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Autore: stillaseeker    07/06/2014    4 recensioni
"L'amore è così breve, ma dimenticare è così lungo." (Pablo Neruda)
Di tutti posti in cui imbattersi nel suo ex, doveva essere da Tesco mentre indossa il suo maledetto pigiama. Alle cazzo di tre del mattino.
[University!AU]
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Note della traduttrice: Eccoci qua con il secondo capitolo! Prima di tutto un grazie a quanti hanno letto e/o recensito, trovo che questa storia sia infinitamente dolce per cui è bello sapere che viene apprezzata anche da altri ^_^ Questo capitolo, in particolare, a suo tempo è riuscito a ridurmi il cuoricino in brandelli nella parte finale XD (capirete perché), quindi cos’altro posso aggiungere?

Buona lettura, grazie mille e a prestissimo <3

Ellipse  

 

 

CAPITOLO 2

 

 

 

 

 

È Mike a organizzare tutto.

È ironico, in un modo che a John non interessa esaminare in maniera troppo approfondita, perché è stato sempre Mike a fargli notare l'annuncio per gli alloggi per studenti due anni fa. Quello che diceva – Suono il violino quando rifletto. A volte non parlo per giorni interi. Contattatemi a vostro rischio. Non sprecate il mio tempo. L'ultimo “non era stato sottolineato e cerchiato con uno spesso pennarello nero – John aveva inarcato le sopracciglia quando lo aveva visto per la prima volta, a metà fra le risate e un crescente senso d'attrazione.

Non aveva mai smesso di essere sbalordito da Sherlock. Forse parte del problema era stato quello.

John si guarda allo specchio con una smorfia, indossando il suo unico blazer elegante. Tenta persino di acconciarsi meglio i capelli – Bill si fida ciecamente di questo gel. I suoi compagni sono al settimo cielo per il fatto che lui voglia di nuovo uscire con qualcuno; Sarah ha persino cercato di portarlo a fare compere, anche se lui ha puntato i piedi di fronte a qualunque cosa che avrebbe intaccato i suoi risparmi. Ora è in attivo, finalmente, e punta a restarci.

Mary è adorabile. John è stupito dal fatto che non sia già stata accalappiata da un qualche tipo intraprendente. Il viso le brilla al lume di candela del tranquillo ristorante vietnamita che ha scelto lei stessa, gli occhi le si increspano di malizia mentre racconta qualche barzelletta spinta con una voce impassibile che fa piegare John dalle risate. La sua mano è minuta in quella di John mentre passeggiano per Chinatown e Soho, ammirando le lanterne rosse, come grandi semi di melograno, di cui è disseminata Gerrard Street, luminose contro il cielo notturno. È una novità curiosa il girare la testa verso qualcuno che ti cammina accanto anziché continuare a guardar dritto. Qualcosa nel petto di John gli provoca una fitta a quel pensiero.

La accompagna fino al suo appartamento universitario, proprio dietro a Russel Square. Ha la sensazione di poter ottenere un bacio, se volesse, ma si sente inspiegabilmente esitante. Le dà un bacio leggero da galantuomo sulla guancia, invece, sorridendo e promettendo di mandarle un messaggio. Il profumo di Mary è un soffio tiepido di un qualcosa di dolce e floreale, come di tuberosa e di spezie, quando lei lo avvolge in un abbraccio, sussurrandogli una battutina osé all'orecchio.

Lui arrossisce, e si impone di rimanere fermo e di aspettare la chiave di Mary che gira per chiudere la porta e il rumore del lucchetto prima di incamminarsi di nuovo, un piede dopo l'altro.

I suoi passi sono senza meta. John non riflette con troppa attenzione sul dove stia andando. Respira gli odori di Londra di notte, i fumi del traffico, il take away e quella fragranza dolce-salata, come di giunchiglie fresche, marcio e acqua di fiume, e cerca di guardare la città con occhi nuovi; cerca di non vedere il fantasma di Sherlock nascosto in ogni angolo, coi suoi vivaci occhi argentei, mentre corre qua e là, preso da uno dei suoi esperimenti, abbagliante come una cometa, con John incapace di far altro che non sia seguire la sua scia. La città di SherlockeJohn – le sue strade, il suo battito, che a Sherlock è familiare come i ritmi del proprio corpo, il sangue di Londra a pulsargli nelle vene.

Non è sorpreso, davvero, quando si ritrova a Baker Street. C'è qualcosa di ovattato nella notte – è solo l'una passata, sta camminando in tondo da ore – e John si sente improvvisamente e incredibilmente stanco. Gli sembra di sentire le note di un violino che si affievoliscono.

John chiude gli occhi, appoggiandosi alla vetrina scura dello Speedy's Cafè.

È passato quasi un anno.

Non dovrebbe sentirsi ancora così.

John non vuole far altro che scivolare per terra e seppellirsi la testa fra le braccia. Vuole serrare gli occhi fino a che quel maledetto dolore nel suo petto non si placherà. Cristo.

La porta del 221B si apre con un cigolio, e John sussulta. Alza lo sguardo, dritto sulla faccia di Sherlock. La luce di un lampione lì vicino colpisce per obliquo gli zigomi di Sherlock, mettendoli in netto risalto.

Per un attimo, John si chiede se non stia sognando. Sherlock indossa la sua vestaglia blu e i pantaloni del pigiama. Quella vista è così familiare che John si ritrae, il corpo che istintivamente si prepara a parare un colpo. Sherlock è a torso nudo; i suoi capezzoli – quelle innocue punte scure – si stanno già indurendo per l’aria fredda di Londra.

John balbetta qualcosa. È piuttosto certo che le orecchie gli siano arrossite, prima di distogliere lo sguardo dal petto di Sherlock.

“John?”

“Dio. Merda, cazzo, cazzo.” John si affretta a raddrizzarsi. “Scusa. Mi dispiace, Sherlock.”

Sherlcok inclina la testa. I suoi occhi stanno valutando, spogliando John fino alle ossa in un unico, freddo sguardo – su, poi giù. John si sente completamente e assolutamente distrutto.

“Mi dispiace. Non dovrei essere qui. Non so cosa io stessi pensando. Ho solo iniziato a camminare…Io…” Cristo, perché non riesco a smettere di parlare? “Me ne vado e basta.”

John resta a bocca aperta quando, invece di sbattergli la porta in faccia, Sherlock gli si avvicina di un passo. È scalzo, il gigantesco idiota. Scalzo e sul punto di mettere piede su un marciapiede di Londra – probabilmente la superficie meno igienica al mondo.

“Sherlock – fermo. Che stai facendo? Solo – fermati lì, va bene?”

Senza pensare, John fa un passo avanti per posare una mano sul petto di Sherlock, impedendogli di varcare la soglia. In un attimo sono pelle contro pelle, dentro l’ambiente sicuro di Baker Street per la prima volta da – da quel giorno. John rimane ammutolito. Sherlock sembra congelato sul posto, mentre fissa la mano dell’altro. John riesce a sentire il battito del suo cuore.

Oh Cristo santo.

John ritrae bruscamente la mano. Resiste all’impulso di strapparsi i capelli con le mani.

È ufficiale. Sto legittimamente impazzendo.

La bocca di Sherlock si arriccia in maniera curiosa verso l’alto. Sono ancora fin troppo vicini l’uno all’altro – vicini abbastanza perché John possa vedere le ombre gettate dalle ciglia di Sherlock.

“Ti andrebbe di salire?”

John non riesce a costringersi a dire di no.

::

Baker Street sembra quasi esattamente la stessa.

È ancora un pandemonio, certo. L’amato set di chimica di Sherlock è ancora sparso su tutto il tavolo della cucina. La carta da parati è orribile. Anche il teschio di Sherlock è nello stesso punto di prima sul caminetto, girato così da essere rivolto in maniera disinvolta verso la poltrona di Sherlock. John si chiede se Sherlock abbia mai ripreso a parlare col teschio ora che lui se n’è andato; si chiede se Sherlock consideri il teschio un miglioramento.

John deve impedirsi fisicamente di dirigersi in cucina per mettere a bollire l’acqua per il thè – l’abitudine è radicata in lui in modo così profondo.

Invece, indugia con fare incerto sulla porta. Essere salito di sopra comincia a sembrare una decisione sempre meno buona.

Sherlock lo sta ancora guardando, catalogando ogni suo tic e movimento facciale. È come ritrovarsi al sole dopo un interminabile e deprimente tempaccio – come se ogni parte della vita quotidiana di John, della monotonia, stesse venendo bruciata dall’intensità dello sguardo di Sherlock.

John interrompe il loro contatto visivo, osservando il resto dell’appartamento.

Si era aspettato – non lo sa. Più cambiamenti, forse? Decisamente più cose di Irene lì attorno – anche se la maggior parte delle sue cose probabilmente sarà ancora a Cambridge. Non aveva pensato che lei potesse sopportare il disordine di Sherlock, però. Aveva pensato che Irene avrebbe puntato i piedi e che non avrebbe permesso a Sherlock di scavalcarla, come aveva fatto John.

John chiude gli occhi.

Sherlock si è spostato davanti alla finestra. C’è un’energia curiosa nei suoi movimenti, quasi come se fosse nervoso.

“Com’è andato il tuo appuntamento?”

Gli occhi di John tornano di scatto su quelli di Sherlock.

“Il mio appuntamento?”

“Sei uscito, ovviamente.” Sherlock agita una mano. “Ti sei acconciato i capelli. Il taglio più lungo ti dona, ti addolcisce la mandibola. Ti sei comprato delle scarpe nuove – non un paio costoso, ma più eleganti delle tue solite scarpe da ginnastica. Non puoi averle scelte da solo – devi essere stato aiutato. Probabilmente da quel gruppetto confusionario di studenti di medicina che tu chiami amici. Indossi il tuo blazer preferito, quello che hai messo per il nostro primo anniversario, quando mi hai portato a vedere l’Orchestra filarmonica reale ad Albert Hall. Acconciatura nuova, scarpe nuove, abbigliamento più elegante del solito – sei stato a un appuntamento.”

John si sente senza fiato, come se qualcuno gli avesse appena dato un pugno allo stomaco.

“Io – è –“ John si schiarisce la gola, la voce del tutto roca. “L’appuntamento è andato – bene. Lei era molto carina.”

Sul volto di Sherlock scorre qualcosa di strano; i suoi occhi passano da un azzurro chiaro a una sfumatura più scura, come un’ombra che passa sott’acqua. John non è mai stato veramente in grado di leggerlo.

John fa un passo verso la propria vecchia poltrona. Qualcosa di caldo gli freme nel petto quando nota che Sherlock ha tenuto il suo cuscino della Union Jack – un acquisto fatto di getto quando hanno fatto una gita di un giorno a Brighton durante la scorsa Pasqua. Sherlock aveva voluto studiare le differenze tra il fango di Londra e del Sussex, e John aveva voluto pranzare con fish and chips sulla spiaggia. Era stata una splendida giornata che si era conclusa con un bel po’ di sbaciucchiamenti in riva al mare e molti meno campioni di fango di quanti Sherlock avesse pianificato.

“E – tu?” John costringe le parole a uscirgli di bocca. “Come sta – Irene? Quest’anno finirà a Cambridge, non è vero?”

“Irene?” Sherlock dà del tutto le spalle alla finestra, voltandosi verso John. “Io – presumo stia bene. Perché lo chiedi?”

John cerca di sorridere. Immagina che sia un sorriso stentato quanto gli sembra che sia. “È – educato, no? Io-“ John prende un profondo respiro. “Mi farebbe piacere sapere che stai bene. Che – entrambi voi state bene.”

C’è un solco fra le sopracciglia di Sherlock. Quel gran cervellone probabilmente sta venendo messo in moto a calci. Sono dati nuovi, questi – come fare conversazione col tuo ex.

“Stiamo entrambi – bene.” Le parole sembrano stranamente incerte, provenienti dalla bocca di Sherlock.

“Grandioso. Magnifico. Stellare.” Oh mio Dio. John si sforza di stare zitto. Ignora la sensazione di vuoto che sembra allargarsi nel suo petto.

Cristo, cosa ci faccio qui.

“Sherlock, penso–”

“John, cosa–”

Entrambi si interrompono balbettando, guardandosi l’un l’altro. John si sente di nuovo senza respiro, vedendo Sherlock bagnato dal bagliore dei lampioni che filtra dalle finestre. Sherlock, a Baker Street. In un qualche modo, la realtà supera di gran lunga i suoi ricordi – si era dimenticato la sfumatura precisa della pelle di Sherlock, quel color panna vellutato e tangibile sull’esilità del suo torso. La straordinaria bellezza del suo profilo – la linea del suo collo che si incurva verso la mandibola; l’arco sensuale, vulnerabile della sua bocca; la sporgenza di quei maledetti zigomi.

“Farei meglio ad andare.”

Sherlock non dice una parola. Nei suoi occhi è spuntata una nuova luce – qualcosa di curiosamente vivace. È come se avesse appena condotto un esperimento lungo e complesso, e potesse adesso studiarne i risultati, ripercorrendo ogni anello della catena di causa-effetto in una sequenza perfetta.

“È – è stato bello vederti.” John si costringe a voltarsi, ad allontanarsi da lui. È più difficile di quanto si aspettasse. È come se qualcosa – un qualche uncino – si fosse aggrappato ai resti del suo cuore e adesso a ogni passo per allontanarsi gli stesse scavando uno strappo ancora più profondo nel petto.

Riesce quasi ad arrivare alla porta quando lo sente.

“John.”

Nel corso dei loro diciotto mesi insieme, John ha sentito Sherlock dire il suo nome in innumerevoli modi. C’è il blando, quasi sprezzante Passami il telefono, John. L’irritato e incupito Noia! Mi annoio, John. Fa’ qualcosa di interessante. Il carezzevole e dolcemente esigente Dov’è la mia tazza di thè, John?, simile ma non esattamente identico al John detto a voce bassa che Sherlock usa quando si sente affettuoso, per chiedere attenzioni, cercando un bacio – quello è più calmo, più basso, e fa venire voglia a John di avvolgergli il volto con le mani e di baciarlo fino allo sfinimento.

Questo è diverso.

Gli fa pensare a quelle tarde notti e mattine presto a letto, il John che Sherlock usa quando John si spinge dentro di lui, insinuandosi nella sua apertura. Quando sono così vicini da essere inseparabili, un’unica entità che respira e ondeggia insieme, quando John si sente così immerso in Sherlock – felice in maniera tanto trascendentale – che potrebbe piangere. Quando Sherlock inarca la schiena, perdendo ogni singolo pensiero in quel suo super cervello e John è l’unica parola che ricorda.

Il passo di John vacilla.

Sherlock gli si avvicina, la vestaglia blu che sferza nell’aria dietro di lui. Prima che John abbia tempo di prendere un altro respiro, Sherlock lo sta baciando.

::

 

 

 

   
 
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