Buonsalve
a tutti!
Dite
un po’, da uno a dieci, quanto siete
contenti che la scuola sia finita?
Io centordici. (?)
Allora,
in questo capitolo saranno
introdotti ben tre nuovi personaggi.
Alcuni
dovrebbero non conoscersi e invece
parlano tra loro… chissà.
Il
mistero s’infittisce ancora di più. *risata
malefica*
Volevo
dirvi solo una piccola cosuccia,
prima di scomparire: nella storia ci saranno multipli riferimenti al
libro “Colpa
delle Stelle”, di John Green. [Come potete apprendere dalla
bio, è il mio libro
preferito, lol.]
Ovviamente,
nessuno è obbligato a leggerlo,
ma se volete capire meglio la fan fiction, vi consiglio di farlo.
Anche
perché, il libro merita molto.
Bene,
ho finito.
Have
a good day. <3
~
Cruel Heart.
***
***
Napanee,
Ontario, Canada, 5 Febbraio 2001
Avril's pov
Aprire
gli occhi richiedeva
un’energia sovrumana.
Mi
costava talmente tanto
che, nel momento in cui li aprivo, già li richiudevo per
abbandonarmi ad un
sonno ad intermittenza, per un tempo che mi sembrava durare giorni,
settimane.
La
testa era stranamente
leggera, come se fosse stata un palloncino libero di volare in aria.
Mi
girai su un fianco, con
le mani sotto la guancia, e percepii qualcosa di morbido lambirmi la
pelle.
Riuscivo
a sentire una voce femminile
e dei rumori forti, insieme con un potente odore di lillà.
Dei
ricordi cominciarono ad
affiorare: grida, rabbia, un vuoto nel cuore.
Con
gli occhi chiusi,
sentivo intorno a me svariate imprecazioni e udii anche un rumore di
qualcosa
che sbatteva contro la porta della mia stanza.
Di
nuovo rapita da delle
immagini, rividi un bancone argentato, dei capelli biondi e degli occhi
color
ghiaccio che mi fissavano.
Aprii
gli occhi di scatto, ma,
prima di richiuderli, cercai di mettere a fuoco.
L’immagine
era confusa; non
riuscivo a scorgere niente, solo macchie bianche e indistinte.
Poi,
tornò ancora
quell’odore di lillà e riuscii a percepire davanti
a me una figura china.
Abbassai
le palpebre,
convinta di aver sentito qualcuno sussurrare il mio nome.
Mi
sforzai di tenere gli
occhi aperti.
Non
riuscivo ancora a
scorgere i contorni del viso davanti a me, perché avevo la
testa rivolta verso
il cuscino.
Continuavo
a vedere delle
immagini sfocate: qualcosa di verde, forse degli occhi.
Poi,
una voce mi sussurrò
delle parole che non capivo. Non riuscivo a parlare.
Quel
profumo… Era l’odore
della pelle di qualcuno, che stava molto vicino al mio viso.
Nonostante
fosse
persistente, quella fragranza mi dava un senso di sicurezza e di
conforto.
Cercai
di focalizzare
l’attenzione, ma non avevo ancora una visuale nitida.
«Avril,
svegliati.» sussurrava la voce. «Apri gli occhi,
amore.»
E
così feci.
Aprii gli
occhi e vidi accanto a me il viso di mia madre.
Improvvisamente,
come se il
mondo fosse stato risucchiato, tutto intorno a me diventò
silenzioso.
La
testa, adesso, pesava
tonnellate. Era pesante come pietra, anzi, come mille pietre messe
assieme.
Una
fitta cominciò a
martellare.
No,
non di nuovo…
Spalancai
gli occhi.
Cercavo
di aggrapparmi a qualcosa,
ma non riuscivo più a distinguere i suoni.
Non
riuscivo più a
distinguere le sfumature dei colori.
Tutto
intorno a me era
bianco, di un bianco accecante.
Percepivo
solo la fitta
nella mia testa. Più forte,
più forte.
Sempre più forte.
Fatela
smettere, vi prego…
Allungai la
mano verso quella che doveva essere mia
madre.
«Ma-Mamma…
pillole…» riuscii ad articolare.
Non sentivo
neanche la mia voce. Forse era così che
dovevano sentirsi le persone mute.
Il dolore non
accennava a diminuire. Era incessante,
continuo, come se volesse ricordarmi che lui poteva essere dentro di me
ogni
volta che lo avesse desiderato.
Dopo qualche
secondo, sentii delle piccole capsule solide
e un liquido freddo scendermi in gola.
Soltanto
allora, il dolore cominciò ad essere meno persistente
e meno accecante.
Tutto si fece
buio, di uno scuro rassicurante, e mi
riaddormentai.
Il sonno si
fece ancora più discontinuo. Pezzi di ricordi
si susseguivano frenetici, troppo fugaci per cercare di metterli a
fuoco.
Riuscii,
miracolosamente, a risvegliarmi.
La prima cosa
che vidi furono gli occhi verdi di mia
madre riempirsi di lacrime.
«Ehi.»
sussurrò, accarezzandomi dolcemente i capelli.
«Ehi.»
le risposi, con la bocca impastata. «Dove sono?»
«Nella
tua camera.»
Distolsi gli
occhi dai suoi.
Mi guardava
con un amore tale che era impossibile
sostenere il suo sguardo.
«Che
è successo?»
«Beh…
ti ricordi che dobbiamo partire, no? Io stavo
preparando le valigie. Ero entrata in camera tua per prendere qualche
vestito
pesante e ho capito che ti stavi per svegliare. Così, mi
sono avvicinata al
letto e poi, dopo qualche minuto… ho visto… ho
visto i tuoi occhi spalancarsi.
Le pupille sono diventate così grandi, che
l’azzurro delle tue iridi non si
riconosceva più.» Singhiozzò.
«Hai avuto… hai avuto un attacco.»
Chinai la
testa. Mi sentivo come se stessi fluttuando in
aria.
«Wow,
siamo a quota due, questo mese. Fantastico.»
borbottai.
«Sì,
tesoro. Sono stata così
in ansia… Mi ha preso alla sprovvista e… non
sapevo se ti
saresti risvegliata o no.»
«Beh…
immagino che abbia fatto un sonnellino più lungo
del solito.»
Sulla fronte,
le si formò la classica ruga che aveva
quando sorrideva. «Credo di sì.» mi
rispose, continuando a piangere.
Sollevai
pianissimo il busto, cercando di mettermi a sedere.
Volevo evitare giramenti di testa, anche se una sensazione di malessere
si
stava diffondendo nello stomaco.
«Ce
la fai ad alzarti?» mi chiese, asciugandosi le
lacrime e sorreggendomi prontamente con le sue braccia.
«Sì,
sì, non preoccuparti, faccio da sola. E, mamma…
basta piangere.»
Annuì
appena, singhiozzando leggermente. «Va bene.»
Scostò le braccia e mi baciò sulla testa, uscendo
molto lentamente dalla
stanza.
Quel gesto mi
rimase fulmineamente impresso nella mente: avevo
già provato la sensazione di sentire
delle labbra appoggiate sui miei capelli.
Anziché
alzarmi completamente, rimasi distesa supina.
Il cotone
morbido del cuscino avvolse la mia schiena come
una seconda pelle.
Un tessuto
appena rugoso mi toccò il braccio e mi voltai,
per capire di cosa si trattasse.
Fu allora che
la vidi: una sciarpa di lana blu scura.
La presi tra
le mani ed inalai lentamente l’odore
pregnante.
Sorrisi.
Sapeva di notte, di fresco, del suo collo…
Sapeva di lui.
Ricomposi i
pezzi del puzzle e ricordai tutto.
O
almeno…
quasi tutto.
Come si
chiamava il ragazzo? Ivan? Eran?
Ero sicura
che me l’avesse detto, ma non riuscii ad
evocare il suo nome.
Ancora una
volta, totalmente indifferente agli stimoli
esterni, mi cinsi le ginocchia con un braccio e me le portai al petto,
mentre
fissavo il muro color crema di fronte a me.
Gli attacchi
erano iniziati cinque anni fa, tre settimane
dopo il mio dodicesimo compleanno.
Non potevo
raccontare cosa successe quel giorno, perché non
lo ricordavo.
Sapevo solo
che, da quel giorno, una parte del mio
cervello non ricevette più l’ossigeno per brevi
secondi, e io non ricordavo più
cosa fosse accaduto in quel lasso di tempo.
Nero. Buio. Vuoto.
Questo
fenomeno si ripeté sempre da allora, e ovviamente,
continuava a non esserci una data precisa in cui io potessi dire:
“Ecco,
succederà oggi.”
Gli attacchi
andavano e venivano, a loro piacimento.
Sembrava volessero dirmi: “Decidiamo noi quando arrivare e tu
non puoi farci
niente. Non puoi controllarci, piccola lampadina guasta.”
«Avril,
vestiti. Il jet atterrerà tra poco vicino casa e
dobbiamo essere pronte.»
Risvegliata
dalla voce di mia madre, sciolsi il groviglio
delle mie braccia e mi alzai lentamente.
Scelsi una
maglietta a caso e dei pantaloni altrettanto
anonimi. Non ne guardai neanche il colore. Mi ricordai soltanto di
prendere il
cellulare e le mie cuffie.
Non avevo
bisogno di nient’altro.
Poi, mi
avviai verso la porta d’ingresso.
Medici,
chirurgi, psichiatri non erano riusciti a dirci
niente. Neanche una singola spiegazione a cui aggrapparci. Mi avevano
prescritto solo delle pillole, che dovevo assumere subito, ogni
qualvolta
l’attacco si ripresentava.
In tutto
questo, non c’era nessuna causa apparente, né
tantomeno nessun effetto collaterale. Nessuna infezione, nessuna
malattia,
nessuna patologia. Niente.
E
così, la mia vita andava avanti, tra pasticche,
lacrime, e tenebre momentanee.
Speravo solo
di non arrivare mai a quel punto.
Il punto in
cui i miei demoni mi avrebbero detto: “Sei
sempre stata una lampadina guasta, difettosa. Inutile.
E tu sai benissimo cosa facciamo con gli oggetti
danneggiati, l’hai sempre saputo. Non servi più. La piccola lampadina
è da buttare.”
***
Dieci minuti
dopo che mia madre ed io eravamo uscite all’esterno
con le valigie in mano ed imbacuccate dalla testa ai piedi,
arrivò il jet.
Notai che
assomigliava di più ad un mostro marino con
l’elica.
Era molto
più grosso e alto rispetto agli aeri normali.
Mi chiedevo come diavolo facesse a volare.
Non solo
trascinai la valigia, ma anche la mia paurosa
genitrice, che era ancora più
timorosa di me ad entrare.
Alla guida ci
accolse un signore anziano di nome Peter:
aveva pochi capelli bianchi ai lati e dei baffi ben curati.
Un
perfetto Alfred
Pennyworth, insomma… solo un po’ più
grasso. [N.d.A. Maggiordomo di Batman]
Ci disse che
aveva ottenuto l’autorizzazione dalla
provincia dell’Ontario per atterrare vicino casa nostra e in
uno spazio
superiore ai 200 mq e che, a meno che non ci fosse stata una bomba a
bordo,
potevamo rilassarci e goderci il viaggio in tutta
tranquillità.
Macabro senso
dell’umorismo, aggiunsi
mentalmente alla descrizione dell’uomo.
Poi, ci
aiutò a disporre le valigie in una cappelliera
apposita e sparì nella sala di comando.
Mi sistemai
in uno dei dodici sedili accanto al
finestrino con le cuffie nelle orecchie.
Sin da
piccola, mi era sempre piaciuto osservare i
paesaggi e vederli susseguirsi sotto il mio sguardo.
Mia madre,
invece, prese posto su uno dei sedili più
vicini alla sala di comando e vidi che chiacchierava con il pilota
attraverso
la tendina, nervosa.
Durante quei
pochi viaggi che avevamo fatto, non
ricordavo che fosse stata così ansiosa.
Scrollai le
spalle. Non me ne importava molto.
Appoggiai la
testa al finestrino e riflettei un po’ su
cosa significasse questa partenza per me.
Napanee era
la città dove ero nata [N.d.A. So che nella
realtà non è così, ma per evitare
complicanze, ho deciso di cambiare questa
piccola cosa], dove mia madre mi aveva cresciuta come un maschiaccio,
dove ero
andata a scuola, dove avevo scoperto la mia profonda avversione per il
formaggio, dove avevo preso a pugni un mucchio di ragazzi e dove ero
stata
licenziata perché avevo lasciato cadere accidentalmente
un fottuto culo di pollo fritto nel
caffè della mia professoressa di chimica.
Sarebbe
cambiato, tutto questo?
No.
Sarebbe
cambiato il clima, sarebbe cambiata la città, sarebbero
cambiate le persone, ma, di certo, non sarei cambiata io.
Tutto sarebbe
diventato mutevole
all’esterno, ma, dentro di me, sarei rimasta per
sempre me stessa.
Mi sarei
sempre vestita come un maschiaccio, avrei sempre
arricciato il naso davanti ad un pezzo di formaggio, avrei sempre preso
a pugni
i ragazzi fuori e dentro la scuola e avrei sempre fatto cadere cose
disgustose
nelle bevande delle persone che mi stavano antipatiche…
sempre accidentalmente,
naturalmente.
Lasciai che
il viaggio trascorresse, tra pensieri, polli
fritti e brani in riproduzione casuale.
***
Judy's pov
«Come
stai, Peter?» chiesi,
rivolgendomi alla tendina rossa che ci separava.
«Oh,
bene, signora Lavigne. Sono
ancora in servizio, come può vedere. Lei?»
«Peter…
dopo oltre
diciott’anni che ci conosciamo, mi dai ancora del
lei?»
«Mi
perd… perdonami, Judy.» Sentii
la sua risata cordiale.
Lo ricambiai.
«Grazie.» Mi
girai verso Avril, completamente addormentata sul suo sedile con le
cuffie
nelle orecchie. «Comunque, non potrebbe andare peggio,
Peter.», gli dissi.
Non potrebbe
andare peggio.
***
Avril's pov
E
così, alle ore 16:52, dopo seicentocinquantadue km e a
malapena un’ora e un
quarto di viaggio, lasciammo una città di cinquemila
abitanti per toccare il
suolo di una che ne aveva quarantacinquemila in più.
Sotto
una coltre di nuvole grigie e minacciose, si nascondeva la
città di Harrisburg.
Eravamo
in Pennsylvania, uno dei cinquanta Stati degli Stati Uniti
d’America.
Peter
atterrò su un terrazzo e, con educazione, aiutò a
scendere sia me che mia
madre.
Ci
guidò
attraverso un’uscita laterale e poi, spalancò un
cancello nero in ferro
battuto.
Un
enorme viale si
stagliava di fronte a noi.
Vasi,
piante
rampicanti, alberi, fiori di ogni genere erano ovunque. Ero accecata da
tutte
queste tonalità di verde.
Fu
un attimo e accanto
al cancello vidi una colonna in marmo bianco, con sopra inciso “Villa Taubenfeld”.
Perplessa,
vidi Peter
farci un cenno, col sorriso sulle labbra, per invitarci a seguirlo.
Mia
madre mi
strinse al suo braccio e, iniziando a camminare, le bisbigliai:
«Ma questa… è
una villa?»
«Vedo
che sei
particolarmente perspicace, oggi, amore.» mi rispose.
«Non
è divertente.»
La strattonai appena. «Mi avevi detto che avresti insegnato
in una scuola
privata!»
«Ssh,
abbassa la
voce.» ordinò. «Sì,
è vero, ti avevo detto così. Ma la sostanza non
cambia:
insegnerò in questa casa, privatamente…»
disse, sottolineando l’ultima parola.
«…A te e ai ragazzi che ci abitano.»
«COSA?!»
gridai,
facendo spaventare il povero Peter. Tornai a bisbigliare.
«Questo vuol dire che
non andrò in una normale scuola pubblica e che la mia
insegnante sarai tu?»
Annuì.
Due volte.
E neanche mi guardò in faccia.
Mi
staccai dalla
sua presa e iniziai a camminare spedita verso quello che doveva essere
l’ingresso,
superando lei e Peter, che mi guardò stranito.
Potevo
passare sopra
il fatto che mia madre non mi avesse detto tutto questo subito.
Potevo
passare
sopra il fatto che, per fare seicentocinquantadue km, avessi preso un
jet privato
e non un aereo, come i comuni mortali.
Ma
non potevo
passare sopra il fatto di avere mia madre come insegnante.
C’era
sempre stato
un tacito accordo tra noi due, per quanto riguardava la mia educazione
scolastica: io cercavo – con scarsi risultati – di
andare decentemente a scuola
e lei cercava – con altrettanti scarsi risultati –
di non impicciarsi nei fatti
miei.
E
adesso questo patto
era sparito.
Alzai
gli occhi e,
accanto alla porta d’ingresso, vidi un ragazzo che mi
sorrideva con aria
gentile.
Era
molto alto, e
aveva una mascella squadrata incorniciata da dei capelli castano
chiaro, quasi
rossicci.
Per
ultimo,
osservai gli occhi. Erano di un verde brillante.
«Piacere,
io sono
Kevin.», si presentò, quando gli passai accanto.
«Benvenuta nel Commonwealth
of Pennsylvania.»
«Sì,
sì, piacere e
grazie per il comitato di benvenuto.» gli risposi,
sorpassandolo velocemente.
Ero
infuriata con
tutti e non avevo bisogno di chiacchiere.
Entrai
senza
troppe cerimonie e rimasi allibita: quella casa era mastodontica
e avevo visto solo un pezzo dell’ingresso e le scale.
Queste
ultime
erano a chiocciola, con la ringhiera in ferro battuto e un tappeto che
copriva
gli scalini.
Delle
tende color
rosso vermiglio lasciavano filtrare una luce soffusa, mentre, a terra,
un caldo
parquet appariva lucidissimo.
Tutto
questo era
niente, comparato al fantastico lampadario di cristallo che era
posizionato al
centro del soffitto.
Mentre
rimanevo
totalmente a bocca aperta, mia madre mi raggiunse, con
l’affanno.
«Non
provare mai
più ad…» iniziò a dire, ma
fu interrotta dalla vista di un uomo.
Aveva
dei capelli
molto ordinati e ingrigiti dall’età, ma portava
dei baffi e un pizzo molto
curato, che gli davano un’aria ancora giovane.
Gli
occhi,
azzurri, erano magnetici.
Ci
sorrise in modo
educato. Tutto in lui esprimeva raffinatezza.
«Prego,
accomodiamoci
pure di là.»
Cavolo,
persino la voce era affascinante.
Così,
nella sua
giacca nera, ci invitò a sedere su un divano in pelle
marrone ed incrociò le
gambe, elegantemente. Il ragazzo che avevo liquidato prima si sedette
accanto a
lui.
«Ben
trovate nella
nostra umile dimora.» disse, sorridendo affabilmente.
“Umile”,
pensai. “Mica tanto.”
«Io
sono il duca Mark
James Tiberius Taubenfeld, duca della contea di Dauphin e padrone di
questa
villa, dove alloggerete personalmente sotto la mia custodia.»
Poi,
indicò il
ragazzo. «Questo è Kevin. Ha lavorato qui sin da
bambino, ma ormai è uno di
famiglia.»
«Grazie,
duca.»
gli rispose.
«Beh…
tuttavia, all’appello,
manca una persona…»
Il
duca fu
interrotto da dei passi provenienti dall’esterno e da una
voce incazzata al
telefono.
«No,
Matt, non lo
so, quando. Ti ho già detto che ho da fare. No, cazzo, ti
richiamo io!»
La
comunicazione s’interruppe.
Così come il mio respiro. Mi si mozzò in gola.
«Scusami,
papà,
non ho potuto fare prima.»
Io
conoscevo già questa voce.
«Oh,
non ti preoccupare, figliolo. Ti presento le
nostre nuove ospiti.»,
disse, facendo un
cenno verso di noi.
«Signore,
ho l’onore di presentarvi mio figlio e il mio
unico erede.»
Mi
girai.
Oh,
no, cazzo. Non poteva essere lui…
«Evan
Taubenfeld.»
***
Went back home again.
This
sucks, gotta pack up and leave again,
say
goodbye to all my friends.
Can't say when I'll be there
again.
Its
time now, I turn around.
Turn
my back on everything.
Turn
my back on everything.
[…]
Everything's changing, when I turn around,
I'm
out of my control,
I'm
a mobile.
Everything's
changing, out of what I know
Everywhere
I go,
I'm
a mobile.
Everywhere
I go,
I'm
a mobile.
Sono
tornata di nuovo a casa.
Che
schifo, devo fare i bagagli e ripartire
ancora,
dire
addio a tutti i miei amici.
Non
so dire quando tornerò.
Adesso
è ora di voltarsi.
Volto
le spalle a tutto.
Volto
le spalle a tutto.
[…]
Tutto
sta cambiando, quando
mi volto,
sono
senza controllo,
sono
mutevole.
Tutto
sta cambiando, fuori
da ciò che conosco
Ovunque
vada, sono mutevole.
Ovunque
vada, sono mutevole.