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Autore: Calenzano    09/06/2014    1 recensioni
Keana, intellettuale del distretto 5, introversa e inquieta. Con tanta passione per i grandi ideali quanta sfiducia in sé stessa. E con il tacito desiderio di una sorella minore. Non certo il tributo ideale per i Giochi. Ma quando Capitol City va a colpire nel profondo, non può più permettersi di restare a guardare.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovi Tributi, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Vennero dense tenebre su tutta la terra d'Egitto, per tre giorni.

Non si vedevano più l'un l'altro, e per tre giorni nessuno poté muoversi dal suo posto.

(Es 10,22)

 

 

Ci avviamo alla volta della Cornucopia, dobbiamo approfittare della loro assenza. Camminiamo in silenzio, immerse ognuna nei propri pensieri. Scuoto di nuovo la testa, alludendo al tributo traditore. Codrina non fa commenti, ma immagino sia d'accordo con me. Eppure, sotto sotto, mi ritrovo a cercare di immaginare cosa potrei fare io. Se invece di Codrina, come junior, avessi un perfetto sconosciuto. E se dalla sua morte dipendesse la mia sopravvivenza. Mi ripugnerebbe lo stesso così tanto...? Non riesco a darmi risposta. Ne ho troppa paura. Un abisso è il cuore dell'uomo...

 

Deviamo dal percorso che ho fatto io due notti fa nel mio blitz, voglio arrivare il prima possibile a destinazione, colpire e sparire, così che al loro ritorno trovino solo una montagna di ceneri fumanti.

Svolto in una strada, ma Codrina mi richiama: “No, qua è chiuso. E' dove ho cercato di passare il primo giorno.”

In effetti la via è completamente ostruita dalle macerie di un palazzo crollato. “Però possiamo cercare un modo per tagliare.” Suggerisco, restìa alla prospettiva di perdere tempo. Scorro con lo sguardo gli edifici circostanti, e una palazzina pare praticabile. L'interno rivela un'ampia sala occupata da quanto resta di un bancone, e una superficie rettangolare di vetro e compensato, sembrerebbe una bacheca in frantumi.

Senza preavviso, tutto diventa rapidamente buio, e i contorni degli oggetti si offuscano. Sul momento temo di avere un malore, ma l'espressione sbigottita della mia compagna mi conferma che la luce è davvero calata all'improvviso, come se qualcuno avesse girato un interruttore. Mi volto verso l'entrata che abbiamo appena oltrepassato, distinguendola a fatica. Non può essere già sera, un attimo fa splendeva il sole accecante del pomeriggio. Eppure ora ci vediamo a malapena. E non è l'oscurità pulita della notte, è una tenebra fitta, opprimente, viscosa come inchiostro. La cosa non promette nulla di buono, e restiamo ferme dove siamo, all'erta.
“Che significa?” Bisbiglio, d'istinto ho abbassato la voce, ma suona comunque forte nella stanza semivuota. Codrina non può che stringersi nelle spalle. Per quanto rovente, la luce del sole era rassicurante, e trovarmi immersa nel buio mi fa sentire estremamente vulnerabile. Anche la grande massa del bancone sembra improvvisamente lugubre, come un grande animale arenatosi, morente.

I minuti passano senza che accada nulla, e poco a poco riprendiamo a muoverci. Cerco la spalla della mia amica per non perdere il contatto, mentre ci inoltriamo a tentoni nell'edificio, i muri coperti di piastrelle quadrate. Nelle stanze che si aprono simmetriche ai lati delle corsie si intravedono reti di ferro da letto, qualcuna con ancora il suo materasso lurido sopra, e armadietti con le ante che penzolano, scassate. Dovrebbe forse essere una specie di struttura sanitaria, di certo è alquanto labirintica.
Giriamo diversi angoli, attraversiamo sale e camere, percorriamo lunghi corridoi ingombri di bidoni rovesciati e tappeti scivolosi di carta straccia, con la mia risolutezza che si fa sempre più labile, finché mi rendo conto di aver perso del tutto l'orientamento. Credevo di stare muovendoci in direzione della facciata opposta a quella dell'entrata, ma abbiamo svoltato talmente tante volte che non so più dove dovrebbe restare rispetto alla nostra posizione attuale. Mi soffermo titubante all'ennesimo incrocio tra due passaggi, e tento di fare mente locale, rapidamente perché Codrina non si accorga del mio smarrimento. Magari è il caso di tornare indietro, le dico, almeno fino a una sala dove ricordo di aver visto una sorta di poltrona odontoiatrica cui mancava buona parte dello schienale, da là sono abbastanza sicura di saper ritrovare la strada. Quando giungiamo al punto che ho in mente, però, non c'è proprio niente del genere. Forse mi sono sbagliata, era più avanti? Continuiamo a camminare, ma più procediamo e meno sono sicura di stare andando dalla parte giusta. Infine nel buio individuo qualcosa di chiaro, e il cuore quasi si impenna per il sollievo. Ma non è la poltrona, bensì un'antiquata vasca da bagno, riversa sul pavimento, che non rammento assolutamente di avere visto. Ergo, di qua non ci siamo mai passate. Mi arresto di botto, ormai in agitazione. Nell'oscurità, senza punti di riferimento, senza alcuna differenza tra interno ed esterno, la palazzina sembra diventata un unico, tenebroso budello tutto uguale, con le pareti chilometriche che si stringono inesorabili a stritolarci. Per un bruttissimo momento, ho l'impressione che sia davvero così, e fatico a respirare l'aria immobile, calda e viziata.

“Forse è meglio restare qui finché non torna la luce...” Suggerisce Codrina, anche lei a bassa voce, e non mi resta che arrendermi al buon senso della sua proposta.

 

Mortificata per la figuraccia, mi accosto alla parete, con l'intento di farmi scivolare a sedere. Lo strato di rifiuti unticci e maleodoranti, e, chissà, forse pure tossici, che copre l'impiantito mi dissuade però subito, e mi limito a puntellarmi contro le piastrelle lisce. Forse non mi sono ancora ripresa del tutto dalla ferita e dagli effetti del farmaco, cerco di giustificarmi tra me; in effetti avverto un sottile ma persistente senso di stordimento, come la nebbia sottile che talvolta, nelle sere d'autunno, striscia per le strade del nostro distretto, e mi irrita il fatto di non riuscire a liberarmene. Seguono lunghi minuti di silenzio, che percepisco pesante. Cerco un modo di romperlo, magari buttando là qualche osservazione autoironica, ma proprio mentre sto cercando qualcosa che non suoni patetico, mi rendo conto di vederci assai meglio. Dalla finestra più vicina, infatti, sta filtrando un chiarore che getta un alone irreale nella stanza. Ci avviciniamo, e sbirciamo attraverso i vetri polverosi per individuarne la fonte.

Un grande fascio luminoso, proveniente dall'antenna su cui sono salita il primo giorno per osservare l'arena, sta spostandosi lentamente tra le facciate degli edifici, disegnandole nette per qualche attimo prima di farle ripiombare nel buio. Sembra un enorme proiettore, e mi chiedo a che diamine serva. “Ci manca solo che li aiutino” borbotto, riferendomi ai Favoriti alla ricerca di vittime.

Poi però la luminescenza si arresta in un punto, e la luce cambia progressivamente diventando rossastra. In pochi secondi la struttura metallica puntata dal raggio passa dal suo colore scuro al rosso acceso, al bianco incandescente, e fonde collassando. Il calore deve essere tale che anche gli edifici vicini sviluppano dei principi d'incendio. Ci vuole poco a capire di cosa si tratta, non per nulla siamo del distretto 5. Con la scuola abbiamo visto più volte dei laser del genere, potenziati con l'uso di raggi X, usati in laboratorio per la ricerca sugli alti livelli di energia. Ma mai avrei potuto immaginarli usati per una trappola del genere. Il raggio torna del suo colore neutro, e ricomincia a spostarsi, cercando nuovi bersagli. Con compiacimento cattivo lo vedo dirigersi nella direzione dove abbiamo lasciato i Favoriti con il loro nuovo alleato, e là incenerire una serie di edifici, ma la soddisfazione dura poco. Il laser, una volta toccato il limitare della città, effettua un'ampia virata, e inizia a venire inesorabile dalla nostra parte, seminando una scia di incendi. I muri che ci circondano sembrano all'improvviso più inconsistenti della carta velina, visto il potenziale distruttivo. Anzi, davanti agli occhi mi balena la scena da incubo delle pareti in fiamme che crollano, intrappolandoci.

“Fuori, fuori!” Esclamo con voce strozzata, ma mi trovo subito impotente, e da dove? Se avessimo saputo come uscire di qua, saremmo già fuori. Abbranco il pannello della finestra e cerco di farlo scorrere, invano. Tiro con tutta la forza che ho, e il fianco mi lancia fitte di protesta, ma i massicci infissi metallici non si smuovono di un millimetro. Inveisco mille volte contro la mia idea di infilarci qua dentro, ci faremo una fine orrenda.

Nella confusione, quasi non sento che Codrina mi sta chiamando dalla porta. “Kea, guarda, di là!”

La raggiungo, sta indicando una porta a vetri, in fondo al corridoio, ora visibile grazie alla luce. Meno male che almeno una di noi due ha conservato la lucidità. Ma quando ci arriviamo la maledetta non si apre, e non me ne sorprendo. Ho il netto sospetto che tutte le porte di tutti gli edifici dell'arena in questo momento siano state ermeticamente sbarrate. Se sei dentro, resti dentro. Mi assale lo sconforto. Poi però, guardandomi attorno, mi cade l'occhio su un carrello d'acciaio opaco, abbandonato di traverso, poco distante. Non c'è bisogno di dire nulla, Codrina lo prende da una parte, io dall'altra, e lo trasciniamo davanti alla porta, nel cigolìo stridulo delle ruote. Lo afferriamo saldamente, preparandoci ad usarlo come ariete. “Pronta?” La sollecito, e al suo assenso inizio a spingere con vigore. Pochi passi in cui prendiamo velocità, quindi il carrello si schianta contro la porta con un gran botto, riecheggiando in tutto il corridoio. Il rinculo violento rischia di farci cadere entrambe, senza tuttavia che siano stati provocati grandi danni ai pannelli di vetro. Dobbiamo ripetere l'impatto più volte, finché non compare la prima incrinatura, che grazie alla nostra insistenza si allarga gradualmente in una ragnatela sempre più estesa, anche se la luce proveniente dall'esterno va minacciosamente aumentando. Carichiamo il carrello un'ultima volta, lasciandolo andare un attimo prima che sfondi la vetrata, facendo schizzare schegge ovunque. A calci allargo l'apertura, e Codrina ci si infila. Finalmente siamo fuori, su un lato dell'edificio. Appena il tempo di fare qualche metro, però, che la scena si illumina a giorno.

 

Il cerchio luminoso è sbucato al di sopra dei tetti e adesso è fermo sul palazzo di fronte. Sta cominciando a cambiare colore, tra poco farà partire la micidiale raffica di radiazioni. Non c'è tempo di fare niente, c'è solo una breve scalinata che porta a un casotto seminterrato, forse un magazzino della clinica, e là corriamo. Non provo neppure ad aprire la porta della baracca, ci limitiamo ad acquattarci sulle scale al di sotto del livello del suolo, sperando che basti. Con movimenti febbrili, strappo la giacca dallo zaino e la bagno con l'acqua della borraccia, e ce la getto addosso. Tento di riparare Codrina alla meglio, prima di nascondere viso e mani tra le pieghe dell'indumento. Dapprima è solo uno sfrigolio penetrante, poi la vampa infernale esplode, irradiando centinaia di gradi di calore. La luce è tale che la vedo anche con le palpebre chiuse, mentre il terreno attorno a noi si fa rovente. Benedico il dislivello che ci ripara, ma il caldo è così intollerabile che ho paura di perdere i sensi. Anche respirare all'interno della giacca è quasi impossibile, manca l'aria, mi sento soffocare. Poi, grazie al cielo, il raggio si placa, e dopo una pausa riparte per spazzare l'arena. Sul momento rabbrividisco, tanto repentino è il calo della temperatura. Sollevo la testa con cautela, e anche Codrina si districa dalla protezione improvvisata.

L'edificio di fronte a noi è ridotto a un moncone annerito e avvolto dal fumo nerastro, e anche quello in cui ci trovavamo poco fa sta bruciando. Persino l'asfalto della strada si è fuso, e ora sta solidificandosi in grandi bolle che scoppiano qua e là. Improvvisamente, così come era calata, l'oscurità si disperde, e il sole torna a brillare. Mi tiro su e risalgo le scale, ma fatico a pensare coerentemente. Fisso la devastazione attorno a noi, tossendo per le esalazioni bituminose, e stringo i pugni fino a sentire male. I nervi mi stanno cedendo, quanti altri orrori ci rovesceranno addosso prima che riusciamo a uscire di qua??? Anche stavolta l'abbiamo scampata per miracolo, ma per quanto ancora la fortuna potrà salvarci? Mi ritrovo a lanciare i peggiori insulti agli Strateghi e a tutta Capitol City a voce sempre più alta, fino ad urlare. Pensino quello che vogliono, me ne frego. “Vi siete divertiti abbastanza??? O volete spedirci contro qualcos'altro, già che ci siamo? Prego, non fate complimenti, siamo qui per questo!” Grido, fino a farmi dolere la gola riarsa.

Penso che i Capitolini si staranno davvero divertendo come matti davanti al mio sfogo, e questo mi fa imbestialire ancora di più. Poi mi costringo a darmi una calmata, gli Strateghi invece potrebbero prendermi in parola. Oltretutto, in un lampo di lucidità, realizzo che il nostro piano di incursione è andato letteralmente in fumo. Figuriamoci se la Cornucopia, centro vitale dell'arena, sarà stata toccata dal laser. I Favoriti quindi saranno tornati di nuovo da quella parte, anche solo per cercare riparo. Non basta che siano già tremendamente forti di loro, devono pure avvantaggiarli in maniera spudorata. Avverto lacrime di rabbia prudere agli angoli degli occhi, devo lottare per non cadere nello scoraggiamento.

Mentre sto ancora fremendo, mi sento toccare. Mi ero quasi scordata di Codrina, penso rimproverandomi, e mi volto pronta a rassicurarla, per quanto posso esserne capace in questo momento. Ma incontro uno sguardo sorprendentemente fermo. “Kea, stai tranquilla, è passata... No? Va tutto bene, possiamo andare.” Solo un tremito nella voce denuncia lo spavento provato.
Tiro un profondo respiro, grata, e mi sforzo di sorridere, anche se deve venir fuori più che altro una smorfia. “Che fai, mi rubi la parte?”

Il suo sorriso è un'ombra di quello che conosco, e pare non rispondere, ma dopo qualche attimo conferma: “Un po' per uno, no?”

Provo un'immensa ammirazione per il suo coraggio umile e silenzioso, e vorrei dirglielo; le folate soffocanti che salgono dal terreno devastato impongono però di rimandare le effusioni. Anche gli occhi bruciano fastidiosamente per il fumo acre degli incendi. Solo una volta lontane, sedute all'ombra, ci concediamo di tirare il fiato. Controllo se è ferita. Ha un paio di ustioni dove una caviglia le è rimasta scoperta, ma gli anfibi le hanno evitato danni peggiori. Io, per parte mia, ho diversi arrossamenti e qualche vescica, anche se nulla di grave. Cerchiamo di strofinarci via un po' di sporco e di fumo incrostati addosso, ma non possiamo permetterci di sprecare acqua per questo, ne abbiamo già bevuta in abbondanza.

Quantomeno, l'imprevisto ci permette di prenderci un po' di respiro, ma non troppo. Non abbiamo nessuna garanzia che il raggio non possa riattivarsi. Decidiamo di concerderci un riposo di un'oretta, e mi appoggio al muro in modo che Codrina possa distendersi comodamente, usando le mie ginocchia come cuscino. Poi torneremo alla carica. La vita è nel movimento, diceva Aristotele. Sono troppo stanca, il gesto del “che fortuna!” lo faccio solo col pensiero.

 

 

In realtà il nostro riposo dura ben di più. Mi sono accorta di avere adottato fin da quando sono qua dentro un sonno leggero, capace di lasciare il posto quasi all'istante alla piena lucidità al primo segnale di pericolo, ma adesso entro ed esco da un dormiveglia opaco, greve, strascicato, da cui emergo solo a prezzo di grossi sforzi.

Fortuna che ci siamo entrambe riprese. Ho l'impressione di essere nell'arena da sempre, mi sento logorata dai disagi e dalla tensione continua. Pare di camminare in un forno. Qua e là si alzano ancora i fumi degli incendi causati dal laser, che ristagnano rendendo l'aria ancora più irrespirabile. Questo, insieme al progressivo alterarsi del ciclo giorno-notte, mi fa pensare che gli Strateghi vogliano accelerare i tempi di chiusura. Sapessero noi. Anche Codrina è esausta. Ha gli occhi cerchiati, e il viso, striato dalla polvere e dalla sporcizia, smunto. Ma non un lamento le sfugge di bocca, e si sforza di non dare a vedere la stanchezza. Quando giungiamo in prossimità della piazza, lei mi sussurra: “Vado a vedere”, e prima che possa fermarla parte rapida verso l'angolo della via che sbocca nel piazzale. Come immaginavo, questa zona sembra essere stata abbastanza risparmiata dal raggio. La vedo farmi un cenno, ma ha l'aria inquieta. Quando la raggiungo, capisco il perché: la strada è ostruita con una barricata di macerie, e sopra vi è una sorta di rete metallica. Ci avviciniamo, e scopriamo che si tratta di un complesso intrico di filo spinato, legato con una miriade di piccoli nodi.

“Qui c'entra quello del 4.” Dico, e Codrina annuisce, cupa. Facciamo il giro dell'isolato per imboccare la parallela, ma ci troviamo di fronte uno sbarramento analogo. Per entrare nella piazza non c'è che una sola strada agibile.

“Non mi piace...” Bisbiglia la mia amica scuotendo la testa, e non posso che essere d'accordo. Sa di agguato lontano un chilometro, ma che alternative abbiamo? La piazza d'altronde sembra deserta, e potremmo non avere un'altra occasione. Stappo la bottiglia e metto a punto la Molotov con un brandello della mia maglietta, ormai cenciosa e sfilacciata, inserito per metà dentro il collo del recipiente. “Coraggio, tu sali sulle macerie e stai di guardia. Io vado, lancio e torno.” Dico.

“Per favore, Kea, lascia che vada io. Tu non stai bene, non puoi correre forte.” Mi prega quasi e, forse inconsapevolmente, fa quegli occhi dolci a cui sa che non posso resistere.

“Non funziona, non ti guardo. Aiutami piuttosto ad accendere la miccia.” Le rispondo soffocando mio malgrado un sorriso. Non è certo difficile trovare, sotto le ceneri degli incendi, dei tizzoni ancora accesi, su cui premo lo straccio penzolante. Dopo qualche secondo, questo inizia a fumare e si infiamma. Partiamo al trotto, Codrina verso il cumulo di macerie, io verso quello di provviste. Quasi subito il fianco protesta, ma lo ignoro. Sto digrignando i denti, tutta la paura e la rabbia represse nelle ultime ore premono per uscire. Non vedo l'ora di lanciare, e veder divampare le fiamme. E in più cancellare il ricordo vergognoso della debolezza e dall'indecisione dimostrate alla clinica.

Il grido d'allarme di Codrina però mi fa tornare coi piedi per terra: giro la testa e li vedo. Hebi presidia l'unica via d'uscita, mentre gli altri, sbucati dal nulla, stanno correndo verso di me seguiti dal ragazzo del 4. Sento un'ondata di panico attraversarmi. Urlo: “Vai via, Codri!” e raddoppio gli sforzi. Ma sono troppo più veloci di me, e mi tagliano la strada. Devo fermarmi, la bottiglia in mano che continua a bruciare, le provviste lontane, troppo, per tentare il lancio, e Retia che si fa di fronte a me spingendo bruscamente da parte gli alleati.

Un'ultima carta balzana, disperata: aprirmi un varco accecandola con lo spray, e tentare di arrivare a portata dei viveri, prima che gli altri possano fermarmi. Per questo abbozzo un gesto che spero ingannevole. Ma quando estraggo la bomboletta e premo il pulsante, non ne esce che un sibilo smorzato, e un odore chimico. Il caldo ha fatto seccare la vernice all'interno. Resto con il barattolo a mezz'aria, e la mia faccia evidentemente sconcertata fa sbuffare uno sghignazzo nel junior dell'1. Per reazione, la scaravento contro il viso della Favorita, che però evita il colpo con un guizzo felino. Quando torna in posizione, mi sento davvero persa.

“Cosa pensavi di fare?” Ringhia, avanzando lentamente, il pugnale già sguainato. “Ora non mi scappi più.”

E' decisa a pareggiare i conti per la trappola dei mattoni, oltre che per tutte le figure da stupida che le ho fatto fare davanti a tutta Panem. E forse è proprio questo ricordo a provocarmi un'uscita assurda: “Perché, non sei buona a correre?”

Le vedo un lampo omicida negli occhi. Prima che possa saltarmi addosso, però, qualcosa ci distrae tutti. Una specie di tornado è uscito dall'imbocco della piazza, passando accanto a un impreparato Hebi, e sta venendo a balzi verso di noi. Vedo un ciuffo verde, e realizzo che si tratta di Absinth, carica di armi, con la katana nera a tracolla che ondeggia qua e là. Ma solo quando è vicina mi accorgo che dalla giacca le spuntano protuberanze e cavi, e lo sguardo le brilla di follia. Capisco al volo di cosa si tratti. Distretto 3: tecnologie, ed esplosivi. Mollo la bottiglia, faccio dietrofront, e mi do alla fuga. Sento i Favoriti gridare, e sparpagliarsi precipitosamente in tutte le direzioni. Corro serrando i denti, mi sembra di procedere al rallentatore, quando il mondo esplode. Lo spostamento d'aria è tale che mi scaraventa in avanti come un'onda d'urto, e mi manda a ruzzolare sul selciato assieme ai detriti. Mi rialzo barcollando stordita, le orecchie che fischiano, mani e braccia scorticate nella caduta. Dove prima c'era la montagna delle scorte, ora c'è un grande cratere fumante. Pezzi della pavimentazione giacciono a diversi metri di distanza, divelti. Anche la Cornucopia è collassata su sé stessa. Non perdo tempo a guardare altro, e raggiungo Codrina, illesa grazie alla distanza, e insieme ci allontaniamo. Abbiamo guadagnato una certa distanza, quando il cannone spara due volte. Chi è morto, oltre Absinth?

 


“Se è uno dei Favoriti, tutto il sistema di alleanze torna in discussione.” Sto riflettendo ad alta voce. “A ogni modo, ora sono senza cibo, questo però li rende anche più svincolati dal tenere una posizione. Noi dobbiamo andare a riempire borraccia con l'acqua, siamo rimaste quasi a secco.” Codrina mi sta medicando le escoriazioni con la pomata. Potrei fare anche da sola, ma la lascio fare, le piace fare l'infermiera. “E poi?” Mi chiede.

“Poi... Qualcosa faremo.”

Non so bene cosa, ormai le idee scarseggiano, ma Codrina ha fiducia nelle mie tattiche e non voglio assolutamente deluderla. Ma quando ci avviamo in direzione del silo, abbiamo l'ennesima, sgradevolissima sorpresa.

L'aria nel mezzo della strada che stiamo percorrendo è come tremolante, e ciò che si trova più in là appare sfuocato e indistinto, quasi fosse dietro a un muro trasparente. Anche l'antenna del raggio laser è una sagoma confusa in lontananza. Dapprima temo che l'esplosione mi abbia causato qualche danno alla vista, poi penso a un effetto del caldo. Ci avviciniamo, e sentiamo i capelli sollevarsi, come se l'aria fosse satura di elettricità. Ci fermiamo a poca distanza da quello strano fenomeno, perplesse e diffidenti. La mia amica prova a raccogliere un pezzetto di asfalto da terra, e a lanciarlo contro il tremolio. Non appena il frammento lo urta, rimbalza indietro provocando una fiammata azzurra crepitante. Sembra proprio un muro di elettricità ad alto voltaggio, che gira tutt'intorno al centro città, passando attraverso case e macerie. Ma che senso può avere? Ci arrivo all'improvviso: siamo rimaste solo noi due, e i Favoriti. E gli Strateghi stringono il cerchio per spingerci al finale. Il guaio è che così il silo dell'acqua è rimasto all'esterno. Dentro di me sto augurando loro di fare le peggiori fini, insieme a tutti i parenti almeno fino alla quarta generazione, ma mi sforzo di restare calma. Codrina però non ha certo bisogno di spiegazioni, e vedo la consapevolezza angosciata nel suo sguardo. Le stringo una spalla, mentre ci guardiamo in silenzio, e ci avviamo per tornare indietro.

 


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E.N.P.
Premetto che questo capitolo è nato torto, e non mi convince granché. Ma non è che potessi cavarmela con due manichini trinciatori, qui siamo gente seria.


Il cerchio si è stretto, e restano in scena solo i Vip: non manca molto (tranquilli)....
 
  
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