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Autore: Alkimia    30/05/2014    8 recensioni
[Post-TheWinterSoldier]
"La voce dell’uomo con lo scudo grida di nuovo quel nome. Dentro a un ricordo che sa di neve e paura, il Soldato sente lo sferragliare di un treno coprire le parole del suo amico, un addio che è la somma di tanti inverni.
Amico, il suo 'migliore amico', è questo che ha detto di essere. Se fosse vero, quello che al Soldato resta da provare è un sentimento che impiega qualche minuto a definire: vergogna.
Ma ciò che gli urla nella testa ora ha la voce della vendetta."

Steve ha promesso che ritroverà Bucky. Fury ha promesso che darà la caccia a ciò che è rimasto dell'Hydra. Entrambe le promesse richiedono l’aiuto dei pochi alleati di cui ci si può ancora fidare.
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta, Spoiler!
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Ninth bullet : Agguato
 
Every time we lie awake
after every hit we take
every feeling that I get
but I haven't missed you yet
 
NEW YORK

 
«Quello che stai facendo è sbagliato» dice Bruce.
Tony continua a masticare rumorosamente la manciata di orsetti gommosi alla frutta, alza la confezione davanti agli occhi e scuote la testa. «Lo so, non è un cibo molto salutare. Ma quando tornerà Pepper ritorneranno anche i menù macrobiotici e…»
«Non parlavo di questo»
«Oh»
«E comunque anche le caramelle sono una pessima idea. Sai con che cosa le fanno quelle robe?»
«Avevo tolto tutti gli orsetti verdi dal sacchetto, per delicatezza…»
«Gelatina di manzo, sono iperproteiche, fanno male ai ren… perché stiamo parlando degli orsetti di gomma?»
«Hai cominciato tu».
Bruce sospira, si toglie gli occhiali e si pinza la radice del naso tra l’indice e il pollice. Tony gli dà il tempo di contare fino a dieci: che non si dica che non è prudente, conosce bene la differenza tra il punzecchiare qualcuno e il farlo arrabbiare, o quanto meno l’ha imparata dal momento che il dottor Banner è diventato un inquilino della Stark Tower, il genere di inquilino che si rivela assai utile quando alla tua donna è stato iniettato un siero mortale che la fa assomigliare a un petardo inesploso in perenne sindrome premestruale.
Senza Bruce Banner lui non sarebbe mai riuscito ad aggiustare Pepper.
Senza Bruce Banner, inoltre, adesso lui non sarebbe sull’orlo di una conversazione noiosa che rischia di fargli perdere almeno venti minuti del suo preziosissimo tempo. Perché il caro dottore sa essere deliziosamente tedioso quando ci si mette e quando comincia a intavolare discussioni su cosa è giusto e cosa non lo è; persino più pedante del Capitano e ancora più sfiancante di Nick Fury.
«Orbene, dimmi, mio saggio amico, cosa turba la quiete dei tuoi pensieri? Esponi pure le tue argomentazioni»
«Dovrei avere una presentazione in power point da qualche parte».
Fuori, al di là delle finestre sbarrate, deve essere giorno; Tony non ricorda quando Jarvis gli ha fornito l’ultimo segnale orario, ma nel suo ufficio tiene le tende chiuse e le lampade sempre accese. La luce naturale del sole è mutevole, lo distrae e ultimamente ha molto a cui pensare e poca voglia di concentrarsi su quello che sta succedendo di fuori.
Bruce si rimette gli occhiali, poi li toglie di nuovo e li ripone nella tasca della camicia. Si crede più serio, convincente e minaccioso senza occhiali. Tony non ha cuore di dirgli che al momento è della stazza e del colore sbagliato per essere davvero convincente e minaccioso.
«No, seriamente, Tony. Non capisco cosa tu stia facendo e dove tu voglia arrivare, ma non mi piace»
«Ok, forse mettere un minuscolo rilevatore GPS nel manico dello scudo del nostro eroico Capitano è stato un po’ maniacale, te lo concedo».
Bruce fa un’espressione truce. Stazza e colorito sono comunque troppo poco allarmanti.
«Stai facendo l’accondiscendente? E comunque, non parlo solo di quello»
«Senti, sono un genio annoiato e lo hai visto anche tu in che stato era Captain-la-verità-rende-liberi. Ero preoccupato per lui. Non vi mai bene niente»
«E i documenti cifrati che hai tolto dal fascicolo e che Jarvis sta ancora decriptando… hai presente, quelli di cui non hai detto niente a nessuno?»
Tony fa una smorfia, con i denti stacca la testa a un orsetto alla fragola.
«Jarvis? Quale parte del questi mettili da parte non ti era chiara?».
La voce robotica vibra nella stanza. «Ogni cosa della sua enunciazione mi era chiara, signore. Ma l’account del dottor Banner ha un livello di accesso abbastanza alto da poter aprire i file che mi fa mettere da parte»
«E questo quando è stato deciso?»
«Quando il dottor Banner doveva avere accesso alle analisi della signorina Potts».
Touché. Tony alza le mani e mima un gesto di resa. Sposta la testa a destra e a sinistra per sgranchirsi il collo, affonda la mano nella bustina di caramelle.
«Se ti può consolare, Doc, quei file volevo farli leggere a Fury per primo»
Bruce scrolla le spalle. «Credo che Fury gradisca essere lasciato in pace a godersi la sua finta morte»   
Il padrone di casa fa un sorrisetto da satiro. Avere la possibilità di contraddire qualcuno è sempre soddisfacente, anche se si è dei geni e la altrui contraddizione fa parte del pacchetto.
«Jarvis, mostra al dottor Banner i documenti che hai decriptato».
Sul grande schermo a parete compaiono lunghe righe di caratteri che ruotano fino a comporre parole e frasi in inglese. E infine una foto.
Bruce si infila di nuovo gli occhiali, con gesti resi goffi dallo stupore. «Ma è…»
«Già» gongola Tony, dandosi una spinta e ruotando sulla sedia girevole.
E poi al placido e misurato dottor Banner scappa persino l’imprecazione. «Oh, cazzo».
Forse la Stark-influence lo ha contagiato più di quanto sia disposto ad ammettere.
 

GRAZ 

 
A volte capita che i ricordi tornino nel sonno, frammenti di incubo che sfuggono al setaccio dell’incoscienza e che rimangono impressi nella sua mente al risveglio.
È certo che gli capitasse anche quando era ancora tra le mani dell’HYDRA: nei lunghi periodi di stasi, quando il ghiaccio spegnava la sua mente e il suo corpo, schegge di memoria gli si piantavano nel cervello e poi scomparivano da sole. E se non accadeva ci avrebbero pensato loro, con il calore e l’elettricità.
A volte gli capita di sognare cose alle quali ha pensato, sulle quali ha provato a concentrarsi prima di prendere sonno, nelle poche ore in cui è riuscito a dormire da quando è cominciato il suo viaggio, e di sapere che sono vere.
Il Soldato si sveglia di colpo. Si mette a sedere in mezzo al letto, tenendo le palpebre chiuse per paura che l’immagine scivoli via, che non sia in grado di ricordarla.
È una strada, un cartello verde con le scritte bianche che indica l’ingresso in una località. In fondo alla strada c’è una palazzina con una recinzione di pali di ferro rettangolari tinteggiati di  uno smorto color ruggine. Da qualche parte, molto lontano, arriva l’odore del mare e del petrolio delle grandi città portuali.
Conosce quel posto, la via asfaltata che vi conduce, lo scenario desolante tutto attorno alla palazzina. Quello che gli sembra incredibilmente strano, che confonde l’onirico e il reale delle immagini che lo hanno sorpreso nel sonno, è una serie di scenari incoerenti e fuori posto, come interi piani del palazzo occupati da foreste o da spiagge in tempesta.
Un palazzo con dentro spazi aperti e selvaggi. Dovrebbe esserci un significato recondito o qualcosa del genere, ma il Soldato non si dà pena di cercarlo. Si scrolla di dosso le lenzuola - sui due piani del rifugio di caccia c’erano abbastanza stanze per tutti e tutti avevano bisogno di riposo - si alza in piedi e si guarda attorno, vorrebbe avere un pezzo di carta per poterci scrivere sopra, segnarsi il nome del posto sul cartello, le indicazioni per arrivarci, ha troppa paura che il sogno e il ricordo sfumino.
Esce dalla stanza che ha occupato, quella alla fine del corridoio del primo piano. In fondo alle scale c’è il bagliore di una luce accesa, dorato tra le pareti di legno. Quel posto sarà pure tranquillo e sicuro ma sembra una fottuta casetta per gli uccelli.
Scende i gradini di legno a due a due. Ha dormito vestito, senza neppure sfilarsi le scarpe, i suoi passi sono pesanti sul parquet.
La luce accesa proviene dall’ingresso che fa anche da sala da pranzo. Attorno al tavolo di legno verniciato è seduta la ragazza che era con Steve, se ne sta immobile su una sedia con una pistola appoggiata sul piano davanti a sé, gli occhi fissi sulla porta di ingresso, all’erta come se si aspettasse un’irruzione improvvisa.
Si volta quando sente i passi avvicinarsi, gli rivolge uno sguardo che è quasi di terrore. Alza il braccio e posa la mano accanto alla pistola ma non la impugna.
Il Soldato sa riconoscere cosa passa negli occhi delle persone, ne ha visti così tanti spegnersi e ha imparato a distinguere ogni tipo di emozione, perché quando le persone sono in punto di morte i loro occhi parlano, e lo fanno con un’eloquenza che è difficile da ignorare.
La ragazza lo guarda impaurita, ma non è di lui che ha paura - non solo di lui, almeno. È come se trovasse profondamente scomodo e sconcertante lo stare da sola con lui nella stessa stanza.
Sharon continua a guardarlo per qualche secondo, poi scuote piano la testa.
«Gli scuri sono chiusi» dice, butta fuori le parole di fretta, come se si stesse giustificando per qualcosa.
«Come?»
«Ho chiuso gli scuri, perché da fuori non si vedesse la luce. Ma qualcuno doveva restare alzato a fare la guardia e io ho dormito tutto il pomeriggio».
Anche tu sei un soldatino addestrato, vero? SHIELD, HYDRA, KGB, non importa, quando il potere riesce ad ammaestrarti ti comporterai sempre come se ci fosse una frusta pronta a colpirti per ogni tuo passo sbagliato.  
«Mi serve della carta, qualcosa per scrivere» dice il Soldato. 
Ora Sharon sembra solo perplessa. «Oh… c’è un block notes lì accanto al telefono, spero che la biro scriva».
Lui attraversa la stanza, trova quello che cercava e scrive tutte le indicazioni che riesce a ricordare. Alle sue spalle, sente lo sguardo della ragazza fisso su di sé.
«Forse so dove dobbiamo andare» conclude, alla fine, stringendo il foglio tra le dita.
«No, rallenta, da dove salta fuori questa? È stata un’illuminazione improvvisa o cosa?».
Lui scrolla le spalle, non gli sembra importante rispondere ma lei se lo aspetta. «Ho ricordato»
«Quindi è così che funziona? I ricordi ti compaiono all’improvviso?»
«Sì, quelli relativi ad alcuni dettagli sì»
«E quelli relativi a Steve?»
«Hanno cominciato a tornarmi in mente dopo Washington, e poi sono stato a quel museo, lo Smithsonian» borbotta il Soldato, sbrigativo. «Va’ a svegliare gli altri».
Sharon aggrotta le sopracciglia, piccata dall’aver ricevuto un ordine così secco.
«Se Barton mi trova accanto al suo letto mi spara» aggiunge lui, con un accenno di sorriso e una nota di ironia che appartengono tutti all’uomo che era, al ragazzo caduto dal treno.
La ragazza sospira. «Anche questo è vero…» mormora, voltandosi e dirigendosi verso le scale.
«Sharon». Al Soldato fa ancora uno strano effetto usare nomi, nomi propri di persone e non codici per i bersagli.
Lei si volta a guardarlo con durezza, ha già un piede sul gradino.
«Quando tutto questo sarà finito, potrai spararmi. Qualunque sia il motivo per cui ritieni di doverlo fare».
La ragazza ha un leggero sussulto, china il capo; è abbastanza intelligente da sapere che non occorre negare e neppure trovare qualche risposta. Annuisce con un cenno e sale svelta di sopra.
Il Soldato resta ad ascoltare gli scricchiolii dei passi sopra la sua testa e il rumore delle porte delle stanze che vengono aperte. E poi qualcosa, un’interferenza, altri scricchiolii ma provengono dalla parte sbagliata, dalla porta di ingresso, all’esterno sul legno del patio.
Per un attimo lui serra la mascella e resta immobile, i sensi tesi ad ascoltare a tentare di dare forma al pericolo che ha intuito.
Porca puttana.
Si riscuote e corre di sopra, è in cima alla scala quando una scarica di proiettili sfonda la porta e la riduce a una cornice di legno con al centro squarci fumanti.
Il primo a comparire in mezzo al corridoio è Steve, lo scudo già in mano, Sharon alle sue spalle. Sam si fionda fuori dalla stanza; dalla seconda porta sulla destra escono Natasha e Barton, insieme. Se non altro hanno già le armi in pugno.
Paura, adrenalina, pugni chiusi e labbra serrate. Per lui è tutto nuovo, non ha mai temuto per la sua vita, né ha avuto accanto gente che temeva per quella della persona che gli sta di fianco.
Dovrebbe temere per tutti loro, come quando era un sergente della Centosettesima e combatteva per ciò che era giusto e pregava che a fine giornata il campo di battaglia fosse asciutto del sangue dei suoi compagni?
Alza gli occhi, quelli di Steve sono puntati su di lui. Sì, se accadesse qualcosa a uno di loro né Bucky Barnes né il Soldato d’Inverno potrebbero perdonarselo.
È certo che sia un pensiero quasi blasfemo, ma per lui il sangue di quella gente vale più di tutto il sangue che ha versato e di tutto il sangue dei suoi nemici; giura con se stesso che ne usciranno tutti vivi, dovesse andare a uccidere a mani nude ognuno degli ostili che sta facendo irruzione al piano di sotto.
«Cosa cazzo è stato?» esclama Sam, togliendo la sicura alla pistola.
«Mi hanno trovato» risponde cupo il Soldato.
«Di sopra. Adesso».
È la voce di Barton, secca e decisa. Sembra sapere esattamente cosa fare. 
L’ex agente dello SHIELD afferra Natasha per una mano e con l’altra si assicura la faretra alla spalla. Dove finisce il corridoio c’è una botola che porta in soffitta.
Fanno appena in tempo a salire tutti attraverso la scala a pioli che due uomini vestiti di nero e con fucili ad alta precisione arrivano all’ingresso del corridoio.
Steve richiude la botola e infila un paletto nella maniglia, per assicurarne la chiusura.
«Ok. E adesso?» borbotta Sharon, prendendo fiato.
Non c’è tempo per pensare. Dal piano di sotto arrivano gli spari, i proiettili attraversano il pavimento di legno, portandosi dietro una scia di fumo e schegge. Il suono rimbomba contro il tetto a spiovente e dentro le loro teste.
Paura, adrenalina, pugni chiusi e labbra serrate. Ma ancora non c’è sangue, possono ancora farcela.
Si appiattiscono contro il muro mentre la pioggia di proiettili continua, senza tregua. Ora stanno sparando alla botola, per cercare di aprirla.
Steve rompe il vetro di una finestra con lo scudo e guarda di sotto. La casa sarà sicuramente circondata, i loro nemici avranno fucili con i mirini illuminati o visori a infrarossi. Artigli della Morte che si nascondono nel buio del bosco, il Soldato non pensa a tutte le volte che si è nascosto allo stesso modo, nello stesso buio: una mossa vigliacca e sleale, la strategia di chi pensa solo a raggiungere un obiettivo, di chi non ha altro di cui preoccuparsi, neppure la propria incolumità.
«Albero» dice Sam, indicando i rami spessi che sfiorano la finestra.
Sì, forse può reggere, ma se escono allo scoperto, quelli che circondano la casa li vedranno e loro saranno un bersaglio fin troppo facile in bilico sui rami.
Il Soldato valuta la distanza tra il davanzale e il suolo. Non c’è tempo di pensare.
«Copritemi» dice. Non è sicuro che lo abbiano sentito, non è sicuro che lo faranno. Non gli importa.
Salta, passando nel rettangolo della finestra sfondata con l’agilità di un tuffatore, disegnando una parabola perfetta. Tende il braccio di metallo in avanti, atterra sul palmo della mano artificiale che attutisce l’urto e poi rotola con una mezza capriola, ritrovandosi già in piedi, già con la pistola nella mano destra.
La perfezione della fiera che si avventa sulla preda, gesti puliti e precisi di chi ha fatto della caccia la sua unica ragion d’essere. Lo hanno reso così; è bene che per una volta tanto torni utile.
Paura, adrenalina, pugni chiusi e labbra serrate. E l’efficienza più totale di un’arma forgiata nel dolore e nel ghiaccio per essere nient’altro che morte.
Ma stavolta può essere qualcosa di più. Stavolta può essere salvezza, anche se dovesse significare sacrificio.
È troppo veloce perché i colpi che gli sparano addosso riescano a colpirlo. Gli uomini sul retro della casa sono in sei, una misera sfida per il Soldato d’Inverno. Escono dall’ombra, avvolti in tute di kevlar nere, credono di essere letali e inesorabili come la notte da cui sono giunti, ma non ne hanno la grazia, sono addestramento e crudeltà senza istinto. Sono carne e sangue e nervi e paura.
Il primo cade, ma non per mano del Soldato. Una freccia sibila un istante in mezzo alla cacofonia di colpi d’arma da fuoco e colpisce con precisione quasi miracolosa il lembo di pelle scoperto tra il collo e la linea della mascella, dove il tessuto della tuta rendeva l’uomo vulnerabile.
Con la prima morte, gli altri cinque si fanno meno spavaldi, meno sicuri.
Il Soldato spara in successione contro ognuno di loro, conta gli spari tra un battito e l’altro. I colpi sono più veloci del suo cuore e del pensiero delle vittime, come sempre.
Gli uomini in nero cadono gemendo.
È successo tutto in una manciata di istanti. Per lui il tempo delle battaglie non rallenta e non si ferma, per lui quei secondi scorrono con la loro naturale velocità e non c’è alcun dio a incombere su quelle vite in sospeso.
Se conosce bene la resistenza di quelle tute, sa di non averli uccisi, ma ora almeno gli altri possono uscire dalla soffitta senza che qualcuno gli spari addosso.
«Muovetevi, dannazione» urla. Sopra di lui le stelle sembrano anche loro fori di proiettile, la luna è un filo di luce ricurvo, quasi un difetto contro il nero del cielo.
Steve si lancia, atterrando sullo scudo e ruzzolando contro il terreno. Quando si rimette in piedi ha lo sguardo sgomento.
«Sarei venuto a darti una mano, se me ne avessi lasciato il tempo»
«Una mano? È forse un gioco di parole?». Gli concede la tregua di un istante di ironia, è qualcosa che ha a che fare con il loro passato, quello lontano e sepolto sotto la neve, quello che lui teme e Steve rimpiange, ma glielo deve e forse lo deve anche a se stesso.   
«Smettetela di fare i cazzoni. Sto per saltare!». Natasha si alza in piedi sul davanzale. Anche lei ha quella grazia ferina e bellissima al limite dell’umano, ma ancora più splendida perché proviene da un meraviglioso corpo di donna. Si lancia e tende le mani, il Soldato le afferra, lei le stringe per un attimo, il tempo di darsi la spinta e atterra alle sue spalle.
«Io questo non lo so fare, ok? Steve?»
Sharon è titubante, in bilico sul davanzale. Sam alle sue spalle urla qualcosa e le dà una spinta «Scusami, ma stanno per entrare dalla botola».
Steve l’afferra, indugia un attimo a stringerla prima di posarla delicatamente contro il terreno. La ragazza sembra uno scricciolo contro il petto del Capitano; ha mente affilata e mano ferma, ha lo sguardo che taglia, ma quando i suoi occhi guardano Steve sono solo gli occhi di una ragazza.
Il Soldato sente l’istinto di voltarsi a guardare Natasha, ma non lo fa.
«Ehi, io non mi faccio prendere in braccio da nessuno» borbotta Barton, in cima la davanzale, valutando la distanza per aggrapparsi ai rami dell’albero.
Dietro di loro volano i primi colpi.
«Sta’ zitto, Clint!» ringhia Sam, afferrandolo per un braccio e trascinandolo oltre la finestra.
Per un attimo l’agente Barton sembra volare nel vuoto, ma Sam salta subito dopo di lui, le ali del suo prodigioso dispositivo mandano bagliori nella notte, prende l’uomo dello SHIELD per la cintura e in un paio di secondi anche loro sono fuori.
Atterrano accanto a steve, sollevando polvere.
Gli aggressori entrati in soffitta si affacciano alla finestra e prendono la mira.
Steve è più veloce dei loro proiettili. Lancia lo scudo e questo vola preciso contro le canne dei fucili che spuntano oltre il telaio di legno. Gli spari brillano con un lampo di fuoco e i proiettili volano verso l’alto.
Loro hanno il tempo di indietreggiare, lasciare che il buio e i cespugli gli facciano da copertura. È solo un ripiego e neppure troppo efficace ma è quello che basta a riprendere fiato.
«Devono essercene almeno altri sei là dentro» dice Sam.
«Non faranno in tempo ad avvicinarsi» sussurra Natasha. Scatta tra i rami, pistola in pugno e sguardo da apocalisse, non ha alcun bisogno di chiedere agli altri di seguirla.
Sharon è la prima a lanciarsi dietro di lei.
Donne, guerriere, streghe… al Soldato viene in mente la neve e un quadrato di terra battuta tra mura altissime. Non sa neppure lui il perché.
«Le stai guardando il culo? Sei davvero prevedibile come credevo, allora». La voce di Barton lo strappa ai suoi pensieri.
Lui gli rivolge uno sguardo truce. «Grazie per avermi coperto, prima» sibila.
Fanno il giro della casa. Gli uomini in nero si stanno affrettando a uscire per inseguirli, non si aspettavano che loro gli sarebbero andati contro e il fattore sorpresa si rivela un vantaggio insperato.
Sharon e Natasha aprono il fuoco prima ancora che loro arrivino sulla soglia.
Tre dei sei uomini sono già morti quando il Soldato riesce a vedere l’interno della casa, gli altri tre si sono barricati dietro al tavolo ribaltato.
«Dodici uomini non sono pochi per darci la caccia?» chiede Sam, quando si acquattano accanto agli scalini del patio per tenersi fuori dalla linea di fuoco.
«Pensavano che sarei stato da solo» ipotizza il Soldato. E sarebbero stati pochi comunque.
«Chi diavolo li ha avvisati?»
«Christine Pierce»
«Allora è vero, non l’hai uccisa» sussurra Steve.
Il Soldato arriccia le labbra e fa un cenno negativo. Contento adesso?
«Facciamo fuori quei tre, poi diamo una svegliata a uno dei cinque che sono rimasti stesi sul retro e ci facciamo fare un quadro della situazione» dice Barton.
«Farli fuori non è difficile. Voi teneteli in casa, al resto penso io».
Di nuovo, il Soldato non aspetta risposte o cenni di assenso.
I tre uomini rimasti sono già morti, e lo sanno. Si vede da come se ne stanno nascosti dietro a quel tavolo ribaltato, nei colpi disperati che sparano alla cieca senza avere il coraggio di uscire dal loro riparo improvvisato.
Al Soldato basta tornare sul retro della casa, sfondare la finestra che dà nell’ingresso e sparare tre singoli colpi. Tutto quello che resta poi è silenzio e l’odore salato del sangue quando il fumo si disperde.
«Ricapitoliamo, abbiamo sette cadaveri e cinque tizi svenuti» borbotta Sharon, quando torna un istante di calma.
«Dai, come squadra non facciamo così schifo» le fa eco Sam, stropicciandosi il viso con le mani e guardando la casa con aria cupa. Lui è uno di quei soldati a cui non piace uccidere, proprio come Steve, il quale dal canto suo pensa di dovere alla morte dei nemici il rispetto di un silenzio composto e severo.
Per il Soldato la morte è solo morte, sono solo corpi che cadono ai suoi piedi o figure che compaiono un attimo nel cerchio del suo mirino, per sparire l’istante dopo. Ma ora che ha rammentato la differenza tra nemici e ad amici, rispetta il silenzio contrito di Steve, la mascella serrata di Sam. Si avvicina al suo amico di un tempo e vorrebbe sorridergli, come forse avrebbe fatto Bucky, ma il sorriso non gli arriva alle labbra.
«Troviamo qualcosa per legare quelli rimasti là dietro, prima che si riprendano» dice Natasha.
Diversi minuti e imprecazioni più tardi, gli uomini sono legati mani e piedi tra le radici di un grosso albero, e cominciano pian piano a rinvenire.
Il Soldato non chiede il permesso di fare a modo suo, è abituato ad agire e basta.
Sveglia uno degli aggressori a suon di spintoni, aspetta che torni lucido e poi ne sveglia un secondo. Il primo uomo impasta la bocca, forse non fa in tempo a rendersi conto di cosa è successo.
Il Soldato gli spara alla testa. Lo schizzo di sangue disegna una virgola nera e lucida nel buio, contro il tronco di un albero.
Lui sente un senso di nausea serrargli la gola. Uccidere non gli è mai piaciuto, neppure quando era sotto il controllo dell’HYDRA, solo che allora non aveva mai avuto occasione di pensarci. Nasconde il suo disagio dietro uno sguardo di acciaio.
«Questo era tanto per chiarire la misura di quanto facciamo sul serio» dice, chinandosi di fronte al secondo uomo e sollevandogli il mento con l’estremità della pistola per costringerlo a guardarlo in viso.
Il prigioniero si contrae, sbianca.
«Non sappiamo niente, io giura» bercia con voce stridula, in un inglese stentato. «Ci hanno mandati uomini contattati da Inghilterra, Glasgow».
Sembra essere la verità - anche se Glasgow non è propriamente in Inghilterra.
Dopo il disastro di Washington anche l’HYDRA avrà dovuto far disperdere i suoi uomini, con ogni probabilità quelli mandati quella notte sono solo mercenari e i mercenari si fanno pagare cari, ma non abbastanza da rischiare davvero la vita e di certo non abbastanza da essere informati su tutto.
«Glasgow è tutto quello che sai?» chiede il Soldato con una nota di pazienza nella voce, quasi di dolcezza rassicurante.
L’uomo annuisce con foga. «Glasgow. Glasgow, io giura. Io giura…».
Il suo interlocutore dondola anche lui la testa in un cenno di assenso. «Sì, ti credo». Gli batte una mano sulla spalla, poi si volta verso i suoi compagni.
«Non riusciremo a saperne di più da questi qui» dichiara Barton.
«Glasgow è giusta, come indicazione. Prima che ci aggredissero mi sono ricordato di una cosa»
«Quindi, che si fa?» domanda Steve.
Il Soldato china il capo. Si fa quello che si deve, pensa.
Non guardarmi in quel modo, ti prego.
Non guardarmi affatto. Non guardarmi come se volessi strapparmi di dosso questa maschera da assassino, perché dietro non troveresti altro che un volto uguale.
Impugna di nuovo la pistola, per un istante indugia a guardare il bagliore scuro del metallo cromato. Ma i colpi che risuonano non partono dalla sua arma.
Natasha spara ai quattro uomini rimasti. Un secondo per ogni proiettile e nessun ripensamento.
«Dobbiamo andarcene da qui. La Forestale ha appostamenti ovunque, qualcuno potrebbe aver sentito tutto questo casino» dice.
Ora il Soldato non evita di guardarla. Le lancia un’occhiata nella penombra e fa un impercettibile cenno con il capo: grazie. Lei non dà segno di averlo colto, ma lui è sicuro di sì.
 
 
 
 
 

 
 
 
Note
Nel mio headCanon, Bruce è quello che ha aiutato Tony ad “aggiustare” Pepper alla fine di Iron Man 3 ed è il motivo per cui nella scena post-titoli di coda del film lo si vede insieme a Tony.
Glasgow non è per niente in Inghilterra, è in Scozia, il mercenario avrebbe voluto dire “Regno Unito”. 
 
Citazione iniziale dal brano “I hate everything about you” dei Three Days Grace

 

   
 
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