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Autore: Sueisfine    06/08/2008    1 recensioni
Questa storia è nata per caso, spinta soprattutto dalla mia grandissima ed insaziabile passione per il gruppo musicale The Cure. Mi sono permessa di prendere spunto dalla storia del gruppo, accumulata attraverso interviste, libri, biografie autorizzate etc., negli anni che vanno dal 1981 in poi, per narrare un po' gli avvenimenti dal punto di vista di Robert Smith, leader del gruppo, e Simon Gallup, bassista.
Diverse situazioni sono frutto della mia ( bacata ) immaginazione, però ho cercato e cerco, nei limiti, di dare una certa contestualizzazione al tutto.
DISCLAIMER : Con questo mio racconto, ovviamente scritto e pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo né diffamare né fornire una rappresentazione veritiera dei fatti accaduti, ma semplicemente rivedere il tutto secondo una mia particolare ( condivisibile o meno ) prospettiva.
Buona lettura ;_;
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter Twenty-one

~ This Twilight Garden

Dondolare.
Avanti – indietro. Senza mai fermarsi.
Le piccole gambe che si distendono.
Salita – discesa. Avanti – indietro.
È una cosa che si impara col tempo, se sei troppo piccolo non ci riesci mica. Ed è una cosa che non ti può insegnare nessuno, la impari e basta.
Ma una volta imparato non ti puoi fermare, no, nemmeno volendo. Sei in volo, vedi così lontano, vuoi andare ancora più in alto, oltrepassare le siepi del parco, e le querce, ed i lampioni, e su ancora sopra i tetti delle case, della tua casa… Ma ecco che la forza di gravità ti ritrascina pesantemente al suolo, con veemenza. E tu ti vedi costretto a far di nuovo leva sulle gambe, stanche, per riprendere in mano il tuo volere. Sperando che stavolta il brivido duri più di qualche misero secondo.
Ecco quello che rovina i sogni.
La forza di gravità.

Sette anni. Mi piaceva la marmellata di prugne. E il latte, oh sì.
Ed andare in altalena. Ci passavo le ore.
Mio zio ne aveva fatta costruire una nel piccolo pezzo d’erba dietro casa. Non era ben, fatta - traballava. Ma io ne andavo letteralmente pazzo. Se mia madre non riusciva a trovarmi in casa, sapeva esattamente dove andare a cercare. Ore, ore. Lì sopra a fissare la finestra della casa di fronte allontanarsi e poi riavvicinarsi di colpo. Chiudere gli occhi ed assaporare la discesa. Chissà cosa succederà una volta a terra. A volte canticchiavo strofette imparate a scuola, per poi ridere a squarciagola sul finale, con lo stomaco scosso dalle piccole vertigini. Ancora attualmente non riesco a capacitarmi di come si possa ridere per il nervosismo.
«Simon vieni, dai, che è pronta la cena !». La finestra che sbatte, ed io che punto i piedi sul terriccio secco. Mi fisso le mani, sporche di ruggine.
‘Che schifezza, ma perché si deve arrugginire tutta ?’. Anche questo avrei imparato col tempo. Le cose che non vengono curate a dovere finiscono per arrugginirsi. Ed una volta arrugginite, sono irrimediabilmente da buttare.
Passi delicati sul parquet opaco, vocina leggera dalla tonalità bassa, puntata sul lamentoso, «Mamma, uffa, l’altalena si sta arrugginendo».
Gli occhi scuri della mamma, quasi a biasimarmi, «Tesoro mio, se non le curi tu le tue cose…».
«Ma non è colpa mia ! Cioè, se piove e si arrugginisce…». Dov’è mio fratello quando serve ? Almeno un minimo di sostegno mi farebbe piacere.
«Magari piovesse caro, magari. Le mie freesie sono così cadenti, poveracce».
«La mia altalena è più importante dei tuoi fiori però».
Occhi scuri. Biasimo. «Piuttosto, domani ricomincia la scuola. Fila a prepararti la roba».
Inizio settembre, l’estate che si smorza ed il ritorno al legno sporco dei banchi di scuola mescolato al profumo dei libri nuovi. La consapevolezza dolceamara del dovere.
«Ma i libri sono già dentro la cartella». E non mentivo. Presumibilmente erano rimasti lì dentro dall’ultimo giorno.
«Va bene, va bene», sentenziò la voce calma di mamma, le mani incastrate in un ceppo d’insalata, «ora fammi il piacere di andare a chiamare il resto della truppa». «Sissignora», risposi, carico ed in posizione come un bersagliere prima di una battaglia.
Stanare i miei fratelli dalle loro camere mi piaceva molto, fin da quando ero piccolissimo. Era come irrompere all’improvviso nelle loro vite. Stuart ormai era grande, aveva compiuto vent’anni a gennaio. Ed anche gli altri lo erano - perlomeno molto più di me. David mi sorpassava di ben dodici anni, Duncan di dieci, Monica di nove e, insomma, l’unico di loro con cui un po’ riuscivo a trovarmi era Ric. Sempre stato così. Dividevamo anche la camera assieme. Entravi nella mia, nostra, stanza e potevi vederlo lì, un quasi quattordicenne smilzo, lo sguardo luminoso dei suoi piccoli occhi scuri a fissare un libro d’arte, o di fotografia. Oppure lo trovavi semplicemente alla finestra, intento a scrutare chissà cosa fuori. Usciva di rado, era un tipo molto introspettivo, chiuso. Ma rassicurante. E, a dispetto delle apparenze, si poteva scherzare con lui, eccome. Le sue battute argute erano uno degli intrattenimenti tipici delle serate in famiglia.
Io lo trovavo tremendamente interessante. Per questo mi piaceva parlare con lui - la mia inesperienza comparata alla sua cultura semi-adolescenziale e messa costantemente a dura prova. E lui non si vergognava mai di abbassarsi al mio livello per farmi capire le cose. Ho sempre adorato ricevere spiegazioni da Ric, così tanto che alle volte fingevo appositamente di non capire.
Però mi era difficile indovinare cosa gli passasse veramente per la testa. Un lato della sua persona era cupo ed abbastanza misconosciuto anche dai più intimi, ed alle volte, quando i suoi freni si allentavano e il suo autocontrollo veniva a mancare, riusciva quasi ad incutermi timore.
Era sostanzialmente il mio migliore amico, e lo rimase per molto tempo.

«Gallup, Simon». Occhi che si posano su di me.
Sedia che striscia, «Presente».
«Non far strisciare la sedia, Gallup».
«Mi scusi, signore».

Correre nell’erba alla ricerca di qualcosa, di qualcuno. Un po’ d’ombra, un albero gigantesco e maestoso. ‘Fantastico’.
La mia maglia a righe bianche e nere si era imbrattata con l’inchiostro durante l’ora di matematica. La biro aveva preso a buttare inchiostro, la maledetta biro. ‘Non devi masticare le penne, Simon, non devi’.
A mamma piaceva molto il modo in cui la maglia a righe bianche e nere mi stava addosso.
Non sarebbe stata contenta di vederla macchiata, no. Il cielo. ‘Voglio volare’.

Il ritorno a casa era solitamente di una noia tremenda. Sassolini sull’asfalto grigio, cocente, e il calore emanato dalle giornate primaverili si mescolava all’odore di catrame e cemento. Ad acuire la sgradevolezza della sensazione c’era sole, che in quelle ore picchia sulla nuca, il sudore che si fa spazio tra i capelli e tu sommerso dal peso dell’educazione. L’unica cosa da guardare sono le ombre di chi cammina, o corre, nella tua stessa direzione. Non puoi voltarti, c’è il sole, sempre il sole. Però dentro di te hai questa certezza, sai che sono dietro di te. Possono sorpassarti, certo, ma sarà difficile incontrare i loro sguardi.

«Simon, come diavolo hai fatto a sporcarti la maglia in quel modo ?».
La mia ossessione per gli occhi della gente – l’ennesimo scorcio di un’infanzia passata ad osservare. Come se, guardando in quella direzione, avessi potuto vedere il mondo come loro volevano.
«La maledetta biro, mamma».
«Maledetta ?! E che modo di parlare è mai questo ?».
«A scuola ci dicono sempre di attenerci al registro linguistico usato dall’interlocutore». Una risposta più da Ric che da me.
E’ bello crescere.

«A che ti serve quello ?», accennando all’ombrello che Ric aveva in mano. Il sole sempre più caldo, nonostante fossero le sei di pomeriggio.
«Mh, pioverà». Le sue risposte così scarne e distaccate. Come se fosse sempre in possesso dell’onniscienza più totale e scontata.
«Dici ?».
«Sì, certo».
Ascoltavo sempre Ric. Nonostante spesso le sue affermazioni mi mettessero alquanto a disagio.

Il mio taccuino sta per finire, ne voglio già un altro. Stringo tra le mani la terra seccata al sole. Un pallone viene improvvisamente scagliato contro di me. Mi manca la spalla sinistra per un soffio. Dannati sport di gruppo. Mi alzo, e la mia intenzione momentanea è quella di buttare quell’oggetto quasi-contundente dritto nel fossato. Sono arrabbiato. Il mondo è così colmo di arroganza.
«Ehi, potresti rilanciarci la palla ?».
Gridolino strozzato, fiatone. Mi volto. Ha le mani sulle ginocchia, per poter riprendere fiato. Colpo di tosse. Calzoni corti, ma il colore della maglia, no, quello non lo ricordo così nitidamente.
Gli occhi, di nuovo gli occhi. Li strizza per un attimo, poi mi fissa. Ghiaccio incastrato, lì come per caso. Contrasto netto con le guance arrossate dalla corsa. I capelli scuri appiccicati alla fronte. Chissà da quanto tempo stava correndo dietro alla sua palla.
«Ehi, mi senti ?», ‘Sveglia bello, torna dal mondo delle fiabe e cresci’.
Una di quelle voci che ti entrano sottopelle e si insinuano dentro di te.
Voglio ricordarla proprio così.
Lacerante.
«Come ?». Sussurro basso e flebile. Avevo capito benissimo, solo che mi andava di risentirla di nuovo.
La mia, di voce, suonava sempre così strascicata e pastosa. Decisamente una brutta voce.
«La palla, ce l’hai in mano, è mia e del mio amico… Per favore, puoi ridarmela ?».
Niente a che fare con la sua, melodica.
Un gesto di assenso, mani che si sfiorano.
«E scusa se ti è arrivata addosso, non si ripeterà».
Mentirei spudoratamente se affermassi di non aver amato quella voce sin dai primi istanti.

Il dubbio.
Posso davvero andare avanti, bloccandolo là fuori, bloccando lui ed ogni sua speranza di rivalsa su quello che ormai palesemente non gli apparteneva più, oppure è solo un mero tentativo di fuga ? Io sto fuggendo, di nuovo ?
Gli anfibi lasciano solo impronte bagnate dietro di me, e lui le può seguire. Potrebbe seguirle. Seguire la neve sciolta che piange dalle mie suole ed afferrarmi la mano, chiedere perdono per il suo egoismo, forzarmi in un abbraccio, ed io forse cederei. Forse, cederei.
Ma allora perché ostinarsi ? Perché seguitare a farsi del male in questo modo ?
Schizofrenia.
Tutti notano le impronte, ma nessuno sembra in grado di seguirle.
E, nel frattempo, il dubbio. Riuscire a rimangiarsi le proprie parole in meno di cinque minuti. Il dubbio striscia qui vicino, mi accarezza le tempie, ed io lo sento.
Tutte le convinzioni, tutto ciò di cui mi sono fatto scudo sino a poco fa, ora stanno svanendo come fumo, ed il dubbio, il dubbio, solo lui –
Posso.
Si può ?
E’ concepibile ?
Se solo potessi resistere. Se solo mandassi giù ancora il boccone amaro.
Tu puoi farcela.
Tu puoi farcela ?
Riusciresti a sacrificare ancora un po’ della tua vita per dei deboli spiragli di luce, per dei rari momenti tranquilli.
Riusciresti a demolire il tuo amor proprio per poter risentire ancora quella voce, la sua voce.
Abbi fiducia.

Fermarsi.
No, niente più fughe. Congelarsi nel bel mezzo del corridoio, tutto il corpo teso, aspettando il suo arrivo.
E la mano, quella mano, inaspettatamente calda, che afferra la tua. Ma non è un moto d’affetto, quello. Lui infila nell’incavo qualcosa, e poi sparisce. Tu, senza nemmeno voltarti, sai perfettamente che è sparito. Riesce a dileguarsi in qualsiasi situazione. Sa riconoscere il momento del congedo.
Schiudere la mano, e trovare al suo interno un bigliettino.
La sua inconfondibile scrittura.
Poche parole – una frase. Apparentemente buttata lì, così.
Ma tu a quelle parole avresti dato un significato solamente molti anni dopo.
Se allora le avessi comprese, non avresti preso il tuo basso in spalla, non saresti sceso per le scale, non avresti deciso che, dopotutto, valeva la pena continuare, ancora per poco, fino allo stremo delle forze, oltre i tuoi limiti, oltre te stesso.
Se allora le avessi comprese, avresti colto la sorpresa negli occhi di tutti nel rivederti il giorno dopo, e ti saresti concentrato su ben altro che non fosse in quella stanza, ricoperto di polvere, e gli odori fino a quel momento familiari li avresti dimenticati.
Se allora le avessi comprese, non avresti pensato a come sarebbe stato senza. Avresti invece sfruttato le potenzialità di quella situazione, avresti volto a tuo favore le circostanze, e ti saresti risparmiato in sostanza un bel po’ di grane.
C’è chi comprende tutto, subito, e non è frustrato dal continuo porre domande per cercare di arrivare laddove in un primo momento non arriva - o non osa arrivare.
C’è invece chi ha bisogno di sopportare, di crollare perfino, e, solo infine, comprendere. Per poi riappacificarsi con se stesso. Raggiungere il fallimento, viverlo, e passarci attraverso.
Tu – tu sei uno di questi.

Nel caso in cui non dovessimo più incontrarci.



*

Ed è a questo punto che ho deciso di interrompere la mia storia. Ritengo che abbia già ampiamente fatto il suo corso.
Ringrazio chi mi ha seguito ed incoraggiato finora, specialmente la mia chicca :*
Ringrazio poi le innumerevoli fonti di ispirazione, letterarie, musicali ed artistiche in genere.
Un grazie sentito, infine, a loro, ai Cure, per avermi dato, e per continuare a darmi, sempre così tanto <3
  
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