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Autore: Stars Trail    09/06/2014    6 recensioni
Sugawara è abituato a sentirsi un passo indietro rispetto agli altri. Ha imparato, nel corso degli anni, che non c’è niente di male nell’essere ordinari - poco importa che quell’insegnamento se lo sia impartito da solo, sbattendosi con forza le mani sulle guance umide e rosse ogni volta per un motivo diverso, vuoi per la frustrazione, vuoi per la vergogna, vuoi per il nodo alla gola che non è mai stato capace di sciogliere se non attraverso il pianto.
[Daisuga]
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Daichi Sawamura, Koushi Sugawara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non l’ho betata e potrebbe essere orrenda e insensata, me ne rendo assolutamente conto e quindi intelligentemente metto le mani avanti. Prompt: Haikyuu. DaiSuga. “A child with a mole in the path of their tears is destined to have a sorrowful life full of them".

Sugawara è abituato a sentirsi un passo indietro rispetto agli altri. Ha imparato, nel corso degli anni, che non c’è niente di male nell’essere ordinari - poco importa che quell’insegnamento se lo sia impartito da solo, sbattendosi con forza le mani sulle guance umide e rosse ogni volta per un motivo diverso, vuoi per la frustrazione, vuoi per la vergogna, vuoi per il nodo alla gola che non è mai stato capace di sciogliere se non attraverso il pianto.
“Va tutto bene. Va tutto bene, va-”
A volte gli viene davvero difficile credere alle sue stesse parole, perché nella sua testa, per la maggior parte del tempo, non c’è nulla che vada davvero bene.

Non è sempre stato così.
Sugawara fa fatica a ricordare il momento in cui ha sentito sulla lingua il sapore rancido e bruciante della banalità, della normalità, nel far quello che più gli piace, che fino a quel momento non aveva neppure considerato. È cominciata probabilmente all’inizio delle scuole medie, quando troppi bambini decidono di spogliarsi di innocenza e bontà d’animo per varcare il confine della - seppur infantile - belligeranza.
“No, tu no,” gli aveva detto il capitano della squadra di pallavolo, e lui con un sorriso aveva accettato la panchina come se fosse la sua migliore amica, limitandosi a custodire nel petto i rari momenti in cui stava sotto la rete a palleggiare, e la panchina veniva lasciata da parte per il cuoio liscio e profumato della palla tricolore.
Amava quell’odore. Amava la sensazione di secchezza che la palla gli lasciava dopo uno, dieci, cento passaggi. Non era talento, il suo - non lo è mai stato - ma Suga è sempre stato certo di essere lui, quello a dare più di tutti, quello a essere più felice in campo. Anche se non gli è mai bastato.
A volte si fermava davanti allo specchio e sprecava manciate di minuti della sua esistenza a chiedersi perché. Perché gli ultimi minuti in gara non gli bastassero, perché davanti a lui ci fosse sempre qualcuno che ai suoi occhi non appariva più meritevole di quanto non lo fosse egli stesso.
Non ha mai trovato risposta.

Non ama piangere.
Ogni volta gli occhi gli diventano così rossi che è impossibile nascondere la verità, per cui ha imparato a indossare una maschera di sorrisi troppo larghi, troppo entusiasti, troppo sinceri a un occhio esterno.
In realtà, il passaggio dalle scuole medie a quelle superiori è stato per lui come lo sgravio dalle spalle di un peso che non avrebbe sopportato ancora per molto tempo. Nessuno dei suoi vecchi compagni di scuola è poi finito alla Karasuno - se è successo in ogni caso non è capitato nella sua stessa classe, e questo a lui appare come la possibilità di un nuovo inizio.
“Ehi, stiamo cercando nuovi membri per la squadra di pallavolo.”
Un volantino e due occhi scuri. Sawamura Daichi riporta sulla sua fronte la scritta salvezza-

A volte si lascia sopraffare dalle sensazioni, Koushi. Di solito capita alla fine di un allenamento, quando non importa quante conferme riceva dai suoi compagni, o dai senpai che, alla fine, lo fanno giocare molto più di quanto non facessero i compagni delle medie. Si trattiene qualche minuto di più, agita la mano per mandare via gli altri ridendo della sua inettitudine - ogni volta non trova una ginocchiera, o la maglia gli si è incastrata nella panchina, scuse stupide che però non sembrano destare sospetti nei suoi compagni, che con un sorriso imbarazzato lo salutano e abbandonano lo spogliatoio.
La palla è la sua migliore amica, non la panchina. La stringe tra le braccia e ci poggia sopra la fronte, inspirandone l’odore a pieni polmoni. È arrivato nel momento peggiore, per la Karasuno. Ogni tanto gli capita di buttare un occhio agli striscioni consunti degli anni passati, accantonati in un angolo dello sgabuzzino perché nessuno li veda. ”È storia vecchia”, aveva detto uno dei senpai, un ragazzone robusto del terzo anno che probabilmente aveva giocato con la vecchia gloria che la squadra rappresentava. C’è un sottile strato di rassegnazione che aleggia nell’aria, durante gli allenamenti o gli incontri, e Sugawara non riesce a togliersi di dosso la sensazione di avere una responsabilità, in qualche modo.
Sospira, e chiude gli occhi per far diventare il mondo nero.
“Ehi, sei ancora qui?”
Alza lo sguardo.
Sawamura sorride, dietro la porta. “Sawamura-kun…”
“Se non ci muoviamo, gli altri si prenderanno tutto quello che è rimasto da mangiare al Sakanoshita.”
Immagina di vederlo andare via, ma non succede. Il ragazzo si limita a compiere qualche passo all’interno dello spogliatoio e ad allungargli la mano. “Andiamo assieme, mh?”
I suoi occhi sorridono sinceri, e per la prima volta da quando era un bambino, Sugawara si sente accettato.

Palleggiare è qualcosa che nelle sue vene fa scorrere scariche elettrice anziché sangue. La sensazione è adrenalinica, gli fa girare la testa. Essere il connettore, la torre di controllo, il perno attorno a cui ruota l’azione lo fa sentire leggero, ironicamente. Non sente il peso della responsabilità, quando alza la palla appena distante dalla rete e Azumane la schiaccia con tutta la forza che ha in corpo. Adora il rumore che fa quando incontra il pavimento, adora il rumore delle scarpe che sfregano contro il parquet.
Ama essere un supporto. Per quel poco che gli è concesso.

Sawamura - Daichi, perché gli ha espressamente proibito di chiamarlo ancora per cognome, alla fine del primo anno - sembra una persona costruita apposta per lui. Ha un occhio vigile, e Sugawara ha come l’impressione che sia troppo spesso puntato su di lui. La cosa non gli dispiace, comunque. È come avere addosso una coperta morbida, una benedizione del Cielo.
“Daichi?”
“Mh?”
Mangiano nikuman sul tetto di casa di Daichi, le gambe che penzolano a mezz’aria e gli occhi che si perdono su un tramonto colorato di sangue. “Ho paura di non sapere qual è il mio posto.”
“Mh?”
Koushi si guarda la punta delle scarpe, mentre alza le gambe fino a pestare il sole. “Amo giocare. Amo giocare con te, con Asahi. Anche Nishinoya è un bravo giocatore. Ma a volte vi guardo e mi chiedo perché una persona normale come me dovrebbe…”
“Suga, non continuare, per favore.”
Si ferma, e non sa se sia per la mano sulla sua o per il tono di voce secco e deciso dell’altro. Scosta lo sguardo dall’orizzonte per guardarlo, sentendo il cuore accelerare appena.
“Tu non sei normale, Suga. Non lo sei per niente. Sei il nostro palleggiatore. Una persona normale non potrebbe mai esserlo.” È così serio che gli viene da ridere. Gli occhi pizzicano appena agli angoli, ma attribuisce la colpa al sole, più che alle sue parole. “Non esiste qualcosa definibile normale, in quello che facciamo. Non siamo forti, forse, ma possiamo crescere. Non siamo la Shiratorizawa, e allora? Non siamo a un punto morto, siamo appena all’inizio. Ci evolveremo, io, te, gli altri. Ci evolveremo tutti e ti convincerai anche tu che essere normali, in campo, non vuol dire niente.”
“Non avrei mai pensato che sentirmi dire che non sono normale mi avrebbe fatto piacere, un giorno.” E mente, e lo sa, perché in realtà per tutta la vita non ha desiderato altro che sentire queste parole. Perché lui non vuole essere normale, non vuole essere ordinario.
Non vuole rimanere indietro.
“Non stai per piangere, vero?”
Gli viene automatico sfregarsi le dita sulle palpebre. “No, no. È il sole. Perché dovrei?”
“Perché sei stupido.”

“Perché sei speciale.”
Sugawara non ha idea del perché Daichi gli stia tenendo la mano, mentre sono sdraiati sul tetto ancora caldo a guardare le stelle. Agosto è agli sgoccioli e assieme a lui le vacanze estive, eppure la mano di Daichi è fredda, come se avesse paura, lui che Sugawara non ha mai visto cedere davanti a nulla.
Gliela stringe, sperando di sentirla tornare calda presto.
Solleva lo sguardo per cercare i suoi occhi scuri, ed è incredibile quanto riesca a leggerci dentro. Sospirano entrambi nello stesso momento, Daichi che torna a guardare le stelle ma si sposta, avvicinandosi un po’ di più. I loro gomiti sfregano, i loro petti si alzano e abbassano praticamente in sincrono.
“Non credo.”
“E invece sì.” Daichi si poggia su un gomito e fa scivolare la mano dalla sua, mettendosi di fianco e guardandolo negli occhi. “Tu non ti vedi in campo, Suga. Tu non puoi davvero capirlo. Quello che senti tu e quello che vedo io sono due cose diametralmente opposte, e non sono il solo a pensarlo. Asahi lo pensa. Noya lo pensa.” E il cuore di Sugawara si stringe perché non riesce a credere a mezza parola, e allo stesso tempo lo sente così pieno che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Sarebbe una morte felice. L’altro poggia la mano sul suo braccio, e adesso sente le dita calde, piacevoli, rassicuranti. Sembra più rilassato, come se avesse tolto un tappo. Sugawara lo guarda e ne è affascinato. “Tu brilli. Brilli così forte che quando ti vedo giocare non vorrei mai e poi mai rimandarti in panchina. Perché sei bravo, Suga. Sei speciale. E vorrei davvero tu vedessi quello che vedo io.”
Ringrazia il cielo color cobalto per nascondere il rossore che deve aver colorato le sue guance, ora che le sente accaldate. Incrocia lo sguardo di Daichi e si chiede se sia lo stesso brillare che vede in lui, quello che adesso luccica nelle sue iridi. Sospira, spostando la mano dalla pancia a quella che poggia sul suo braccio, e in silenzio la accarezza, chiude gli occhi e gode della sensazione sui polpastrelli.
“Sei troppo gentile.”
“E tu troppo stupido.”
Si sente così bene, lì sopra, lontano dal resto del mondo, che non sente addosso nessun peso - non un’anima che lo giudichi per quello che fa, nessuno che si appoggi su di lui per la riuscita di un’azione in campo, nessuno che gli ricordi del mare di ordinarietà in cui ha fatto il bagno per anni. Si sente così bene, lì sopra, con Daichi che gli accarezza il braccio e in silenzio si china sul suo collo, che se potesse non si alzerebbe mai più. “Suga,” sussurra Daichi, e il suo respiro è accelerato, percepisce il fiato caldo contro il suo orecchio. “Credo di… volerti baciare.”
Il fiato gli si blocca in gola, mentre riapre gli occhi. Non può vedere Daichi, può solo sentire la punta del suo naso sul collo, il suo respiro appena accelerato. Con un sospiro più pesante l’aria abbandona i suoi polmoni e la sua testa si piega in assenso.
“Credo si possa fare,” risponde, e la sua voce tradisce l’emozione. Ma la risata di Daichi contro il suo collo è così dolce che non gli importa poi tanto, se l’altro sa che il suo stomaco sta facendo capriole strane e gli scuote il corpo.
Non ha mai baciato nessuno, prima di adesso. Le labbra di Daichi pungono appena perché sono secche e screpolate, ma gli provocano un formicolio piacevole mentre lo sfiorano. È quando preme con un po’ più di forza, che il formicolio si trasforma in qualcosa di liquido e caldo che scivola dalla gola fino allo stomaco, e lì rimane a galleggiare. Non si è mai sentito così prima di adesso, nemmeno quando si è riscoperto capace di provare pulsioni sessuali, pochi anni prima. È tutto così intenso, ora, che la prima cosa che gli viene da fare d’istinto, quando Daichi gli accarezza la lingua con la sua, è di prenderlo per le spalle e allontanarlo di colpo. Non è sicuro che il cielo nasconda il suo rossore, adesso, perché non sono più le guance a scottare, ma tutto il viso e fino a scendere al petto. Daichi lo fissa per qualche secondo, e sembra così disorientato che Sugawara balbetta, alla ricerca di parole sensate da pronunciare. Ma prima che possa dire qualcosa, Daichi ride e scuote la testa. Lo fissa a bocca aperta, mentre la sua testa si svuota.
“Daichi..?”
“Scusa. Scusa, Suga. La tua faccia…” ride ancora, asciugandosi una lacrima all’angolo dell’occhio destro. “Non volevo spaventarti.”
“Non-” si ferma e guarda dalla parte totalmente opposta, soffermandosi sulle luci fioche dei lampioni, su quelle delle finestre nelle palazzine che coprono l’orizzonte. “Non mi sono spaventato.”
“Ah no?”
“Non me lo aspettavo. Tutto qui.”
Daichi gli scosta due ciocche dalla fronte, sorridendo quando la trova appena sudata. Sugawara è felice di poter dar la colpa al caldo - almeno, lo fa mentalmente; dubita in ogni caso che Daichi gli crederebbe. “Allora possiamo riprovare?”
“Solo se non me lo farai pesare per tutta la vita.”
“Ci posso provare.”
Daichi si sistema meglio su di lui, mentre si riabbassa sulla sua bocca. Di nuovo le sue labbra secche, increspate in un sorriso, di nuovo quella sensazione di leggerezza alla testa che gli intorpidisce i sensi. La lingua di Daichi lo accarezza gentile, prima di chiedere il permesso di entrare nella sua bocca. Dischiude le labbra a fatica, la paura di reagire come prima che lo obbliga a sollevare le braccia e allacciarle attorno al collo dell’altro. Se ignora l’istinto di scappare a qualcosa più grande di lui, riesce a sopportare la tensione che si forma sul petto, che gli fa arricciare le dita dei piedi dentro le scarpe. Daichi si muove piano, lo invita a imitarlo, e quando finalmente la tensione si attenua risponde.
Non avrebbe mai pensato che baciare qualcuno potesse provocare in lui una sensazione tanto forte. E per la prima volta, l’amore per la pallavolo vacilla sotto il peso di qualcosa di più forte.

Kageyama è bravo. Kageyama è tutto quello che lui ha tentato di essere da quando è entrato a far parte del club di pallavolo all’inizio delle scuole medie. Kageyama è il motivo per cui, alla fine, lui tornerà ad avere per migliore amica una panchina di legno laccato, e l’odore della palla diventerà soltanto un ricordo lontano.
L’idea non gli piace, ma la squadra viene prima dei suoi stupidi problemi, e sorride, mentre mette in chiaro che lui non ha intenzione di lasciare il suo posto a qualcuno senza far nulla.
Non sa se sta mentendo più alla squadra o a se stesso.

“Suga?”
“Sto bene.”

Si allena a muro ogni volta che ha un minimo di tempo - a scuola, a casa, prima di tornare a casa dopo gli allenamenti. Stringe la palla con tutta la forza che ha e poi la lancia come se di quella forza non se ne facesse niente - perché non se ne fa niente, perché lui non è un attaccante, lui solleva la palla sulla rete per chi è pronto a schiacciarla. Kageyama e Hinata sono spettacolari, Kageyama è spettacolare, e lui si sente con il morale sotto le scarpe. Sorride alla palla sperando che questa ricambi, ma sa bene che non può permettersi di essere egoista, soprattutto quando è l’ultimo anno di scuola e l’ultima occasione per toccare il suolo di Tokyo con le sue scarpe, per lui e per i suoi coetanei.
“Suga.”
Sobbalza, e la palla scivola dalle sue mani per rimbalzare fino ai piedi di Daichi. Le sue spalle si abbassano, come se d’improvviso si fosse svuotato. Perché non può fare niente per constrastare qualcosa più grande di lui.
“Oh, non mi ero accorto che eri ancora in palestra.”
“Me ne sono accorto anche io,” risponde mentre si china per recuperare la palla, e il suo sguardo è così serio mentre si avvicina che sente un nodo formarsi alla gola, e fa così male che vorrebbe gridare. Ma si sforza di sorridere, come se Daichi non fosse capace di leggere nei suoi occhi.
Lo vorrebbe tanto, in questo momento.
“So cosa ti sta passando per la testa.”
“Sai anche che è la cosa più giusta da fare, allora.”
Abbassa lo sguardo, per niente intenzionato a fronteggiare quello di Daichi. Guarda come la punta delle sue scarpe si fermi a pochi centimetri dalle sue, e non ha il coraggio di fare un passo, mentre il sorriso viene riassorbito per lasciar spazio alla linea sottile delle sue labbra premute una contro l’altra.
“Suga.”
“No, Daichi. Kageyama è quello che stavamo aspettando, e lo sai. È… è quello che serve alla squadra per potersi risollevare. Sono stanco di sentire dalle altre squadre che siamo dei corvi che non sanno volare. Preferisco… preferisco lasciargli spazio. Abbiamo bisogno di risollevarci e io non sono capace di portarvi in alto.”
Si vorrebbe prendere a schiaffi per mantenere un minimo di controllo. Non può. La palla rimbalza a terra nello stesso momento in cui Daichi stringe con forza le sue spalle e lo obbliga contro il muro, scuotendolo appena.
“Non ti lascio indietro, Suga. Smettila.”
“Se non lo fai non ci -”
“Ci rialzeremo tutti insieme,” dice, e non capisce se sibili o stia urlando, perché il sangue scorre troppo veloce nelle sue orecchie rendendolo sordo. Alza il viso e trova gli occhi di Daichi, scuri, caldi, ma non capisce che espressione ci sia sul suo viso perché vede tutto annacquato e Dio, aveva giurato a se stesso di non piangere mai davanti a nessuno, e invece sta finendo col frignare proprio davanti all’ultima persona che vuole lo veda in quello stato. Tira su col naso e d’istinto solleva la mano per sfregarselo, riabbassando lo sguardo e fissando il collo di Daichi. “Ci rialzeremo assieme, perché io non ho alcuna intenzione di fare un passo senza di te.”
Sugawara si morde il labbro con forza, stringendo così forte gli occhi da vedere bianco. Deglutisce a vuoto per non singhiozzare, mentre sente la melma densa e scura dell’ordinarietà riaffacciarsi alla porta, schiaffargli in faccia la realtà. Perché può impegnarsi quanto vuole, può trattenersi in palestra per più tempo del previsto e giocare da solo contro il muro, ma non serve a far sparire la sua banalità quando davanti a sé c’è qualcuno che supera le aspettative di chiunque, lì dentro. Sente le braccia di Daichi avvolgerlo e non riesce a trattenersi dal stringerlo con forza, mentre l’unico singhiozzo che si permette di far scappare si scioglie nella sua gola e lo priva del fiato per pochi secondi.
“Perché sei così stupido, mh?” La voce di Daichi rimbomba nella sua testa, mentre le labbra si fanno spazio sulla sua fronte. “Smettila di farti tormentare da Kageyama. Lui è nato con qualcosa che non hai tu, ma non ho nemmeno io. E per quanto sia una spanna sopra di noi, per me, e non solo, sarai sempre il nostro palleggiatore, talento naturale o meno. Te lo ripeterò finché non ti entrerà in testa, che sei l’opposto di quello che credi. Prima o poi comincerai a darmi retta.”
Sugawara fissa l’ombra distorta del piedino bianco stampato sulla divisa dell’altro, respirando a pieni polmoni per ritrovare la calma. Se Daichi non fosse stato lì avrebbe continuato a piangersi addosso per sempre.
Vorrebbe potersi accettare per le proprie capacità. Chissà se prima o poi Daichi riuscirà a convincerlo.

Ha imparato - forse questa volta sul serio - che non c’è niente di male nell’essere ordinari, almeno non finché non si smette di credere comunque nelle proprie capacità. Per quanto essere un talento naturale non faccia parte del suo corredo genetico, alla fine può compensare con la pratica, finché non si lascia andare. Non importa se non può mandare la palla direttamente sotto la mano degli attaccanti, perché finché gli altri riusciranno a schiacciare i suoi passaggi allora non ci sarà niente di sbagliato o di inferiore, in quello che fa. Sorride, alzando i pollici in direzione dei suoi compagni, dopo che Asahi ha piazzato la palla tra due giocatori inermi.
Essere un talento, in fondo, non è qualcosa di così importante.

   
 
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