Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: marani    28/05/2014    1 recensioni
Domanda: l'amore è sempre una cosa buona? Di slancio, verrebbe proprio di rispondere sì. Ma qualche volta non è esattamente così. Ed è in quei casi che difendersi si tramuta in una lotta senza pietà. Specie se chi dice di amarci ha poteri che nessun altro essere umano possiede.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
CAP. 15


Il sabato in cui le cose precipitarono cominciò con la solita alba torrida, che mi sorprese a ciondolare per casa mezza assonnata. Nel tentativo perso molto in partenza di fare un po’ di pulizie. Dico tentativo perché l’intera mia mente era divisa, perfettamente al 50%, tra la preoccupazione per quella stupida sfida alpinistica e la voglia (bramosia descrive ancora meglio il mio stato) di avere qualche cenno di vita da Andrea. Quindi rimaneva molto poco d’altro che mi evitasse di restare imbambolata con lo sguardo fisso e lo straccio  stretto nella mano. Naturalmente avevo già provato un paio di volte (in barba a tutti i dettami di educazione che sconsigliano di chiamare casa d’altri di mattina presto) a formare il numero di Andrea, ma lo squillare a lungo (e a vuoto) del telefono mi aveva rabbuiato dentro come un temporale improvviso. Che stronzi gli uomini, avevo pensato nel più classico dei rigurgiti post-femministi. Ce l’avevo in egual modo con tutti e due, uno che se n’era andato a rischiare il collo solo per una stupida scommessa (ma te la pago io, la cena alla Bulesca!, avrei voluto dirgli, ben sapendo che non sarebbe stata per niente la stessa cosa), l’altro che era sparito così di punto in bianco dalla mia esistenza. Nel momento preciso in cui avevo così bisogno di conforto (che tipo di conforto, per la precisione?, s’informò una vocina nella mia testa).
- Non lo “senti” adesso, che sto male?!? - chiesi alla stanza vuota e silenziosa. Le lacrime mi sgorgarono inattese e violente, mentre mi lasciavo cadere sul divano. Afferrai la borsetta dal tavolino e presi a frugarci dentro, alla ricerca di un fazzoletto. Ma perché gli uomini devono sempre andare in giro a farsi male e lasciare sempre a casa noi donne a singhiozzare?, pensai arrabbiata mentre rovistavo in un caos fatto di rossetti, chiavi, vecchie bollette e foglietti di appunti. C’era persino una mela di chissà quando, decisamente avvizzita. Dopo un po’ recuperai il fazzoletto, e trovai anche un’altra cosa, che mi fece corrugare la fronte pensierosa. Tra le dita avevo quell’origami raffigurante la coppietta che si teneva per mano. Quella che avevo scorto sulla mensola del bagno di casa di Andrea. E che non mi era mai parso di aver preso su. Non avevo neanche la borsa con me, nel bagno. Ero uscita da là e avevo infilato le mani nella cintola dei pantaloni di Andrea. Tutte e due le mani. (un brivido mi serpeggiò tra le gambe) Sarebbe stato impossibile reggere quel delicato manufatto di carta, senza rovinarlo... Lo osservai a lungo. Una delle due figurine aveva addirittura la testa (la piega della carta che simulava la testa) leggermente rivolta verso il suo partner di carta. Come diavolo... A meno che (e a quel pensiero sentii la mia parte razionale sospirare soddisfatta) non avesse creato una seconda versione, infilandomela nella borsetta proprio mentre ero su in bagno.
Forse voleva fare in modo che io pensassi a lui anche in seguito, ritrovandola. Come se già non ci pensassi praticamente ogni istante...
Ad ogni modo, ciondolando, spolverando ogni volta 20 o 30 trenta centimetri di mobili, rimanendo impalata dei lunghi quarti d’ora a pensare, provando a chiamarlo senza nessun successo, bene o male tirai fino ad ora di pranzo. Feci così un giro di telefonate, più che altro per riempire il tempo, a casa dei miei, a un paio di amiche e alla madre di Sara. Qui la signora Todescan mi raccontò una storia curiosa e preoccupante allo stesso tempo. La sera prima Sara aveva ricevuto, inaspettatamente, la visita di una donna che, a sentire la mia interlocutrice, non aveva mai visto prima. Non era una delle amiche di mia figlia, mi confermò la madre, le conosco quasi tutte e comunque non era certo una vostra coetanea... Dopo una mezz’ora la misteriosa donna era uscita in fretta dalla camera, stringendo spasmodicamente tra le mani una decina di quei foglietti che Sara usa per comunicare, e se n’era andata quasi senza salutare.
- Sono andata da mia figlia per vedere come stava e per avere spiegazioni di quella strana visita - mi disse trattenendo a stento le lacrime - e l’ho trovata mezza incosciente, con la febbre che le era salita all’inverosimile. Abbiamo chiamato subito la guardia medica e l’hanno ricoverata d’urgenza. Abbiamo anche provato a rintracciarti ma eri fuori, e la segreteria non era inserita...
(la segreteria non era inserita?)
...adesso sto correndo in ospedale a dare il cambio a Sandra... -
Mi congedai da lei, con il cuore gonfio di preoccupazione, dopo essermi fatta dare il numero di stanza della mia sventurata amica e mi avvicinai, quasi con prudenza, alla piccola segreteria telefonica sul mobile d’entrata.
(la segreteria non era inserita?!?)
Non sono mai troppo metodica (e anche un po’ pigra) con la tecnologia di tutti i giorni. Per cancellare i messaggi che restano incisi sul nastro bisogna sollevare il coperchio della segreteria e pigiare un pulsantino. Se invece si ascoltano i messaggi senza questa procedura il led rosso che ne indica il numero si riazzera, ma quest’ultimi sopravvivono. Schiacciai lo start. Il nastro si riavvolse e la voce di mia madre mi arrivò alle orecchie:
- ehm... mannaggia, c’è la segreteria... (tipico) ...sì, ciao, sono la mamma... ehm... è ora di cena e pensavamo fossi in casa. Ci sentiamo domani, ciao, buonanotte... -
Tlac. Il nastro si fermò. Lo avevo ascoltato anche la sera prima, quando ero entrata furiosa in casa dopo il battibecco con Ricky (e avevo sperato con tutto il cuore che fosse chi dico io) e quindi quella controprova non mi serviva. Ma l’avevo fatto per confermare quanto già sapevo. E cioè che la telefonata di mia madre (all’ora di cena della sera prima) era la prova inconfutabile che la segreteria NON era disinserita. E che la madre di Sara (probabilmente nella concitazione del ricovero in ospedale) non aveva affatto chiamato a casa mia.
Mentre ero lì immobile ad osservare la segreteria, l’occhio mi cadde sul fogliettino che custodiva gelosamente il numero telefonico di Andrea. E un istante dopo lo avevo già formato e ascoltavo sconfortata lo squillo che si ripeteva all’infinito. Quando fui convinta che il ragazzo non era proprio in casa (o magari non aveva intenzione di rispondere) riappesi. E il telefono squillò.
- Sì, pronto? - risposi, con il cuore in subbuglio, sicura di sentire la voce calda che desideravo.
- Pronto, sono Morseletto, posso parlare con Giulia Visconti?-
Al prima vista quel cognome non mi disse nulla. Poi le mie sin troppo zelanti cellule cerebrali frugarono negli immensi archivi della memoria, inviandomi una fototessera del personaggio in questione. E il mio cuore, già allegramente agitato dall’idea che l’interlocutore fosse Andrea, accelerò all’impazzata. Di paura.
Morseletto. Luigi Morseletto. Avvocato Luigi Morseletto. Per gli amici, Gigi. E il mio cervello, in una frazione di secondo, mi rimandò l’immagine di quel Gigi, con le gote infiammate dall’alcool e un sorriso a quarantotto denti, che esclamava: “...e dai, coniglio, sabato mattina mettiamo in macchina le attrezzature e ci mangiamo quella paretina del cazzo!”.
QUEL Gigi. Che, in quel momento, doveva trovarsi sospeso a decine di metri di altezza, impegnato in una stupida gara con il mio Ricky. E che se invece era lì intento a telefonare a me non si trovava proprio attaccato ad una montagna. E se non lo era lui, dov’era Ricky?!?
- P-pronto... - balbettai mentre le mani mi si congelavano - s-sono io... -
- Ah, ciao, sono Gigi, scusami - il suo tono non troppo funereo insinuava in me un briciolo di sollievo, sempre che non fosse idiota fino al midollo - c’è stato un piccolo problema. Niente di grave, naturalmente. Avevamo appena iniziato a salire quando la corda che reggeva Ricky e Gianni si è spezzata... non riesco proprio ancora a capire come possa essere successo, voglio dire, la fune era nuova, e non c’erano all’inizio sporgenze contro cui potesse sfregar... -
- Come sta Ricky? - sbottai interrompendo quella sua simpatica divagazione.
- Ah, sì... scusa - si schermì lui - sono caduti, ma erano solo due o tre metri
(SOLO due o tre metri?!?)
e non è successo niente di grave. Anzi, è stato proprio il Garzia ad avere la peggio, con una costola e una gamba rotta. Ricky, a parte qualche botta, si è messo in piedi da solo... -
- Dove siete? - chiesi, non ancora del tutto tranquillizzata.
- Siamo qui al pronto soccorso di Asiago. Garzia dovrà scendere giù con un’ambulanza. Ricky è stato visitato, e volevano trattenerlo per sicurezza, ma lui ha firmato e verremo in città subito. Figurati che questi sfigati (alé) hanno la macchina per la Tac ma è andata in tilt. Tutto a un tratto, hanno detto. Stanno aspettando il tecnico e volevano che Ricky attendesse qui per l’esame. Ma come ripeto lui vuole rientrare quanto prima e... -
- E perché non mi ha telefonato lui? - gli chiesi sospettosa e allarmata. La voce dell’altro si affievolì per un attimo, come se la comunicazione avesse dei problemi, poi tornò udibile:
- Beh, la caduta, la botta...voglio dire, ha sbattuto la faccia sulle rocce, e si è ferito alla bocca. Gli hanno dato un paio di punti... - ridacchiò insulsamente - ...non può neanche ridere... gli fa male... Comunque saremo in città tra poco più di un’ora, traffico permettendo, e lo porterò direttamente al pronto soccorso, così staremo ancora più tranquilli. Tengo il cellulare acceso, scriviti il numero, è lo zero tre tre sette quattro sei sei nove uno sette. Sì, nove uno sette. Chiamaci quando vuoi. Ciao, a dopo -
Ricambiai il saluto quasi senza accorgermene, mentre scarabocchiavo il numero di cellulare subito sotto a quello di Andrea, sullo stesso foglietto. Lo sapevo, lo sapevo, borbottavo vestendomi in fretta e furia, l’avevo detto che era una stupidaggine pericolosa. Meno male che pareva non esser successo niente di grave (voglio vedere Ricky, prima).
Quando parcheggiai la mia auto nel parcheggio semideserto dell’Ospedale Civile l’orologio digitale sul cruscotto segnava le 13 e 54, e la temperatura all’interno dell’abitacolo era rovente, nonostante avessi viaggiato da casa a lì con i finestrini completamente spalancati. Dal parco pubblico che confinava con il piazzale proveniva il brusìo ipnotico di migliaia di cicale e, sotto l’ombra rinfrescante degli alberi, stazionava un carretto dei gelati. Alcuni bambini scorrazzavano dietro un pallone, incuranti dell’afa. Il silenzio era quasi totale, a parte il furibondo frinire cicalesco e la radiolina del gelataio che diffondeva una tipica canzone estiva. Poche figure silenziose si dirigevano verso il cancello spalancato dell’Ospedale, ed io mi unii a loro. Le rare persone che incrociavo avevano gli occhi bassi e il viso corrucciato, come tutte le facce di chi esce da una visita ad un ricoverato, a meno che non si tratti di una madre che dà alla luce una nuova vita. L’aria condizionata sparata a mille nell’atrio dell’edificio mi attanagliò con un abbraccio gelido, facendomi istintivamente stringere il colletto della camicetta leggera. M’infilai in uno degli ascensori, dopo un’attesa snervante, e iniziai a salire verso il reparto dove sapevo ricoverata Sara. I miei compagni di salita erano un vecchio allampanato, con una vistosa benda ad un'orecchio, ed un giovane dottorino che tambureggiava nervosamente con una biro su una cartelletta. Dietro di loro, come una statua di granito, troneggiava un’infermiera alta e larga come un armadio, dall’espressione arcigna ed impenetrabile. “Rosi” era il nome sulla targhetta appuntato sull’ampio petto. Nel corridoio del reparto, fuori da una stanza la cui porta era socchiusa, mi accolsero con un saluto triste la madre, le sorelle ed un paio di zie di Sara. Ricambiai sottovoce il saluto e gli abbracci e attesi che mi mettessero al corrente:
- Sta ancora male, molto male - esordì con voce funerea la signora Todescan - i farmaci che le somministrano riescono a tenere bassa la temperatura solo per il tempo della loro efficacia, poi devono ricominciare da capo. E non è un buon segno... -
Io le strinsi un braccio in segno di conforto:
- E i dottori cosa dicono? -
- Non sanno bene neanche loro - intervenne Chiara, la sorella più grande - stanno facendo tutte le analisi, e per il momento prendono tempo...-
Le due zie, sorprendentemente somiglianti alla madre di Sara, si asciugarono le lacrime con dei minuscoli fazzolettini stretti nelle mani grassocce.
- Posso vederla? - chiesi. Le sorelle mi accompagnarono nella stanza, che era immersa nell’oscurità. Cinque dei sei letti erano vuoti, e nel sesto giaceva la sagoma immobile della mia amica. Il cattivo odore che aveva impregnato la stanza di casa Todescan durante la mia visita era presente anche lì, seppur celato sotto l'immancabile sentore di disinfettante di ogni ospedale. Dopo un po’ la vista si era abituata alla fioca luce che filtrava dalle tapparelle e il viso di Sara appariva smunto e lucido. Posai una mano sulla fronte della mia amica, che non diede segno di avvertirne il tocco, e la ritirai immediatamente, angosciata dal calore che sentivo irradiarsi. Restai immobile ed in silenzio ancora una manciata di minuti, poi l’ansia di avere notizie di Ricky (ormai dovevano essere arrivati in ospedale a loro volta) mi fece salutare tutti frettolosamente ed uscire nel chiarore un po’ accecante del corridoio. Raggiunsi il pianerottolo esterno al reparto e, in barba a tutte le norme di galateo sociale, accesi il cellulare formando il numero che mi aveva dato Gigi. Sbirciandolo, con una punta di disagio, dallo stesso foglietto su cui era scritto quello di Andrea
(dove diavolo sei? Mi stai trascurando?)
Lo squillo risuonò un paio di volte, poi una voce rispose:
- Sì, pronto? -
- Ah, Gigi, sono io, Giulia... dove siete? Ricky come sta? -
Una suora transitò lungo le scale, lanciandomi una profonda occhiata di disapprovazione.
- Ah, Giulia, ciao... siamo appena arrivati, sono giù al pronto soccorso... -
Il tono di voce, del tutto privo di qualunque sfumatura di buonumore, da uno che aveva sempre uno stupido risolino pronto, mi gelò il sangue. Qualcosa non andava.
-Dov’è Ricky? - insistetti incapace di stare ferma dall’agitazione - dove siete? -
L’altro rimase in silenzio per un attimo, come per cercare le parole adatte:
- Giulia... devi venire subito giù all’accettazione. Ricky... sembrava stare bene, per tutto il viaggio non pareva avere problemi, poi non appena siamo arrivati qu -
La voce si affievolì, poi sparì del tutto. Scossi il telefonino angosciata:
- Pronto, Gigi? Pronto?!? -
Mi spostai verso le ampie vetrate per cercare di beccare un po’ più di campo, ma il ricevitore restava ostinatamente muto.
-Maledizione - sbottai mentre riformavo il numero. Stavolta il telefonino nemmeno si degnò nemmeno di squillare. In panico, lo ficcai nella borsetta e mi precipitai giù per le scale a rotta di collo. Sbucai nell’atrio del pianterreno ad una velocità folle, pattinai in precario equilibrio come un personaggio dei cartoni animati per imboccare il corridoio giusto, sfiorai pericolosamente un paio di pazienti e di infermieri che si scansarono con un’agilità insospettata e finalmente arrivai al bancone dell’accettazione. Mi guardai in giro, e li vidi.
Gigi, ancora in abiti da montagna, pettinato ed abbronzato, e al suo fianco Ketty, la sua ragazza, con un’espressione bovina e stupida, erano a colloquio con un medico dall’aria severa. Li raggiunsi, giusto in tempo per sentire l’uomo in camice bianco dire:
- ...e verificare con la tac che non si tratti di qualcos’altro. Adesso come adesso è in un coma di secondo grado, un coma vigile, dai primi esami... -
Mentre la pelle mi si ghiacciava di paura, Gigi e la tipa si voltarono verso di me con un sorriso idiota e triste stampato sul volto (toglietevi quel sorriso, non siete bravi come lui) prendendo a cercare di spiegarmi le cose con calma, per non allarmarmi di più. Con il solo risultato di parlare all’unisono e quindi di confondermi completamente.
- Uno alla volta!!! - sbottai ad un volume di voce tale da far girare tutti i presenti nell’ampio salone. La ragazza si ammutolì, fissandomi con occhi enormi e sbarrati.
- E’ successo non appena arrivati qui - mi mise al corrente Gigi - è sceso con le sue gambe, si è avviato verso il pronto soccorso ed ha perso i sensi. Almeno così sembrava, adesso quel medico mi stava dicendo che è... oh merda, è entrato in coma. Che la botta che ha preso con la faccia sulla roccia è stata più forte di quello che sembrava, e che probabilmente si è formato a poco a poco un ristagno di sangue... -
- Un ematoma - cinguettò la sua ragazza come se fosse la risposta ad uno stupido quiz televisivo.
- ...un ematoma, sì - continuò lui - l’hanno subito ricoverato, e adesso devono fargli una tac per vederne l’entità e di conseguenza il da farsi... Merda, è stata una caduta così stupida, non eravamo neanche partiti, e io non stavo guardando ma Gianni Garzia mi ha detto che la corda si è spezzata. Così, di punto in bianco. Come cazzo può succedere, voglio dire, mi è anche costata un occhio della testa quell’attrezzatura da Panarotto Sport. Ah, ma lunedì mi sentono, non ho certo intenzione di fargliela passare liscia, a quelli sfigati, ci sono tutti gli estremi per una bella caus... -
- DOV'E'? - lo interruppi con una energia che li fece trasalire entrambi, come se li avessi colpiti.
- Non c’era neanche una stanza libera, come al solito - riprese il tipo - l’hanno messo nella stessa di Garzia, che ha un paio di costole rotte e la gamba in trazione... -
- Il numero!!! - esplosi con una nota stridula nella voce. Un bambino con una fasciatura sul polso si chinò a bisbigliare qualcosa all’orecchio della madre, che gli fece segno di tacere.
- Primo piano, stanza dodici - rispose Gigi, restando immobile a vedermi sfrecciare via. M’infilai come un lampo nella rampa di scale che portava ai piani superiori, per raggiungere la stanza prima possibile. Negli unici due letti occupati c’erano Gianni Garzia, che mi rivolse un breve sorriso sofferente, e il mio Ricky. Mi accostai al suo letto e lo guardai: aveva un’ampia fasciatura che gli copriva la testa e parte del viso, e teneva gli occhi chiusi, come se dormisse. Alcune spiacevoli macchie scure facevano bella mostra sulle garze intorno al mento. Era immobile, con le braccia lungo il corpo, come avevo sempre visto nei film. Gli presi delicatamente una mano. Era tiepida. Provai a stringerla, come per fargli sentire la mia presenza. Le sue dita rimasero inerti.
- Prendi una sedia - disse Gianni, indicandone una. La presi, accostandola al letto del mio ragazzo, cercando di fare meno rumore possibile, come se lui stesse veramente solo dormendo.
- Non so proprio come possa essere successo - si giustificò ancora l’altro, mentre cercava di sistemarsi meglio sul letto. Una smorfia di dolore gli attraversò il viso - era appena più sopra di me, quando l’ho visto passarmi accanto, come un’ombra. Non ho avuto neanche il tempo di afferrarmi a qualcosa che il peso di Ricky mi ha staccato dalla parete, trascinandomi giù. Se succedeva dieci minuti più tardi non eravamo qui a raccontarlo -
Io feci un sorriso assente, mentre pensavo velenosa: “TU lo stai raccontando”. Guardai il volto di Ricky, e lo trovai disteso e sereno. Sotto le palpebre, nessun movimento degli occhi. Dove sei, adesso, Ricky?
Restai accanto a lui per tutto il pomeriggio, accarezzandogli la fronte, tenendogli la mano (ogni tanto gli davo una strizzata più forte, quasi un pizzicotto, per cercare, assurdamente, di tirarlo fuori da quel suo sonno profondo), scambiando qualche parola di cortesia con l’altro paziente, bisbigliando a Ricky qualche frase che potesse ricordargli di noi due. Sempre come avevo visto fare nei film. Ma per la maggior parte del tempo lo osservai, scrutando ogni suo particolare, la piccola cicatrice appena sotto l’occhio destro, ricordo di una accesa partita di calcio ad un torneo canicolare di molte estati fa, la leggera peluria bionda che gli incorniciava la curva delle guance, la spirale perfetta del suo padiglione auricolare. Respirava impercettibilmente, e più di una volta mi ero ridestata da quel mio fissarlo col panico nel cuore perché mi dava l’idea che avesse smesso di farlo. La luce accecante del pomeriggio estivo si attenuò gradatamente e, dalla finestra che dava sul cortile interno, decine di visitatori si dirigevano a capo chino, come in una processione, verso i loro congiunti. Un paio di volte mi assentai dalla stanza, per fare un salto in bagno e per un caffè, poi tornavo a sedermi accanto a quel corpo immobile, a pregare, e a pregarlo mentalmente di darmi un segno di vita. Ma Ricky continuava a restarsene immobile, gli occhi sempre chiusi, perso in chissà quale meandro della proprio subconscio. Verso le sette un’infermiera minuta ma decisa fece capolino nella stanza, facendomi notare che di lì a poco ci sarebbe stato il giro di visite mediche e che forse era meglio togliere il disturbo. Con la morte nel cuore feci un’ultima carezza sulla testa immobile di Ricky e, dopo aver salutato Gianni Garzia che stava ascoltando della musica dalla cuffia in dotazione, uscii lentamente dalla stanza.
Mi sentivo persa. In quell’edificio zeppo di sofferenza e di tristi vicende lasciavo, in un colpo solo, la mia migliore amica e l’uomo che amavo. Costretta, da un'impietoso orario di visite, ad andarmene via, uscire nel mondo, da sola. L’idea di fare un salto a casa dei miei mi rasserenò per un breve istante, poi la consapevolezza che l’avrei fatto unicamente per compensare la mia angoscia mi fece cambiare idea. Mia madre non l’avrebbe più finita di fare decine di domande sullo stato di salute dei due ragazzi, e cos’hanno detto i medici, e come mai era successo, e perché non hai impedito a Ricky di andare in montagna...
Uscita dalle porte automatiche fui avvolta dal naturale tepore della serata estiva, ma non era caldo da star male, anzi una brezza piacevole portava alle mie narici un tenue profumo di gelsomino tardivo. Era una dolcissima serata, in barba a tutto. Raggiunsi il parcheggio esterno, arrivando alla mia macchina, e stavo per infilare le chiavi nella serratura quando alzando gli occhi lo vidi. Andrea era appoggiato ad un albero, su una piccola aiuola spartitraffico, e mi fissava. Non appena mi scorse si avvicinò, la faccia seria e compunta:
- Avevano provato a cercarti in biblioteca, prima di chiamarti a casa. Quell’amico del tuo ragazzo, intendo. Avrei voluto venire prima, ma avevo alcune faccende da sbrigare. Come vanno le cose? -
Io mi tuffai nel suo abbraccio affondando la faccia nell’ampio petto. Sapeva di spezie e di tè.
- E’ in coma - mormorai - sembrava stare bene e poi... e poi... -
Il sapore salato delle lacrime mi arrivò in bocca, e scossi la testa. Di tutte le persone che avrei voluto incontrare, comunque, era lui che desideravo. Mi tenne stretta a sé per un attimo che mi sembrò infinito e, a poco a poco, sentii che la mia voglia di esplodere in un pianto devastante si acquietava, scoprendomi calma e serena. Come se il contatto con il suo corpo instillasse in me un anestetico psichico, in grado di calmare il mio cuore affannato. Mi staccai a malincuore da lui, osservandolo nella luce rosea del tramonto. Visti dal di fuori potevano sembrare due innamorati che stessero facendo pace dopo una burrascosa discussione. Lui dette una sbirciata all’orologio:
- Dove stavi andando? - mi chiese.
- Pensavo di ... di andare a casa. E’ stata una giornata pesante...-
Lui si appoggiò alla fiancata della macchina, infilando le mani nelle tasche, in un gesto che conoscevo bene.
- Secondo me non è una buona idea che tu ti chiuda in casa a rimuginare su una cosa per la quale, purtroppo, non è in tuo potere far molto. E’ una bella serata, stiamo un po’ insieme, a parlare. O a stare zitti. Come ti va -
Io m’immaginai nel mio appartamento deserto e silenzioso, con i pensieri perennemente affollati dalle immagini di Sara e di Ricky. Sara nella semioscurità, arsa dalla febbre, in quella stanza ammorbata dal cattivo odore. Ricky con gli occhi chiusi, le braccia lungo i fianchi, il respiro quasi impercettibile. Mi vidi torcermi le mani nervosa, fumare troppe sigarette, far la spola insofferente tra il divano e la terrazza. E capii che era l’ultima cosa che desideravo, rinchiudermi a macerarmi di dolore.
- Ok, sto fuori un po’ - dissi con voce fioca. Il sorriso di Andrea si aprì come quello di un bambino che veda realizzarsi il più bello dei suoi desideri. Raggiungemmo la sua auto, e ci immettemmo nella strada deserta. Sul cruscotto ad ogni curva navigavano in qua e in là alcuni piccoli e delicati origami creati con carte dai tenui colori pastello.
- Io non ho ancora cenato - disse lui mentre guidava - farei un salto in pizzeria. Tu puoi farmi compagnia, non sei tenuta a prendere niente, se non ti va. Anche se... -
Io feci segno di sì con la testa. Non avevo proprio il minimo stimolo della fame, naturalmente, e difficilmente sarei riuscita a mangiare un boccone. Almeno credevo. Perché una volta seduti a tavola detti una scorsa distratta al menù, più che altro per darmi un contegno, e scoprii mio malgrado che avevo una fame incredibile.
Nel leggere i tipi di pizza elencati sentivo l’acquolina riempirmi la bocca, e lo stomaco lanciare rumori e brontolii quasi imbarazzanti. Andrea mi guardava e sorrideva. E io mi sentivo incomprensibilmente bene. Quando il cameriere arrivò per le ordinazioni scegliemmo una pizza ai quattro formaggi per lui e con il salamino (bello piccante!) per me. E due birre bionde grandi. Lui svolse il tovagliolo di carta facendo rotolare fuori le posate:
- Lo so che questi discorsi lasciano il tempo che trovano - mi disse guardandomi negli occhi. Il locale era tranquillo e deserto - ma lo stato di coma a volte è un mistero anche per i medici. Pare essere una difesa del corpo quando il problema è di una certa... complessità. Non gravità, bada bene, è diverso. Il cervello sembra che si metta in una specie di stand-by per... per autocurarsi. Per riparare al danno, insomma. E il più delle volte questa pratica riesce e i collegamenti, come dire, si ripristinano da soli. Come sta Ricky non è una condizione definitiva, è più che altro un passaggio, e non c’è nessun motivo per non pensare che possa venirne fuori -
Anche se erano i classici discorsi che chi non è coinvolto nel dramma fa a chi invece del dramma ne è protagonista, quelle parole in qualche maniera mi tranquillizzavano, facendomi vedere meno nero il futuro.
- Grazie, Andrea - risposi - mi sento meglio a parlare con te -
Lui sorrise, con il suo solito ed irresistibile sorriso triste:
- Io voglio che tu ti senta meglio. Anzi, vorrei che tu ti sentissi sempre bene. Farei di tutto per poterlo fare -
Mi concessi un lungo sorso di birra:
- Ma tu lo fai - ribattei - tutto quello che fai è importante, e io sono contenta di poter contare su... sulla tua... amicizia -
Un’ombra scura gli attraversò gli occhi, come una nuvola che passi velocemente davanti al sole:
-Io non sono tuo amico - continuò, e il suo tono adesso era secco, quasi duro - non posso esserlo. Se devo ascoltare quello che sento, io non posso decisamente chiamarmi amico tuo. Non sarei sincero -
-Lo so, Andrea, capisco quello che vuoi dire. Ma ne abbiamo già parlato, e questo è proprio il momento meno indicato per tirar di nuovo fuori...-
Lui alzò il boccale di birra in segno di brindisi, e il fiorire del sorriso dissipò completamente la nube scura nei suoi occhi:
- Hai ragione, dolce Giulia, sono imperdonabile. Ci casco sempre...-
In quel momento il cameriere servì due fumanti pizze e, non appena il delizioso profumo arrivò alle mie narici, mi ritrovai a sentirmi famelica e desiderosa di divorare quella pizza. Pensavo ovviamente che dopo quella giornata così devastante nemmeno una briciola sarebbe riuscita a scendermi nello stomaco, invece aggredii quella delizia con la grinta dei tempi migliori. Andrea tagliò un sottile triangolino di pizza e restò così, con la forchetta a mezz’aria e un sorrisetto birichino sul volto, ad osservarmi divertito.
- scu’a, evo embrarti oiibile - farfugliai mentre il sugo di pomodoro che mi colava sul mento. Deglutii vistosamente ripetendo - scusa, devo sembrarti orribile a mangiare in questo modo, ma sarà stata la tensione, o il fatto che sono digiuna da ieri sera, il punto è che io... io ho una fame micidiale! -
Lui rise divertito:
- E allora buon appetito, affamata Giulia, e gustati la tua pizza -
Finii la mia pizza ampiamente prima di lui, e mentre lo aspettavo e ascoltavo le cose che mi diceva feci fuori tutte e quattro le confezioni di grissini che c’erano sul nostro tavolo. Più due prelevate dal tavolo accanto. Finché restammo lì a parlare nessun avventore si fece vivo nel locale, e anche i camerieri sembrava avessero di meglio da fare in cucina. Alla fine pagammo il conto (lui volle pagare il conto) uscendo nella sera tiepida. Mi sentivo piena come un uovo, ma non ero a disagio, anzi un benessere quasi totale mi pervadeva, come se avessi bevuto cinque o sei boccali di birra, anziché uno solo. Parlammo ancora del più e del meno lungo la strada del ritorno, poi lui fermò l’auto sotto casa mia. Io cercai, con molta calma, le chiavi nel caos consueto della mia borsetta.
- Io sono innamorato di te - buttò lì quella frase con un candore incredibile. Così, di punto in bianco. Mi voltai a guardarlo: nella penombra dell’abitacolo mi fissava, e sorrideva sereno.
- Di te - ripeté. Io feci un lungo sospiro:
- Andrea, mi sembrano parole un po’ grosse, per come stanno le cose... - ribadii sulla difensiva.
- Perché? Perché ci conosciamo da poco? E cosa significa? Io so quello che mi succede, e so che nome ha. Amore. Amore per te -
In lontananza un semaforo lampeggiava ritmicamente sul giallo:
- Andrea, anche se non fosse successo quello che è successo oggi... cioè, io sto comunque con una persona, con la quale spero, con tutte le mie forze, di restare ancora a lungo...-
- Io non sto parlando di scelte né di mutamenti. Ti sto solo dicendo quello che causi in me. Così, perché tu lo sappia -
Io feci un segno di disappunto. Ero attratta da quei discorsi, come un ape da un fiore, ma la mia coscienza creava un’accanita resistenza perché non era né il momento né il caso di lasciarsi coinvolgere.
- Beh, è un po’ comodo dire così. Non credo che tu non ti renda conto del peso di questo tuo... mettere al corrente. E secondo te io cosa dovrei dire, “ ah, bene, sei innamorato di me, grazie dell’informazione”? -
Lui non fece una piega, restò lì a guardarmi come qualunque donna desidererebbe essere guardata da un uomo.
- Potresti giocare a carte scoperte. Ad esempio dirmi cosa provi tu... -
Ahia, ci siamo, pensai. Ero arrivata al punto in cui avrei dovuto scusarmi che era tardi, dargli la buonanotte e sgattaiolare fuori dalla macchina. O decidere di ballare.
E ballai.
- Sì, è vero, da quando ti ho conosciuto non mi sei indifferente - suonava come una dichiarazione di sconfitta totale - penso di poter dire che mi piaci, che sono attratta da te. E forse se le cose personali fossero messe in maniera diversa... sì, forse avremmo anche potuto provare a conoscerci meglio. E probabilmente avrebbe anche funzionato. Almeno per come mi fai stare tu. Ma le cose stanno come sappiamo, e quindi è inutile fare discorsi diversi. E’ inutile anche etichettare questa cosa, qualunque nome possa avere non ci porta da nessuna parte... -
Avrei voluto scappare via lontano mille miglia da lì. E nello stesso tempo che quei nostri discorsi durassero fino alla fine dei tempi. Bel casino, eh? Lui prese fra le dita uno degli origami del cruscotto e prese a svolgerne la carta:
- Beh, per me sarebbe comunque importante sapere come stanno le cose. Almeno per rendermi conto se ho fatto la figura dello scemo esagerato -
I suoi occhi e i suoi denti risplendevano ipnotici nel buio della via:
- Io posso accettare che ognuno abbia i suoi modi e i suoi tempi - ammisi - e quindi non sarebbe giusto da parte mia discutere o criticare quello che senti tu, anche se è così... così importante. Io credo comunque di avere tempi più normali... - notai un corrucciare di sopracciglia a quella mia frase - ...più normali per me. Non so come chiamare tutto questo, ma penso che un termine che ci vada abbastanza vicino sia “infatuazione” -
Lui restò in silenzio per un paio di secondi, pensieroso:
- Io sono “infatuata” di te - disse poi - suona un po’ tristanzuolo... -
Posai una mano sul suo avambraccio, e sentii i suoi muscoli guizzare sotto la pelle a quel contatto.
- Suona per quello che è, Andrea, mi dispiace. Come tu sei stato molto sincero con me, e questo l’ho apprezzato, per lo stesso motivo io lo sono con te. E questo è quello che mi sento di dirti. Ora. Stando così le cose. E adesso forse è meglio che ci dormiamo su -
Aprii la portiera e misi un piede a terra.
- Infatuata - ripeté lui tra sé e sé. Poi tornò a guardarmi, e il suo sguardo divenne immediatamente irresistibile e tentatore - non mi basta, Giulia. Ho bisogno di te. E tu di me. E lo sai, solo che non vuoi accettarlo, perché ti sembra ancora troppo strano. Ma succede, sai.  E non c’è niente di male, anzi, non c’è niente di più bello... -
Io mi sentivo straordinariamente attratta dal suo sguardo, dalle sue labbra, dal profumo che emanava il suo corpo. Avrei voluto che mi prendesse tra le braccia e mi portasse di sopra, nel mio letto, ad amarmi per tutta la notte. Avrei voluto svegliarmi il mattino dopo e guardarlo dormire al mio fianco, e non avere più tristezze e preoccupazioni e dolori, ma solo il suo amore, eterno e immenso e infinito. Chiusi gli occhi e il viso di Ricky avvolto dalle bende insanguinate mi riempì la mente. Li riaprii e lo guardai:
- Qualunque cosa diversa, o in più, farebbe del male a qualcuno - dissi a fatica - anche se ci fosse. Anche se ci fosse -
Lui non sembrava abbattuto dalla mia fermezza. Era totalmente sereno, e dolce, come al solito.
- C’è, vero? - sussurrò felice.
Io scesi dalla macchina, e mi chinai verso di lui, respirando l’aria della notte.
- C’è - risposi, a voce così bassa che probabilmente non mi udì neanche. Ma non aveva importanza, la risposta era per me. Salii le scale.


CAP. 16


La domenica arrancò faticosa, lenta in maniera esasperante, con l’odore di ospedale che sembrava aver riempito il mondo. Dedicai tutta la giornata in egual maniera a stare vicino a Ricky e a Sara, facendo la spola lungo scale affollate di visitatori e di infermieri. Ovviamente essendo un giorno di festa le corsie erano zeppe di congiunti e amici in visita, e anche le due stanze di Ricky e di Sara non facevano eccezione. Per cui dovetti dividerli con mamme, zie e parentado vario che, per tutto il giorno, vennero in processione a chiedere notizie e a bisbigliare intorno ai letti. I medici, se entrambi i casi, non sapevano che pesci pigliare. La tomografia assiale computerizzata 'sparata” dentro la testa di Ricky aveva sentenziato che non c’era nessuna massa a comprimere il cervello, né alcuna lesione degna di nota. Morale di tutto questo era il fatto assurdo (se non fosse così tragico) che il coma del mio amore non aveva ragione di esistere. Anzi, di più, non c’era nessuna spiegazione medica che giustificasse lo stato in cui versava Ricky. Il medico di turno, un tipo alto con i capelli tagliati a spazzola, ammise candidamente di non avere la più pallida idea del perché il ragazzo fosse in coma. Né tantomeno come farlo uscire. E sapere questo non mi rallegrò particolarmente. In più, il mal di testa che mi aveva accolto al mattino al risveglio (altro che notte di passione) mi tenne compagnia per tutta la giornata. Non avevo osato salire sulla bilancia, durante la sosta in bagno, per il timore non troppo infondato che la lancetta mi desse qualche altra cattiva notizia. Ci pensò comunque la cintura dei jeans stretta all’ultimo foro a farmi affrontare la giornata di pessimo umore.
Quando uscii la sera stava calando sulla città. Mi diressi come uno zombie verso il parcheggio delle auto. In giro non c’era nessuno, tantomeno Andrea. Prima di salire in macchina scrutai a lungo intorno nella speranza di vederlo apparire all’improvviso, ma non successe. Col cuore gonfio di tristezza e la testa che mi pulsava sordamente, me ne andai verso casa. Mentre guidavo, calde lacrime presero a scendermi copiose lungo le guance, e mi asciugai con il braccio, senza cercare di contrastarle. Piangevo per Ricky che forse stavo perdendo, per la mia amica Sara che non migliorava mai, piangevo per me stessa, perché mi sentivo così vulnerabile e indifesa, come se un incantesimo malvagio avesse deciso di fare terra bruciata intorno a me, spazzando via le persone che amavo e che erano la mia vita. Una punizione per qualcosa che forse avevo commesso, ma che non riuscivo ad identificare.


N.d.A.: Se avete avuto la voglia di spingervi fino a qui... complimenti, intanto... e poi... tenete duro. Ancora un capitolo e sapremo come andrà a finire. Sapremo... saprete. Io la fine la conosco da un bel po'. Eh eh...
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: marani