte…scremato.»
Nel momento in cui gli ingranaggi della sua mente cominciarono ad elaborare che qualcosa non quadrava per niente in quella situazione, l’altro appoggiò il capo sul palmo della mano, un gesto che Hanamichi ricordava di aver visto in una stessa sequenza non troppo tempo prima.
Un terribile presentimento gli si affacciò nel cervello, ma pregò cieli e terre che rimanesse un presentimento e nient’altro.
«Oh…», sillabò il ragazzo del tavolo, aggrottando la fronte scoperta. «Tu sei il cameriere dell’altra volta…»
Fu il commento decisivo che fece comprendere a Sakuragi che sì, aveva fatto centro sulle supposizioni che erano nate per caso nella sua testa ma che aveva bellamente ignorato perché riteneva impossibili.
“Ci vediamo”, erano state le parole del porcospino, ma solo lui le aveva dette! Chi avrebbe mai pensato che, invece, si sarebbe presentato di nuovo quel ghiacciolo umano, tra l’altro in solitudine, senza faccia da Buddha.
Lo sapeva, c’era qualcosa di strano che gli puzzava nell’aria da tutto il giorno: il fatto di esser arrivato in ritardo al lavoro – ma quella non era una novità -, l’aver conversato con Yohei, l’aver avuto un dibattito con Gori, l’incontro con Haruko-san e la rivista; erano stati tutti segnali di avvertimento.
Era stato come rivivere la stessa identica giornata di una settimana prima, solo senza le ragazze in piena crisi ormonale.
Genialmente e stupidamente allo stesso tempo, il freezer ambulante che gli stava di fronte aveva avuto l’idea di travestirsi per non esser riconosciuto e, sperava, per non creare altri problemi.
«…quello impedito
Una pausa, un battito di palpebre.
«Eh?»
In concomitanza a quell’ ‘eh’ di troppo, il ragazzo seduto si innervosì, mormorando un: «Sordo oltre che impedito.»
Il messaggio, questa volta, arrivò chiaro e tondo alle orecchie di Hanamichi che, simultaneo, sbatté le mani sul tavolo facendo quasi traboccare il latte, incattivendo lo sguardo.
«Cos’hai detto?!» lo aggredì, mostrando i denti come un cane rabbioso.
«Hn, quello che ho detto», replicò l’altro, per nulla scalfito dagli occhi del rosso che emanavano un’aura omicida.
«Quello che ho detto», lo scimmiottò Sakuragi, sprezzante a livelli estremi, sperando di stimolare i suoi nervi e concludere la faccenda con qualche pugno fuori dal bar, possibilmente. «Già quando sei venuto qui l’ultima volta avrei voluto dirtelo: vedi di non atteggiarti da Miss Mondo solamente perché sei un model-ghg!»
Venne immediatamente bloccato prima che potesse completare la frase dal palmo di una mano e, nella stessa azione, gli occhiali da sole che il moro indossava si abbassarono leggermente, permettendo ad Hanamichi di incontrare le sue iridi limpide come il cristallo puro, ora più dense a causa del nervosismo.
«Dovresti evitare di sbandierare la mia presenza qui», lo rimbeccò con superiorità, togliendo la mano dalla sua bocca con aria schifata, pulendola sul giaccone beige.
«Non ho mica la lebbra!» sbottò il rosso inalberato, le vene sulle tempie che pulsavano. «E prova a zittirmi di nuovo e giuro che questa volta non la passi liscia dannato ameba!»
Il ragazzo, richiusosi di nuovo nella sua compostezza ed ignorando quel nomignolo che calzava a pennello alla sua persona, azzardò un nuovo commento affilato, come solo lui sapeva fare.
«L’idiozia è contagiante», affermò con sicurezza, quasi fosse una teoria dimostrata, accavallando le gambe per comodità. «Meglio prevenire che curare, Do’aho
I nervi di Hanamichi andarono a farsi fottere uno dopo l’altro, mutando i tratti del suo viso in quelli di una bestia feroce. Quel bastardo aveva osato dargli dell’idiota per la seconda volta! A lui che era la genialità reincarnatasi in un comune umano!
Chi cazzo si credeva di essere per potergli parlare così quando nemmeno conosceva chi diamine fosse?!
«Tu…!», cominciò Hanamichi pronto a farsi valere, ma venne di nuovo bruscamente fermato.
«Hn, vuoi picchiarmi?», chiese il moro visibilmente annoiato, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Sakuragi, nonostante stesse toccando i limiti dell’infervoramento, si bloccò un attimo, fissandolo accigliato e cercando di pensare con un briciolo di razionalità, non ascoltando i suoi istinti che gli stavano gridando di farlo morire nelle più atroci sofferenze.
Perché aveva l’impressione che lo stesse facendo apposta a stuzzicarlo e che il suo obiettivo finale, in realtà, fosse proprio quello di venire alle mani?
Con tutte le risse che aveva scatenato in passato e con tutte quelle che si erano scatenate per altri e vari motivi con individui poco raccomandabili, nessuno di questi gli aveva mai domandato se effettivamente volesse fare a botte: si cominciavano a dare per il semplice gusto di farlo, senza chiedere nulla.
«Senti Ruwaka»,
«Rukawa», lo corresse.
«Chissene frega», sputò con la sua solita grazia da scimmia che era; inconsapevolmente, ma lo era. «Non so quale sia il tuo obiettivo o se mi hai scelto come tuo sfogo personale perché non c’è il porcospino ad espiare le tue sofferenze, ma sappi che non sono un adolescente ma nel pieno dei miei vent’anni. Se cerchi un compagno di giochi quello non sarò io, chiaro? Io devo lavorare e- oh ma mi stai ascoltando?!»
Non lo stava ascoltando, neanche si stava impegnando a sentire le fesserie che stava dicendo, stava udendo solamente dei suoni buttati a casaccio; forse perché era troppo impegnato a sorseggiare il latte scremato e sì, un latte scremato è più interessante di una scimmia rossa sbraitante.
«Ti ho chiesto se mi stai ascoltando!» sbraitò per l’ennesima volta, questa volta nel suo orecchio per assicurarsi che lo avesse sentito.
Rukawa, la certezza che gli avrebbe fatto causa per riavere indietro il suo timpano destro, lo guardò con uno sguardo carico di indifferenza, quello con cui si guarda normalmente uno sterco di mucca, mettendolo quasi in soggezione.
«Secondo te, Do’aho?»
Hanamichi ingoiò un paio di bestemmie, ma nel suo cuore rimpianse quella decisione.
«Do’aho lo potrai dire chiunque ma non a me, io sono il Tensai, chiaro? E poi dai tu a me dell’idiota quando sei tu il primo ad esser vestito in modo ridicolo e a comportarti da ghiacciolo rincretinito», gli fece notare, indicando il suo vestiario che dava assolutamente nell’occhio a discapito delle sue previsioni. Bastava pensare a come sparlavano tra di loro Takamiya, Noma e Okusu qualche minuto prima.
Rukawa lo fissò con un pizzico di perplessità, proprio una puntina, considerando che doveva proprio essere una persona piena di sé e dalle false convinzioni per autoproclamarsi un genio. Lui vedeva solo un cretino dai capelli rossi a forma di banana.
«Hn, togliendomi queste cose urleresti in modo ridicolo davanti a tutti», spiegò infine, utilizzando meno parole possibili per farsi capire. Gli richiedeva troppa fatica spiccicare qualche sillaba in più.
Sakuragi si abbandonò ad una bassa risata, appoggiando le mani sui fianchi e alzando la testa, pavoneggiandosi: «Se non fosse stato per me sareste stati schiacciati da quelle ragazze, sia tu che il procione.»
Il moro evitò di rammendargli che non era un procione ma un porcospino, e che tra i due c’era una bella differenza, tuttavia non era il tipo da mettere i puntini sulle “i”, perciò lasciò perdere, mormorando un semplice: «Tsk, Do’aho.»
«Ancora?!» s’infervorò di nuovo, i fumi che gli uscivano dalle orecchie talmente Rukawa stava sfidando la sua poca pazienza. Se lo avesse conosciuto a sedici anni lo avrebbe pestato e con violenza anche. «Guarda che ho un nome sai, ed è Sakuragi Hanamichi! Vedi di ricordartelo stupido freezer umano!»
«L’ho già dimenticato*», disse solo, togliendosi in via definitiva gli occhiali da sole, capendo che senza o con quelli addosso non avrebbe fatto alcuna differenza.
Tutti i clienti nel bar non osavano guardare nella loro direzione, ben consci che se avessero fatto da spettatori attivi a quella scenetta che andava avanti da più di dieci minuti, sarebbe venuto fuori il putiferio per colpa di Sakuragi.
Aveva detto di chiamarsi così, giusto?
«Non riesco a credere che la mia dolce Harukina possa essere innamorata di una persona simile», mormorò Hanamichi a bassa voce, allibito di quanto potesse esser esasperante e il suo completo opposto quel tizio che lo stava fissando senza esprimere alcuna emozione evidente tranne che noia.
Si esprimeva a monosillabi, aveva l’espressività di un pesce morto e riusciva ad essere mirato negli insulti nonostante la calma che utilizzava – ma quella era dovuta alla sua natura amorfa, ne era certo.
Poteva esistere un individuo peggiore, soprattutto per uno come lui he scattava alla minima cazzata? Per i suoi canoni no, nessuno poteva esser peggio di così.
Repentinamente si domandò per quale motivo fosse ancora lì. Avrebbe potuto andarsene in ogni momento, realizzò, eppure era rimasto in compagnia – e che compagnia, pensò sarcasticamente – di quel frigido ghiacciolo sconosciuto che ora sembrava sul punto di addormentarsi.
Soffriva anche di narcolessia oltre che di demenza?
Improvvisamente lo squillo di un telefono interruppe la loro conversazione fatta di continui insulti e risvegliò dal suo attacco di sonno il moro che, subito, estrasse dalla tasca dell’impermeabile un sistematico i-Phone, ad occhio e croce l’ultima versione, che Hanamichi non avrebbe potuto sperare di comprare nemmeno nelle prossime due vite.
Maledetti ricconi, dovreste andare tutti al diavolo!”
«Akira?» rispose con il solito tono da voglia di vivere saltami addosso, gli occhi azzurri che guardarono, pochi secondi dopo, verso l’alto. «Sono al bar della scorsa volta, non rompere anche tu come Ayako.»
Sakuragi ascoltò la conversazione, o, meglio, un continuo uso di “ah, oh, hn, mh” da parte del ghiacciolo, interessato alla comunicazione quanto lo poteva esser Takamiya davanti ad un piatto di insalata.
Non se ne era andato solo perché voleva concludere la loro questione, schiacciandolo d’ingegno come solo lui avrebbe potuto fare. Era il Tensai, a genialità non lo avrebbe battuto mai nessuno.
«Adesso arrivo, smettila di fare il bambino Sendo», biascicò infine Rukawa interrompendo la telefonata, facendo accendere una lampadina all’interno della mente di Hanamichi.
Sendo, se il suo cervello non gli stava facendo un brutto tiro, era il porcospino, il Buddha dal sorriso sempre stampato sulle labbra.
«Nh, non sono riuscito a mangiare», disse Rukawa, guardando la deliziosa brioche lasciata lì sul piattino, pronta ad incontrare il suo destino crudele: il cestino della spazzatura.
«Portatela via», gli consigliò Hanamichi, mosso a compassione dal sincero dispiacere dell’altro. «Penso che tu possa riuscire a mangiarla prima di andare dovunque tu debba andare. Comunque spererò che ti ci strozzi, non sono diventato improvvisamente buono.»
Rukawa incassò il colpo, ovviamente senza che la sua mimica facciale desse segno di tutto ciò.
Tirò fuori il portafoglio dalla tasca dei pantaloni e lasciò, esattamente come aveva fatto il porcospino la settimana prima, duemila yen, non chiedendo il resto in cambio.
«Ci credete dei poveracci che ci lasciate sempre la mancia?», chiese sprezzante Hanamichi, sentendo l’irritazione ribollire nel suo stomaco come un vulcano in eruzione.
Non aveva provato la stessa rabbia l’ultima volta con quel Sendo, invece con il ghiacciolo vivente sentiva come un peso sullo stomaco, e la cosa lo infastidiva parecchio.
«Hn, se fosse per te Do’aho…», lasciò in sospeso la frase. Se voleva intendere intendeva. «Il posto mi piace. Merita questi soldi.»
Scivolò via dal suo posto prendendo con sé la brioche, cominciando ad incamminarsi a lentezza minima verso la porta di uscita che avrebbe dato al centro della periferia di Kanagawa.
Hanamichi lo seguì: sapeva che aveva ancora qualcosa da dirgli, e voleva proprio sapere che cos'altro potesse venir fuori da quella lingua biforcuta.
«E’ azzeccato.»
«Che cosa?», chiese Sakuragi con un velo in meno di nervosismo.
«Il nome: Moneky’s room», specificò con malavoglia, girando il pomello della porta e aprendola, lasciando che il vento freddo lo travolgesse. Con tutto quell’impacco di roba che aveva addosso stava quasi sudando nonostante fossero in pieno inverno.
«Perché?», domandò l’altro, quasi incuriosito.
«Scimmia», annunciò, superando la soglia, «perché sei una scimmia pure tu, come dice il nome.»
E la porta che li separava li divise in modo definitivo, lasciandosi dietro un Rukawa con l’anima in pace, gli occhiali da sole nuovamente infilati sul viso e il cornetto alla crema in bocca, e un Hanamichi che, dopo aver compreso il significato delle parole del ghiacciolo, prese da parte Takamiya, Noma e Okusu, rifilando ad ognuno di loro una testata che li stordì per tutta la giornata.
Era colpa loro, tutta colpa loro. Sia per quella volta, sia per la volta precedente - e l’avrebbero pagata ancora di più cara se il freezer e il compagno porcospino si fossero fatti rivedere, soprattutto la kitsune.
La stupida, odiosa e narcolettica Volpe.
 


 


*Scusate ma dovevo troppo riportare lo stesso passo dell'anime. Sono quasi caduta dalla sedia dal ridere. B'D
 
 
 
 
 
 
   
 
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