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Autore: TheVirginQueen    01/06/2014    1 recensioni
Elisabeth e Robin si conoscono sin da bambini. Il loro rapporto muta, mantenendosi sempre forte dalla fanciullezza sino all'età adulta. Il regno dei Tudor è la cornice di questa storia, la regina Elisabetta I ne è la protagonista, la storia di un amore mai compiuto ne è l'intreccio.
Si tratta di uno scorcio sull'umanità di un grande personaggio storico ed un umile tentativo di delinearne il profilo psicologico, mettendo in rilievo gli aspetti della vita privata della protagonista, piuttosto che i fatti storici per cui ella è nota. L'amore tra Elisabeth e Duddley è un fatto storicamente accertato. Qui si prova a dargli forma, immaginando i sentimenti e le contraddizioni in cui esso è sbocciato e maturato.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Periodo Tudor/Inghilterra
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 L’arrivo del re a palazzo era un evento temuto e nel contempo agognato dalla piccola principessa. Henry non mancava mai di portare dei doni ai suoi figli.
 
La scorsa volta Elisabeth aveva ricevuto un cavallo, che da qualche tempo aveva imparato a montare, anche se purtroppo non la lasciavano giocare alla giostra, come poteva (anzi doveva) fare Robert ogni giorno.
 
In genere veniva vestita e pettinata in modo più elegante quando c’era il re a palazzo. Veniva esentata dai suoi impegni scolastici e le veniva permesso di assistere alle giostre che erano indette in onore del padre, agli spettacoli dei buffoni di corte e talvolta le veniva permesso di mangiare, in disparte come si conviene ad una bambina, le portate degli opulenti banchetti paterni.
 
In quell’occasione il re si sentiva particolarmente generoso e aveva indetto grandi festeggiamenti che celebrassero Catherine Parr, la sua sesta moglie, terza a portare il nome di Catherine ad avere il titolo di regina sotto il suo regno.
 
Catherine, al contrario dell’omonima che l’aveva preceduta, non era giovanissima. Aveva passato i trent’anni, ma la sua bellezza non era ancora sfiorita. Da giovane aveva perso il marito, morto in circostanze tragiche e da quando Elisabeth ricordasse era sempre stata alla corte di Londra, ricoprendo un posto importante tra le dame del regno.
 
La bimba l’aveva osservata attraverso le finestre della sua stanza scendere dal grosso cavallo baio sul quale montava come un uomo e porgere la mano al re che era stato aiutato a scendere dalla servitù.
 
Seppur nella cieca ostilità che la bambina avvertiva nei confronti dell’ennesima sciagurata che occupava il ruolo di sua madre accanto all’irraggiungibile padre, la principessa riconosceva in Catherine una grande bellezza ed un immensa eleganza e in quel momento, in cuor suo le invidiava il posto nel cuore del padre. Posto che lei non aveva mai saputo conquistare.
 
L’indomani il re aveva chiamato a raccolta i tre figli per presentare loro la futura regina. Ancora albeggiava quando la piccola Elsabeth fu svegliata dalle sue dame. La lavarono, le raccolsero parte dei lunghi capelli ramati in una treccia ordinata sulla nuca, lasciando gli altri sciolti lungo la schiena.
 
La scelta dell’abito fu come al solito un dramma per la bambina, che amava provarli tutti prima di decidere. Quel giorno ne scelse uno di un carico color oliva, con uno scollo più pronunciato dei soliti, scollo che lei ovviamente non riempiva e che si preoccupò di coprire con un’elegante catena d’oro e pietre preziose, regalo del padre, che da sola sarebbe bastata a sfamare un intero villaggio.
 
Entrando nella grande sala in cui sedeva il robusto padre con la donna che ne sarebbe divenuta la moglie, Elisabeth provò quel misto di repulsione e attrazione che aveva ogni volta che vedeva suo padre.
 
In quanto figlia della “strega” come il re amava definire la moglie a cui aveva fatto tagliare il collo qualche anno prima, Elisabeth si era da sempre considerata un peso per il padre. Se fosse morta da bambina, come parecchi suoi fratelli, avuti dalle diverse mogli, non sarebbe stata là a ricordargli quella triste vicenda. Pur non conoscendo, sia per la giovane età, che per il riserbo della sua piccola corte di campagna, i particolari della vicenda, la bambina avvertiva un’ostilità perenne negli occhi duri del re, quando la guardavano.
 
Il re, brillante e ciarliero con le donne e gli uomini di corte era raramente tenero con i suoi figli. Li ricopriva d’oro, ma per il resto non sapeva che farsene finché erano bambini, se non prometterli in matrimonio a qualche sovrano d’Europa.
 
Con Maria il re parlava volentieri. Lei era già adulta, ed era una giovane donna assai colta e saggia, seppur eccessivamente compunta per i gusti strampalati del sovrano. Il piccolo Edward era riverito come futuro re d’Inghilterra e tanto bastava per farne il preferito di Henry.
 
Lei sola era la figlia dell’errore. Il matrimonio di Henry con Anna era stato la causa dello scisma dalla Chiesa cattolica e lei ne era la testimonianza incarnata. In circostanze di indecisione religiosa il popolo era molto più ingovernabile e ovviamente lo stesso papa, coadiuvato dai sovrani cattolici d’Europa non vedeva di buon occhio quella separazione dalla madre Chiesa.
 
Ma forse più che i fatti politici che seguirono al matrimonio, la vera ragione per cui Elisabeth avvertiva quell’ostilità non espressa, ma tangibile come un muro di piombo, tra sé e il padre erano nell’irrazionalità con cui il sovrano aveva condotto tutta la vicenda. Irrazionalità di cui quotidianamente si pentiva, seppur tacitamente nel suo cuore. La strana ragazzina che tanto gli somigliava, ricordava a lui il tenero collo dell’unica donna che avesse mai amato e che  per suo stesso ordine fu fatto tagliare sette anni prima.
 
Allo stesso modo il corpulento padre e la mano gigantesca che, quel giorno, ancora una volta era chiamata a baciare inchinandosi, ricordavano ad Elisabeth quanto la sua sorte di figlia illegittima fosse spregevole e quanto fosse stato meglio nascere povera e libera da tutte quelle responsabilità che per il solo fatto di essere nata le venivano additate.
 
La ragazza preceduta dalla sorellastra e seguita dal bimbetto Edward, condotto su una portantina da due uomini di corte, porse i suoi ossequiosi saluti al re e alla futura regina sua promessa sposa.
 
La pomposità di quei cerimoniali non faceva altro che allontanarla dall’umanità paterna. Elisabeth temeva e rispettava il sovrano, ma le sembrava di non aver mai conosciuto il padre. Non ne ricordava la tenerezza, né l’orgoglio verso di lei negli occhi stanchi di vecchio. La mano, che si era spesso sporta per essere baciata si era raramente alzata per accarezzare e la voce profonda e tonante, si era solo di rado fatta dolce e carezzevole per lei. I suoi doni e la ricca opulenza nella quale cresceva erano le uniche cose che le rammentavano di essere figlia del re.
 
Dopo la colazione si svolse una giostra che la principessa guardò assieme alla sorellastra, al re e alla futura matrigna. Il re amava giostrare e si diceva che in giovane età fosse stato un cavallerizzo provetto. Ora appesantito dal peso, dall’età e dagli acciacchi che ne indebolivano le gonfie gambe, aveva rinunciato al suo passatempo preferito. Amava osservare gli altri giostrare e in quell’occasione la sfida vera e propria era aperta da una sfida tra bambini.
 
Sotto l’elmo colpito dal sole, la giovane principessa riconobbe il suo amico, il quale con maestria brandiva la lancia e governava il cavallo come un adulto. Solo lui poteva capire il suo stato d’animo perché anche lui, fin da piccolissimo era stato testimone degli intrecci di corte di cui amava occuparsi l’intrigante padre.
 
A volte nelle ore trascorse sugli alberi o nei prati del parco, Elisabeth e Robin parlavano tra loro di un mondo diverso, in cui loro erano poveri e insignificanti sudditi ed erano liberi da tutto ciò che comportava essere la figlia illegittima di un re e il figlio cadetto di un uomo di corte, amante di intrighi e giochi di potere.
 
Alla giostra seguì un ricco banchetto con molte portate e in seguito al banchetto un’orchestra allietò la corte e invitò al ballo dame e cavalieri. Il re stesso, per quanto la sua mole glielo consentisse si scatenò nelle danze con la futura regina.
 
I ragazzi di corte osservavano gli adulti nascosti tra le tende di velluto rosse e pesanti e i magnifici arazzi appesi al muro della stanza. Così anche Elisabeth meditava tra sé e sé ed osservava attentamente i passi dei danzatori, per tenerli a mente. Era stata educata alla danza sin da quando si reggeva sulle sue gambe ed era un’attività che le riusciva piuttosto bene e la divertiva parecchio. Raramente però si esibiva in situazioni conviviali di adulti.
 
Era sovrappensiero quando il piccolo Robert le si parò davanti e con un inchino la invitò a danzare. Il ragazzo era solito a queste spacconate in presenza del re che erano generalmente accolte di buon grado da suo padre John.
 
La bambina afferrò la mano salda del suo amico e si ritrovò senza accorgersene al centro della stanza. I due ragazzi danzavano con una maestria superiore alla maggior parte degli adulti presenti in quella stanza e forse seconda solo a quella del re nei suoi tempi d’oro, parecchi anni prima. Come se fossero parte di un unico corpo, i due bambini riuscivano a prevedere l’una le mosse dell’altre e ad accordare giri, salti e piroette dal solo sguardo.
 
La canzone procedeva veloce e i due non si resero conto di essere rimasti gli unici a danzare. Avevano tutti gli occhi puntati addosso, compresi quelli del re, della futura regina e dell’invidiosa principessa Maria. Ma di questo a loro poco importava, c’erano solo loro due e la loro danza ed essa sarebbe potuta essere ugualmente non nel palazzo del potere, ma in una piazza, i suonatori sarebbero potuti essere zingari e i loro vestiti ricchi di broccato e d’oro trasformarsi in cenci, ed essa sarebbe stata ugualmente la loro stessa perfetta danza in cui essi non erano null’altro che loro stessi .
 
L’applauso che scrosciante partì al termine della canzone e il sorriso stranamente tenero e compiaciuto del re riportarono i due giovani ballerini alla realtà. Essi fecero un inchino. La musica ricominciò e senza che ci fosse il tempo per accorgersene gli adulti si erano già dimenticati di loro.
 
Robin afferrò di nuovo la sua amica per mano e correndo la condusse via dalla stanza, lontana dal clamore della corte, in una sala vuota con le pareti di legno e grosse finestre di vetro colorato. Il sole basso all’orizzonte, all’ora del tramonto, investiva quella stanza di una luce forte, rosso fuoco che illuminava il volto dei due ragazzi in maniera soprannaturale.
 
Robin frugò nelle sue tasche e ne tirò fuori una lunga e sottile catena d’oro, al termine della quale vi era un ciondolo ovale, un poco concavo e dorato anch’esso, con delle pietre vermiglie incastonate. Era un porta ritratto e aprendolo con le mani tremanti la bambina ne scorse il ritratto di lui, con l’espressione seria e lo sguardo fiero come quello di un adulto.
 
“Vorrei chiedere la tua mano al re” disse il bambino con aria convinta “accetteresti di essere mia moglie?…insomma…tra qualche anno, quando saremo grandi” disse ciò a perdifiato, come per volersi liberare di un discorso ripetuto tra sé e sé migliaia di volte e finalmente venuto fuori più facilmente e naturalmente del previsto.
 
Elisabeth lo osservava con la bocca spalancata e gli occhi sgranati. Di tutte le bizzarrie a cui lui l’aveva abituata questa era davvero la più sensazionale. Allo stesso tempo un volo di colombe le portò il cuore in alto, oltre le nuvole.
 
Lei non ebbe il tempo di rispondere alla precoce richiesta di matrimonio che nella stanza irruppe Maria, sbraitando e ansimando. Con calma tacita Robin chiuse la mano di Elisabeth attorno al gioiello e lei rinvenuta ebbe il tempo di nasconderlo nelle pieghe dell’abito senza essere scorta dalla sorella.
 
“Cosa fate qui da soli?” urlò acidamente la ragazza. “Giochiamo al matrimonio” rispose il ragazzino sardonico, e gettata un’ultima occhiata complice alla sua neo promessa sposa e fatto l’inchino di circostanza abbandonò la stanza fischiettando, lasciando le due sorelle da sole.
   
 
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