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Autore: Cruel Heart    08/06/2014    4 recensioni
C'è sempre un modo per raccontare le storie tristi.
C'è chi vuole addolcirla, come se si trattasse di una tazzina da caffè un po' amara, o c'è chi vuole renderla ancora più tragica di quanto lo sia già.
Sarebbe bello narrare di due adolescenti che si sono innamorati improvvisamente, magari al liceo.
Ma non è la verità, o, per lo meno, non lo è di questa storia.
I piccoli segreti sono ovunque.
Sto parlando di segreti non del tutto svelati, di argomenti tenuti nascosti e di scheletri troppo grandi per essere rinchiusi in un armadio.
E se tutto quello in cui lui credeva, si rivelasse una mera finzione?
E se tutto quello che lei riteneva impossibile, fosse la dura realtà?

Ecco: questa è la verità che voglio raccontarvi.
Genere: Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Little secrets - Missing Moments'
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Buonsalve a tutti!

Dite un po’, da uno a dieci, quanto siete contenti che la scuola sia finita?

Io centordici. (?)

Allora, in questo capitolo saranno introdotti ben tre nuovi personaggi.

Alcuni dovrebbero non conoscersi e invece parlano tra loro… chissà.

Il mistero s’infittisce ancora di più. *risata malefica*

Volevo dirvi solo una piccola cosuccia, prima di scomparire: nella storia ci saranno multipli riferimenti al libro “Colpa delle Stelle”, di John Green. [Come potete apprendere dalla bio, è il mio libro preferito, lol.]

Ovviamente, nessuno è obbligato a leggerlo, ma se volete capire meglio la fan fiction, vi consiglio di farlo.

Anche perché, il libro merita molto.

Bene, ho finito.

Have a good day. <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

 

 Avril Lavigne - Mobile

 

 

***

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Napanee, Ontario, Canada, 5 Febbraio 2001

 

 

Avril's pov

 

Aprire gli occhi richiedeva un’energia sovrumana.

Mi costava talmente tanto che, nel momento in cui li aprivo, già li richiudevo per abbandonarmi ad un sonno ad intermittenza, per un tempo che mi sembrava durare giorni, settimane.

La testa era stranamente leggera, come se fosse stata un palloncino libero di volare in aria.

Mi girai su un fianco, con le mani sotto la guancia, e percepii qualcosa di morbido lambirmi la pelle.

Riuscivo a sentire una voce femminile e dei rumori forti, insieme con un potente odore di lillà.

Dei ricordi cominciarono ad affiorare: grida, rabbia, un vuoto nel cuore.

Con gli occhi chiusi, sentivo intorno a me svariate imprecazioni e udii anche un rumore di qualcosa che sbatteva contro la porta della mia stanza.

 

Di nuovo rapita da delle immagini, rividi un bancone argentato, dei capelli biondi e degli occhi color ghiaccio che mi fissavano.

Aprii gli occhi di scatto, ma, prima di richiuderli, cercai di mettere a fuoco.

L’immagine era confusa; non riuscivo a scorgere niente, solo macchie bianche e indistinte.

Poi, tornò ancora quell’odore di lillà e riuscii a percepire davanti a me una figura china.

Abbassai le palpebre, convinta di aver sentito qualcuno sussurrare il mio nome.

Mi sforzai di tenere gli occhi aperti.

Non riuscivo ancora a scorgere i contorni del viso davanti a me, perché avevo la testa rivolta verso il cuscino.

Continuavo a vedere delle immagini sfocate: qualcosa di verde, forse degli occhi.

 

Poi, una voce mi sussurrò delle parole che non capivo. Non riuscivo a parlare.

Quel profumo… Era l’odore della pelle di qualcuno, che stava molto vicino al mio viso.

Nonostante fosse persistente, quella fragranza mi dava un senso di sicurezza e di conforto.

Cercai di focalizzare l’attenzione, ma non avevo ancora una visuale nitida.

«Avril, svegliati.» sussurrava la voce. «Apri gli occhi, amore.»

E così feci.

Aprii gli occhi e vidi accanto a me il viso di mia madre.

 

Improvvisamente, come se il mondo fosse stato risucchiato, tutto intorno a me diventò silenzioso.

La testa, adesso, pesava tonnellate. Era pesante come pietra, anzi, come mille pietre messe assieme.

Una fitta cominciò a martellare.  

No, non di nuovo…

Spalancai gli occhi.

Cercavo di aggrapparmi a qualcosa, ma non riuscivo più a distinguere i suoni.

Non riuscivo più a distinguere le sfumature dei colori.

Tutto intorno a me era bianco, di un bianco accecante.

Percepivo solo la fitta nella mia testa. Più forte, più forte. Sempre più forte.

Fatela smettere, vi prego…

Allungai la mano verso quella che doveva essere mia madre.

«Ma-Mamma… pillole…» riuscii ad articolare.

Non sentivo neanche la mia voce. Forse era così che dovevano sentirsi le persone mute.

Il dolore non accennava a diminuire. Era incessante, continuo, come se volesse ricordarmi che lui poteva essere dentro di me ogni volta che lo avesse desiderato.

 

Dopo qualche secondo, sentii delle piccole capsule solide e un liquido freddo scendermi in gola.

Soltanto allora, il dolore cominciò ad essere meno persistente e meno accecante.

Tutto si fece buio, di uno scuro rassicurante, e mi riaddormentai.

Il sonno si fece ancora più discontinuo. Pezzi di ricordi si susseguivano frenetici, troppo fugaci per cercare di metterli a fuoco.

 

Riuscii, miracolosamente, a risvegliarmi.

La prima cosa che vidi furono gli occhi verdi di mia madre riempirsi di lacrime.

«Ehi.» sussurrò, accarezzandomi dolcemente i capelli.

 

«Ehi.» le risposi, con la bocca impastata. «Dove sono?»

 

«Nella tua camera.»

 

Distolsi gli occhi dai suoi.

Mi guardava con un amore tale che era impossibile sostenere il suo sguardo.

«Che è successo?»

 

«Beh… ti ricordi che dobbiamo partire, no? Io stavo preparando le valigie. Ero entrata in camera tua per prendere qualche vestito pesante e ho capito che ti stavi per svegliare. Così, mi sono avvicinata al letto e poi, dopo qualche minuto… ho visto… ho visto i tuoi occhi spalancarsi. Le pupille sono diventate così grandi, che l’azzurro delle tue iridi non si riconosceva più.» Singhiozzò. «Hai avuto… hai avuto un attacco.»

 

Chinai la testa. Mi sentivo come se stessi fluttuando in aria.

«Wow, siamo a quota due, questo mese. Fantastico.» borbottai.

 

«Sì, tesoro. Sono stata così in ansia… Mi ha preso alla sprovvista e… non sapevo se ti saresti risvegliata o no.»

 

«Beh… immagino che abbia fatto un sonnellino più lungo del solito.»

 

Sulla fronte, le si formò la classica ruga che aveva quando sorrideva. «Credo di sì.» mi rispose, continuando a piangere.

 

Sollevai pianissimo il busto, cercando di mettermi a sedere. Volevo evitare giramenti di testa, anche se una sensazione di malessere si stava diffondendo nello stomaco.

 

«Ce la fai ad alzarti?» mi chiese, asciugandosi le lacrime e sorreggendomi prontamente con le sue braccia.

 

«Sì, sì, non preoccuparti, faccio da sola. E, mamma… basta piangere.»

 

Annuì appena, singhiozzando leggermente. «Va bene.» Scostò le braccia e mi baciò sulla testa, uscendo molto lentamente dalla stanza.

 

Quel gesto mi rimase fulmineamente impresso nella mente: avevo già provato la sensazione di sentire delle labbra appoggiate sui miei capelli.

Anziché alzarmi completamente, rimasi distesa supina.

Il cotone morbido del cuscino avvolse la mia schiena come una seconda pelle.

Un tessuto appena rugoso mi toccò il braccio e mi voltai, per capire di cosa si trattasse.

Fu allora che la vidi: una sciarpa di lana blu scura.

La presi tra le mani ed inalai lentamente l’odore pregnante.

Sorrisi. Sapeva di notte, di fresco, del suo collo… Sapeva di lui.

Ricomposi i pezzi del puzzle e ricordai tutto.

O almeno… quasi tutto.

Come si chiamava il ragazzo? Ivan? Eran?

Ero sicura che me l’avesse detto, ma non riuscii ad evocare il suo nome.

Ancora una volta, totalmente indifferente agli stimoli esterni, mi cinsi le ginocchia con un braccio e me le portai al petto, mentre fissavo il muro color crema di fronte a me.

 

Gli attacchi erano iniziati cinque anni fa, tre settimane dopo il mio dodicesimo compleanno.

Non potevo raccontare cosa successe quel giorno, perché non lo ricordavo.

Sapevo solo che, da quel giorno, una parte del mio cervello non ricevette più l’ossigeno per brevi secondi, e io non ricordavo più cosa fosse accaduto in quel lasso di tempo.

Nero. Buio. Vuoto.

Questo fenomeno si ripeté sempre da allora, e ovviamente, continuava a non esserci una data precisa in cui io potessi dire: “Ecco, succederà oggi.”

Gli attacchi andavano e venivano, a loro piacimento. Sembrava volessero dirmi: “Decidiamo noi quando arrivare e tu non puoi farci niente. Non puoi controllarci, piccola lampadina guasta.”

 

«Avril, vestiti. Il jet atterrerà tra poco vicino casa e dobbiamo essere pronte.»

 

Risvegliata dalla voce di mia madre, sciolsi il groviglio delle mie braccia e mi alzai lentamente.

Scelsi una maglietta a caso e dei pantaloni altrettanto anonimi. Non ne guardai neanche il colore. Mi ricordai soltanto di prendere il cellulare e le mie cuffie.

Non avevo bisogno di nient’altro.

Poi, mi avviai verso la porta d’ingresso.

 

Medici, chirurgi, psichiatri non erano riusciti a dirci niente. Neanche una singola spiegazione a cui aggrapparci. Mi avevano prescritto solo delle pillole, che dovevo assumere subito, ogni qualvolta l’attacco si ripresentava.

In tutto questo, non c’era nessuna causa apparente, né tantomeno nessun effetto collaterale. Nessuna infezione, nessuna malattia, nessuna patologia. Niente.

E così, la mia vita andava avanti, tra pasticche, lacrime, e tenebre momentanee.

Speravo solo di non arrivare mai a quel punto.

Il punto in cui i miei demoni mi avrebbero detto: “Sei sempre stata una lampadina guasta, difettosa. Inutile. E tu sai benissimo cosa facciamo con gli oggetti danneggiati, l’hai sempre saputo. Non servi più. La piccola lampadina è da buttare.”

 

***

Dieci minuti dopo che mia madre ed io eravamo uscite all’esterno con le valigie in mano ed imbacuccate dalla testa ai piedi, arrivò il jet.

Notai che assomigliava di più ad un mostro marino con l’elica.

Era molto più grosso e alto rispetto agli aeri normali. Mi chiedevo come diavolo facesse a volare.

Non solo trascinai la valigia, ma anche la mia paurosa genitrice, che era ancora più timorosa di me ad entrare.

Alla guida ci accolse un signore anziano di nome Peter: aveva pochi capelli bianchi ai lati e dei baffi ben curati.

Un perfetto Alfred Pennyworth, insomma… solo un po’ più grasso. [N.d.A. Maggiordomo di Batman]

Ci disse che aveva ottenuto l’autorizzazione dalla provincia dell’Ontario per atterrare vicino casa nostra e in uno spazio superiore ai 200 mq e che, a meno che non ci fosse stata una bomba a bordo, potevamo rilassarci e goderci il viaggio in tutta tranquillità.

Macabro senso dell’umorismo, aggiunsi mentalmente alla descrizione dell’uomo.

Poi, ci aiutò a disporre le valigie in una cappelliera apposita e sparì nella sala di comando.

 

Mi sistemai in uno dei dodici sedili accanto al finestrino con le cuffie nelle orecchie.

Sin da piccola, mi era sempre piaciuto osservare i paesaggi e vederli susseguirsi sotto il mio sguardo.

Mia madre, invece, prese posto su uno dei sedili più vicini alla sala di comando e vidi che chiacchierava con il pilota attraverso la tendina, nervosa.

Durante quei pochi viaggi che avevamo fatto, non ricordavo che fosse stata così ansiosa.

Scrollai le spalle. Non me ne importava molto.

Appoggiai la testa al finestrino e riflettei un po’ su cosa significasse questa partenza per me.

Napanee era la città dove ero nata [N.d.A. So che nella realtà non è così, ma per evitare complicanze, ho deciso di cambiare questa piccola cosa], dove mia madre mi aveva cresciuta come un maschiaccio, dove ero andata a scuola, dove avevo scoperto la mia profonda avversione per il formaggio, dove avevo preso a pugni un mucchio di ragazzi e dove ero stata licenziata perché avevo lasciato cadere accidentalmente un fottuto culo di pollo fritto nel caffè della mia professoressa di chimica.

Sarebbe cambiato, tutto questo?

No.

Sarebbe cambiato il clima, sarebbe cambiata la città, sarebbero cambiate le persone, ma, di certo, non sarei cambiata io.

Tutto sarebbe diventato mutevole all’esterno, ma, dentro di me, sarei rimasta per sempre me stessa.

Mi sarei sempre vestita come un maschiaccio, avrei sempre arricciato il naso davanti ad un pezzo di formaggio, avrei sempre preso a pugni i ragazzi fuori e dentro la scuola e avrei sempre fatto cadere cose disgustose nelle bevande delle persone che mi stavano antipatiche… sempre accidentalmente, naturalmente.

Lasciai che il viaggio trascorresse, tra pensieri, polli fritti e brani in riproduzione casuale.

 

***

Judy's pov

 

«Come stai, Peter?» chiesi, rivolgendomi alla tendina rossa che ci separava.

 

«Oh, bene, signora Lavigne. Sono ancora in servizio, come può vedere. Lei?»

 

«Peter… dopo oltre diciott’anni che ci conosciamo, mi dai ancora del lei?»

 

«Mi perd… perdonami, Judy.» Sentii la sua risata cordiale.

                                                      

Lo ricambiai. «Grazie.» Mi girai verso Avril, completamente addormentata sul suo sedile con le cuffie nelle orecchie. «Comunque, non potrebbe andare peggio, Peter.», gli dissi.

 

Non potrebbe andare peggio.

 

 

 

***

 

 

Avril's pov

 

 

E così, alle ore 16:52, dopo seicentocinquantadue km e a malapena un’ora e un quarto di viaggio, lasciammo una città di cinquemila abitanti per toccare il suolo di una che ne aveva quarantacinquemila in più.

Sotto una coltre di nuvole grigie e minacciose, si nascondeva la città di Harrisburg.

Eravamo in Pennsylvania, uno dei cinquanta Stati degli Stati Uniti d’America.

Peter atterrò su un terrazzo e, con educazione, aiutò a scendere sia me che mia madre.

 

Ci guidò attraverso un’uscita laterale e poi, spalancò un cancello nero in ferro battuto.

Un enorme viale si stagliava di fronte a noi.

Vasi, piante rampicanti, alberi, fiori di ogni genere erano ovunque. Ero accecata da tutte queste tonalità di verde.

Fu un attimo e accanto al cancello vidi una colonna in marmo bianco, con sopra inciso “Villa Taubenfeld”.

Perplessa, vidi Peter farci un cenno, col sorriso sulle labbra, per invitarci a seguirlo.

Mia madre mi strinse al suo braccio e, iniziando a camminare, le bisbigliai: «Ma questa… è una villa?»

 

«Vedo che sei particolarmente perspicace, oggi, amore.» mi rispose.

 

«Non è divertente.» La strattonai appena. «Mi avevi detto che avresti insegnato in una scuola privata!»

 

«Ssh, abbassa la voce.» ordinò. «Sì, è vero, ti avevo detto così. Ma la sostanza non cambia: insegnerò in questa casa, privatamente…» disse, sottolineando l’ultima parola. «…A te e ai ragazzi che ci abitano.»  

 

«COSA?!» gridai, facendo spaventare il povero Peter. Tornai a bisbigliare. «Questo vuol dire che non andrò in una normale scuola pubblica e che la mia insegnante sarai tu?»

 

Annuì. Due volte. E neanche mi guardò in faccia.

Mi staccai dalla sua presa e iniziai a camminare spedita verso quello che doveva essere l’ingresso, superando lei e Peter, che mi guardò stranito.

 

Potevo passare sopra il fatto che mia madre non mi avesse detto tutto questo subito.

Potevo passare sopra il fatto che, per fare seicentocinquantadue km, avessi preso un jet privato e non un aereo, come i comuni mortali.

Ma non potevo passare sopra il fatto di avere mia madre come insegnante.

 

C’era sempre stato un tacito accordo tra noi due, per quanto riguardava la mia educazione scolastica: io cercavo – con scarsi risultati – di andare decentemente a scuola e lei cercava – con altrettanti scarsi risultati – di non impicciarsi nei fatti miei.

E adesso questo patto era sparito.

Alzai gli occhi e, accanto alla porta d’ingresso, vidi un ragazzo che mi sorrideva con aria gentile.

Era molto alto, e aveva una mascella squadrata incorniciata da dei capelli castano chiaro, quasi rossicci.

Per ultimo, osservai gli occhi. Erano di un verde brillante.

«Piacere, io sono Kevin.», si presentò, quando gli passai accanto. «Benvenuta nel Commonwealth of Pennsylvania

 

«Sì, sì, piacere e grazie per il comitato di benvenuto.» gli risposi, sorpassandolo velocemente.

Ero infuriata con tutti e non avevo bisogno di chiacchiere.

Entrai senza troppe cerimonie e rimasi allibita: quella casa era mastodontica e avevo visto solo un pezzo dell’ingresso e le scale.

Queste ultime erano a chiocciola, con la ringhiera in ferro battuto e un tappeto che copriva gli scalini.

Delle tende color rosso vermiglio lasciavano filtrare una luce soffusa, mentre, a terra, un caldo parquet appariva lucidissimo.

Tutto questo era niente, comparato al fantastico lampadario di cristallo che era posizionato al centro del soffitto.

Mentre rimanevo totalmente a bocca aperta, mia madre mi raggiunse, con l’affanno.

 

«Non provare mai più ad…» iniziò a dire, ma fu interrotta dalla vista di un uomo.

Aveva dei capelli molto ordinati e ingrigiti dall’età, ma portava dei baffi e un pizzo molto curato, che gli davano un’aria ancora giovane.

Gli occhi, azzurri, erano magnetici.

Ci sorrise in modo educato. Tutto in lui esprimeva raffinatezza.

«Prego, accomodiamoci pure di là.»

 

Cavolo, persino la voce era affascinante.

Così, nella sua giacca nera, ci invitò a sedere su un divano in pelle marrone ed incrociò le gambe, elegantemente. Il ragazzo che avevo liquidato prima si sedette accanto a lui.

«Ben trovate nella nostra umile dimora.» disse, sorridendo affabilmente.

“Umile”, pensai. “Mica tanto.”

«Io sono il duca Mark James Tiberius Taubenfeld, duca della contea di Dauphin e padrone di questa villa, dove alloggerete personalmente sotto la mia custodia.»

Poi, indicò il ragazzo. «Questo è Kevin. Ha lavorato qui sin da bambino, ma ormai è uno di famiglia.»

 

«Grazie, duca.» gli rispose.

 

«Beh… tuttavia, all’appello, manca una persona…»

 

Il duca fu interrotto da dei passi provenienti dall’esterno e da una voce incazzata al telefono.

«No, Matt, non lo so, quando. Ti ho già detto che ho da fare. No, cazzo, ti richiamo io!»

La comunicazione s’interruppe. Così come il mio respiro. Mi si mozzò in gola.

 

«Scusami, papà, non ho potuto fare prima.»

 

Io conoscevo già questa voce.

 

«Oh, non ti preoccupare, figliolo. Ti presento le nostre nuove ospiti.», disse, facendo un cenno verso di noi.

«Signore, ho l’onore di presentarvi mio figlio e il mio unico erede.»

 

Mi girai.

Oh, no, cazzo. Non poteva essere lui…

 

«Evan Taubenfeld.»

 

***

 

 

 

Went back home again.
This sucks, gotta pack up and leave again,
say goodbye to all my friends.
Can't say when I'll be there again.
Its time now, I turn around.
Turn my back on everything.
Turn my back on everything.
[
]

Everything's changing, when I turn around,
I'm out of my control,
I'm a mobile.
Everything's changing, out of what I know
Everywhere I go,
I'm a mobile.
Everywhere I go,
I'm a mobile.




 

Sono tornata di nuovo a casa. 
Che schifo, devo fare i bagagli e ripartire ancora, 
dire addio a tutti i miei amici. 
Non so dire quando tornerò. 
Adesso è ora di voltarsi. 
Volto le spalle a tutto. 
Volto le spalle a tutto. 
[…]
Tutto sta cambiando, quando mi volto,

sono senza controllo,

sono mutevole. 
Tutto sta cambiando, fuori da ciò che conosco 
Ovunque vada, sono mutevole. 

Ovunque vada, sono mutevole.

   
 
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