Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Shusei    01/06/2014    1 recensioni
Il migliore amico d’infanzia e ragazzo di Eren al liceo, Armin, muore in un incidente automobilistico in cui Eren era al volante. Incapace di evitare di incolparsi, la vita stessa diventa un’agonia per Eren e lui si rivolge ai metodi peggiori per affrontarlo. Alla fine, incontra uno studente del college chiamato Levi che sembra aver capito tutto, solo per scoprire che loro hanno più cose in comune di quante pensassero. Moderno! AU.
inoltre, Levi ha una moto perché era decisamente necessario.
Genere: Angst, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Armin, Arlart, Eren, Jaeger, Irvin, Smith
Note: AU, Lemon, Traduzione | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Note della traduttrice:
Il mio ritardo nel pubblicare è a dir poco vergognoso, chiedo venia, la scuola ha prosciugato ogni mia energia e sono riuscita ad aggiornare solo ora.
Passando al capitolo nuovo vi posso solo anticipare, per vostra grande gioia, che vede per la prima volta Levi. Spero che gradirete i cambiamenti in positivo che ci saranno. Ok, ora la smetto di sproloquiare e vi lascio alla lettura, un bacio :*
Sommario:
È l’anniversario della morte di Armin, e Eren visita la sua bara.
 
Capitolo 3: Anniversario e Richieste di lavoro
Oggi è l’anniversario della morte di Armin, e immagino si potrebbe dire che è un punto di svolta, nell’anniversario della morte mi ricordo di essere vivo. Trovo quasi impossibile credere che sia già passato un anno dall’ultima volta che ho visto il mio ragazzo vivo. La vita era passata in una confusione nebulosa di dolore e isolazione, e sebbene lo avessi già capito per tutto questo tempo, non sembrava mai reale. Ogni tanto la realtà ti colpisce in faccia di brutto; questo era uno di questi momenti. È un momento determinante per me- sono spezzato, abbattuto, sconfitto. Ma sono vivo. Inspiro ed espiro tutt’ora e mi scorre ancora sangue nelle vene, non importa quante volte lo avessi versato in camera mia di notte.
Avevo deciso che avrei visitato la tomba di Armin oggi, che è dove mi trovo ora. Prima di arrivare qui, mi ero fermato a un piccolo negozio di fiori e ho comprato il mazzo più grande che potessi permettermi (un assortimento di diversi colori, visto che Armin amava tutto ciò che era colorato e non aveva un colore preferito). Erano poggiati in macchina di fianco a me durante il tragitto verso il cimitero e li ho raccolti con gentilezza tra le mie braccia quando sono arrivato per poi uscire dalla macchina dopo aver trovato un parcheggio decente. Raramente vado da qualche parte ed è strano respirare aria fresca attorno a me. È allora che realizzo che il mondo non è finito con la morte di Armin; continua nonostante tutto. Le persone sono andate avanti con la loro vita nell’ultimo anno, e io sono rimasto bloccato nello stesso punto. Sono allarmato dai miei stessi pensieri; non avevo pensato così razionalmente da un bel pezzo.
Percorsi la strada verso la tomba di Armin a memoria, e cessai il mio avanzare quando trovai la lapide che aveva il nome “Armin Arlet” inciso sopra. Il senso di colpa mi colpsce come un fulmine, è la prima volta che lo visito dopo il suo funerale. Ero così perso nel mio mondo di disperazione che avevo mancato di onorare la sua memoria almeno per una volta e sento le lacrime formarsi nei miei occhi mentre fisso la lapide; Armin Arlet, 1995-2011. Mi lascio cadere sulle ginocchia, accogliendo la durezza delle date sulla roccia; sedici anni di vita non sono niente quando dovresti arrivare a compierne circa un centinaio. Lascio che le mie lacrime scivolino sulle mie guance mentre poggio il mazzo di fiori sulla tomba. Guardo in su e controllo lo spazio attorno a me; non c’è nessun altro in giro e posso parlare.
“Mi manchi così tanto, Armin. La vita è stata un inferno da quando te ne sei andato. Spero tu possa perdonarmi per quello che ho fatto, e spero che quando morirò tu mi starai aspettando a braccia aperte. Lo so di non meritarlo minimamente, ma spero che mi accetterai comunque.”
Sentivo la presenza di Armin attorno a me; non posso dire se fosse una sensazione leggittima o solo quello che la mia mente voleva provare, ma in entrambi i casi, era rassicurante. Era come se Armin mi dicesse che mi perdonava, il che sperai fosse vero. Per la prima volta in un anno, sento una specie di calma dentro di me senza dovermi fare del male per sentirla. Le mie lacrime erano tranquille e non bruschi singhiozzi che mi avevano devastato il corpo così tante volte dalla morte di Armin. Tutto attorno a me era tranquillo; faceva freddo per essere una giornata estiva e non mi sentivo per niente accaldato con la mia felpa blu mare. Inspirai profondamente, riempedo i polmoni dell’aria attorno a me.
Non dico che sono pronto per guarire e che sto per iniziare un percorso di attiva ricerca di salvezza, perché sarebbe una bugia. I cambiamenti non avvengono da un giorno all’altro e anche se volessi cambiare il mio stile di vita, sarebbe molto più difficile che dire “adesso basta”. Solo perché sentivo che Armin mi aveva sempre perdonato per la sua stessa dipartita non significa che possa magicamente smettere di sentirmi come se fosse solo colpa mia. Non posso riversare un anno di crolli emotivi in un solo giorno di comprensione, e sarebbe stupido pensarlo. Per non parlare del fatto che io semplicemente non voglio smettere di tagliarmi. È una dipendenza, proprio come gli eroinomani o i cocainomani o gli alcolizzati. Solo perché l’autolesionismo è generalmente meno accettabile questo non vuol dire che gli effetti collaterali non siano forti come gli altri; la società sceglie semplicemente di ignorare i problemi perché fanno sentire le persone a disagio. E così, sono dipendente. Lo so. L’ho saputo dalla prima volta che ho effettivamente preso del tempo per esaminare le mie braccia coperte di innumerevoli cicatrici in diversi stati di guarigione e cicatrizzazione. Non ho alcun motivo di smetterla di distruggermi solo perché so di essere vivo. Sto sprecando la mia vita e ne sono del tutto consapevole. Le persone tendono a pensare che coloro che si fanno del male non siano consapevoli del tutto di quello che stanno facendo, e questa idea è del tutto una cagata. Ma forse, in onore della memoria di Armin, potrei fare qualcosa di più di stare sempre seduto da solo in camera mia. Mamma mi sta chiedendo da un po’ di tempo se avevo considerato di cercarmi un lavoro, avevo sempre ignorato le sue suppliche e evitato di rispondere alla domanda. Le interazioni sociali non erano state molto buone nell’ultimo anno, il che era colpa mia, lo capisco. Ma ho pochi soldi e devo pagarmi la benzina. Senza contare che anche le pillole costano denaro. Mi faccio un appunto mentale di fare il consapevole sforzo di fare un paio di domande di lavoro. Posso almeno fare questo, si spera.
Una brezza leggera mi si agita intorno e noto che avevo smesso di piangere, lasciandomi scie di lacrime asciutte sul viso. È strano sentirsi di nuovo vivi, e mi assicuro di godermi il momento, perchè non sono tanto stupido da credere che questa calma durerà molto a lungo. È come se visitare la tomba di Armin mi avesse portato una sorta di apertura che non avevo mai accolto nella mia mente. Una volta tornato a casa, sarei ancora stato nella stessa situazione di prima. Sarei stato ancora solo nella mia lotta per trovare anche solo la motivazione per scendere dal letto, e non potevo cambiare tutto da solo. Ero caduto, e avrei avuto bisogno di qualcuno che mi aiutasse a stare in piedi.
Decisi che non mi sarei tagliato (o intrapreso alcuna forma di autolesionismo, se è per questo) per oggi; mi era mancato autocontrollo in questi giorni ma volevo passare almeno oggi come se potessi avere la sensazione di poter onorare la memoria di Armin, anche solo lontanamente. Nonostante la motivazione, sentivo ancora una piccola bolla di ansia in me al pensiero che avrei dovuto evitare per il resto della giornata di procurarmi dolore. Ma ero determinato a portare a termine almeno una cosa.
Determinato. Huh. Non avevo pensato al concetto di determinazione da un sacco di tempo. Quando io e Armin eravamo piccoli, io ero pieno di determinazione. Avrei portato a termine qualunque cosa mi mettevo in testa, soprattutto quando avevo Armin al mio fianco ad aiutarmi. Sarei andato di mia spontanea volontà nelle profondità dell’inferno solo per raggiungere i miei obbiettivi. La mia determinazione era il mio tratto del carattere più spiccato, e ora era praticamente inesistente se non per la promessa a me stesso di non farmi del male per oggi. Dopo tutte le volte che avevo detto ad Armin di non arrendersi mai qualunque cosa accada, avevo ipocritamente  abbandonato il mio stesso consiglio. Perché ora mi mancava la volontà di riuscirci. Sarebbe troppo faticoso e non me ne fotteva abbastanza.
Sono stato davvero una disgrazia per Armin; ma lo avevo saputo da sempre. Ero andato troppo in là, la mia tomba era già stata scavata ora. Non appena alzai la mia testa per buttare di nuovo un occhio alla lapide piazzata nel terreno di fronte a me, sussurrai, “Mi dispiace, Armin.”
Perché ero dispiaciuto. Sono ancora dispiaciuto. Mi dispiace di non averti potuto salvare, e anzi di aver causato la tua morte. Mi dispiace di non essere riuscito a fare niente di me stesso dopo che sei morto come avresti voluto tu. Mi dispiace di non essere riuscito a lasciarmi alle spalle il senso di colpa che consuma il mio essere. Mi dispiace di non essere mai venuto una singola volta a visitare la tua tomba nella durata di un anno. Mi dispiace che non sei più parte di questo mondo. Ti amo ancora, e prego che anche tu mi ami ancora, ovunque tu sia.
Ho passato all’incirca due ore e mezza inginocchiato di fronte alla tomba di Armin, e i miei arti erano rigidi quando mi sono finalmente alzato. Dopo essermi sgranchito, buttai un’altra volta lo sguardo sulla sua tomba prima di girarmi. Non appena mi girai, dissi a voce alta, “Ciao per ora, Armin. Ti prometto che tornerò a trovarti più spesso ora, e mi assicurerò di portarti sempre dei fiori.”
Camminai con calma verso la macchina, non volevo veramente tornare a casa. Stare in casa mi avrebbe solo fatto ridiscendere nel mio stato di rabbia immotivata. Quando la macchina comparve nella mia visuale, notai che c’era una moto nera parcheggiata a breve distanza da essa. Il cimitero in cui è sepolto Armin è piccolo, così ci sono raramente più di un paio di persone in visita, e la moto era l’unico altro mezzo motorizzato nei dintorni.
Quando mi avvicinai gradualmente alla macchina, vidi un uomo avvicinarsi alla moto. Indossava una giacca scura di jeans e pelle (conforme allo stereotipo del motociclista, ma non era uno di quelli che portavano il nome di un gruppo in bella vista sul retro o adornato da una serie di toppe come molte sembravano essere), e non appena eliminò la distanza dalla sua moto, afferrò il casco che aveva riposto da qualche parte nella moto. Il casco era di un nero scintillante, l’uomo se lo infilò per poi salire sulla moto. Prima che se lo mettesse, avevo visto i suoi capelli sistemati disordinatamente ai lati della sua testa. Pensai che sembrava un po’ piccolo, ma visto che ero piuttosto lontano, mi immaginai che fosse solo l’angolatura della mia visuale. Era impossibile dire quanti anni avesse; per quello che ne sapevo poteva averne quaranta.
Poco dopo lo vidi azionare il motore e andare via, mi ritrovai a chiedermi chi aveva visitato; quale dei suoi cari gli era stato portato via. Feci spalucce al pensiero, sapevo che era una domanda inutile, visto che era un passante a caso probabilmente non lo avrei mai più rivisto.
Salii in macchina e me ne andai, viaggiando riluttante sulla strada che mi avrebbe portato a casa.
-x-
Mamma stava preparando la cene quando tornai. Si girò dai fornelli per salutarmi e chiedermi, “Hai fame?”
“No.” La mia isposta era automatica; accettavo raramente il cibo che mi veniva offerto. Ero cresciuto con l’abitudine di mangiare un solo piccolo pasto al giorno, e anche quello era forzato. La mia carenza di nutrizione mi rendeva sempre leggermente debole, ma visto che non svolgevo alcuna attività fisica faticosa non importava molto. Sembrava un po’ delusa ma sicuramente non era per niente sorpresa. Probabilmente pensò che avevo già mangiato fuori, e se me lo avesse chiesto non avrei detto di no.
Non vedevo Mikasa, ma non era una cosa nuova. Era seduta in camera sua, probabilmente a fissare la TV o qualcosa del genere. Usciva ancora a cenare, comunque. Non andavo più a trovarla in camera sua, e visto che non cenavo mai con loro, non la vedevo molto. Dal momento che mi era rimasto un po’ del mio buon umore, decisi di bussare alla sua porta. Entrai non appena sentii un “entra pure.” dall’interno. Dalla sorpresa sul suo volto, dedussi che pensava che fosse stata mamma a bussare.
“Hey, Eren.” Disse con il tono lento e distaccato che aveva sviluppato lungo il corso di quest’ultimo anno. Capii che probabilmente avremmo dovuto cercare di confortarci l’un l’altro invece che scegliere entrambi di isolarci; forse saremmo in una condizione differente in questo momento. Ancora un’altra scelta di cui pentirmi, immagino. Era seduta con le gambe incrociate sul letto, e si sentivano delle voci propagarsi dalla televisione posizioneta sul muro opposto al letto. La sua trapunta era rossa, come i suoi cuscini. Il rosso era sempre stato il suo colore preferito e portava sempre una sciarpa rossa avvolta al collo. Il suo viso sembrava vacuo, e potevo affermare che anche lei si trovava nella mia stessa luminosa posizione nella vita. Sentivo il mio cuore spezzarsi alla comprensione del suo dolore.
“Hey.” Rispondo, e suona strano. Eravamo molto uniti un tempo ma ora eravamo tutti e due distanti; non solo l’uno dall’altro, ma dal mondo. Indossa una canotta bianca e un paio di pantaloncini di jeans, ed è un sollievo vedere che la sua pelle era ancora liscia e immacolata- non aveva scelto il mio stesso meccanismo di difesa; nonostante ciò non sono sicuro che il suo estremo distacco emotivo sia molto più sano. Quando Mikasa non dice niente penso a qualcosa da dire.
“Dunque, tu hai, uh, preso in considerazione di trovarti un lavoro?” chiesi.
 “Non molto, credo.” Rispose Mikasa, occhi incollati alla televisione.
“Hai voglia di cercarne uno insieme a me se vado?”
“Credo di sì.” La sua risposta era vuota ed ero consapevole che mi stava a malapena ascoltando.
“Ti da fastidio se mi siedo con te?”
“Prego.” Mi sedetti goffamente al suo fianco sul letto.
 “Quindi... cosa stai guardando?” chiedo, nel disperato tentativo di ricevere una risposta quasi decente.
Mikasa non risponde. Una scintilla di irritazione mi pervade e cerco di trattenermi dall’arrabbiarmi per nulla; probabilmente non mi aveva sentito.
Ripeto la domanda. Ancora nessuna risposta.
“Mikasa?” chiesi, col tono carico di frustrazione.
“Hm?”
“Ti ho chiesto cosa stai guardando.”
“Oh, non so.”
“Come fai a non sapere cosa stai guardando?”
“Non ero attenta.”
Quindi non si stava concentrando sulla TV in realtà. Era davvero persa nel suo mondo e il pensiero mi faceva intristire e incazzare allo stesso tempo. Volevo essere solo io a soffrire; Mikasa meritava di meglio che stare seduta sola nella sua stanza inconsapevole di ciò che le accadeva intorno. Provo rammarico. Avrei potuto evitare tutto ciò se solo mi fossi assicurato che stava bene. Un’altra ragione per odiarmi e un’altra ragione per l’avvento del mio prossimo taglio. Senza pensare, mi protendo verso di lei e la stringo tra le mie braccia.
Non risponde al contatto e rimane semplicemente seduta lì a guardare la TV. Sospirai profondamente prima di tirare via le braccia da lei e rialzarmi senza dire niente. Non riuscivo a reggere la visione del suo stupore attonito. Chiusi la porta alle mie spalle senza guardarmi indietro. Mentre attraversavo l’ingresso per entrare in camera mia, sentii mamma urlare a Mikasa che era pronta la cena. Lei uscì dalla sua stanza non appena io entrai nella mia.
-x-
La sera passò in modo orribilmente lento e io tentai di mantenere la concentrazione sulla televisione così da non dover pensare. Pensare era pericoloso per me quando ero solo. Potrei pensare a centinaia di ragioni per le quali sono un pezzo di merda che sarebbe inevitabilmente finito per prendere decisioni sbagliate. Potrei liberarmi delle mie preoccupazioni per stasera se solo avessi visto il mio sangue scorrere. Per poi svegliarmi al mattino seguente con pentimento e odio verso me stesso che mi scorreva dentro come veleno. Mi sarei trascinato fino alla doccia e averi sentito il calore dell’acqua bruciare sulle mie ferite della notte prima. Avrei superato a fatica la giornata per poi ripetere la routine serale. Questo è come è passato l’ultimo anno, ma stanotte ho rotto il ciclo.
Provai a immergermi nell’universo di The Walking Dead, che era l’unico programma semi-interessante che c’era a quell’ora. Provai a focalizzare ogni piccola parte della mia attenzione sui personaggi mostrati sullo schermo. Ritrovai il mio pensiero sul motociclista che avevo visto al cimitero. Pensai anche ad Armin qualche volta quella sera, e cercai di concentrarmi su ricordi felici di quando eravamo piccoli. La sera durò un tempo insostenibilmente lungo, ma alla fine si fece tardi abbastanza per poter andare a letto. Scartai l’idea di prendere una delle mie pillole per dormire, ma decisi che quella giornata era stata talmente meno orribile delle altre (apparte per l’inquietante distanza dalla vita di Mikasa che mi aveva del tutto scosso) che avrei provato ad addormentarmi senza per questa volta. Ci misi un bel pezzo ad addormentarmi ma alla fine ci riuscii senza l’aiuto delle pillole.
Mi vennero gli incubi quella notte; ero in macchina con Armin quella terribile sera, ma invece che colpire un’altra macchina, colpii il motociclista del cimitero. Alla fine dell’incubo, sia Armin che il motociclista erano morti e la vita stava scivolando via anche da me quando mi svegliai inzuppato di sudore. Mi scossi e mi rigirai per un paio d’ore finché non fui esausto abbastanza da ricadere nell’incoscienza.
Mi svegliai verso le dieci di mattina il giorno seguente. Ancora disorientato dal risveglio, ero scioccato quando non mi ritrovai ferite fresche su nessuna delle mie braccia. Non appena mi si schiarì la mente mi ricordai del mio viaggio al cimitero e la promessa che mi ero fatto di passare un giorno senza farmi del male.
Questa era la prima vittoria che avevo da un anno. Ma era troppo insignificante per farmi sentire gioioso o fiero di me per qualcosa del genere. Ci sarebbe voluto ancora un bel po’ per farmi apprezzare anche il più piccolo successo.
Decisi di vestirmi e cercare le opportunità di lavoro. Indossai un paio di jeans chiari e una felpa verde scuro su una maglietta grigio-argento prima di dirigermi in bagno a lavarmi i denti e pettinarmi i capelli e cose del genere. Una volta pronto, bussai alla porta di Mikasa. Quando mi diede il permesso di entrare le chiesi di unirsi a me. Stava ancora poltrendo sul letto in pigiama. Disse che potevo andare senza di lei, io annuii e lasciai la stanza. Cercai di pensare ai posti che sarebbero potuti essere più disponibili a permettermi di indossare le maniche lunghe; molti avrebbero potuto, ma dovevo comunque stare attento. Il modo più semplice per assicurarmi di non essere assunto da nessuno era indossare le maniche corte il primo giorno; ammesso e non concesso che qualcuno avrebbe preso in considerazione di assumermi.
Cercai di evitare i fast food, dicendomi che se  non fossi stato assunto altrove avrei fatto richiesta anche lì. Non ero neanche sicuro del perché volessi un lavoro; alla fine conclusi che volevo procurarmi una fonte di distrazione che mi avrebbe fatto passare le giornate un po’ più velocemente. In ogni caso, almeno questa era una risposta logica. Oh, e i soldi. Io posso anche odiare la vita ma nessuno odia i soldi. I soldi fanno girare questo mondo di merda, dopotutto.
Presi alcune domande di lavoro; la maggior parte erano di rivenditori e distributori di benzina. Odiavo fare richista di lavoro, e la mia incapacità di relazionarmi non aiutava per niente. Chiesi le domande di lavoro in modo grezzo e vergognoso, ma hey, almeno sono riuscito ad ottenerle. Le riempii tutte quando tornai a casa e le spedii il giorno seguente. Rimanevano almeno altre tre settimane d’estate, così non avevo niente di meglio da fare comunque. Dissi a mamma che avevo fatto qualche richiesta di lavoro, e sembrò essere piuttosto contenta anche lei. Non avevo parlato con mio padre per più di una settimana, il che andava più che bene per me. Il bastardo riusciva a lasciarmi in pace per un po’; preferivo i vecchi tempi quando non si preoccupava di chiamarmi affatto.
Non mi aspettavo di essere richiamato. Avevo quasi diciotto anni e dovevo ancora andare incontro al mio primo lavoro, e dicono sempre che hai bisogno di un lavoro per fare esperienza, ma anche che hai bosogno di esperienza per trovare un lavoro. Il che se ci pensi è  un sistema di merda. In realtà non c’è nemmeno bisogno di pensarci su. È una fottuta stronzata. Molti aspetti della vita sono fottute stronzate se ti prendi un secondo per pensarci.
Per me fu una piacevole sorpresa, comunque, quando tre giorni dopo dopo aver spedito la mia domanda di lavoro. 7-Eleven mi chiamò e mi chiese di fissare un colloquio. Strinsi il mio cellulare in una mano e il mio straccio intriso di sangue nell’altra mentre parlavo con il manager che mi aveva chiamato, mi accordai per un colloquio alle tre del pomeriggio del giorno seguente.
I poveri bastardi stavano davvero considerando di darmi una possibilità.
 
Note dell’autrice:
Avevo un bisogno intenso di un Levi motociclista, okay.
 
  
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