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Autore: Makar    10/06/2014    2 recensioni
“Vedo ma soprattutto sento che c'è qualcosa di più in quel ragazzo, qualcosa di anormale, senza una spiegazione valida. Ne sono del tutto certa quando nei suoi occhi noto che le iridi non sono di un colore naturale. E' un colore acceso, molto intenso, che esprime tanta aggressività.
E' il colore degli occhi di un animale.
Quello di un lupo.
Poi penso a quelli del ragazzo della biblioteca. I suoi sono così freddi da congelarti il sangue.
Devono per forza avere qualcosa di più, qualcosa di spaventoso.
Di proibito.”
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
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La cosa tremenda del Lunedì mattina è principalmente la scuola.
Non ne posso più di tutti quei libri e quello studio, e se penso che siamo solo al mese di Ottobre, mi viene la voglia di mollare l’impresa e fregarmene altamente del mio futuro.
Prima di arrivare al mio liceo, ho cercato di convincere mio padre a portarmi in macchina, ma era troppo stanco per via della notte precedente e necessitava del riposo.
La notte prima.
La mia schiena è attaccata da una forte pelle d’oca anche solo a qualche immagine inerente a quel contesto, e il mio cuore comincia a battere più velocemente del solito, tutto per uno stupido bacio. Ma che dico, è stato bellissimo.
Se solo Ellie sapesse che ieri Blake Evans, ragazzo bello quanto misterioso, mi ha baciato, comincerebbe ad urlare e continuerebbe finchè non le si seccherebbe la gola, per questo non gliel’ho ancora detto; so che è una cosa un po’ scorretta –lei è la mia migliore amica, e si meriterebbe di saperlo– ma penso che il suo entusiasmo finirebbe per peggiorare la situazione: magari, andrebbe da Blake a complimentarsi, o a sfottere Mike.
«Roberts. Roberts!»
Sobbalzo e ritorno nel mondo dei vivi solo quando una voce maschile chiama a gran voce il mio cognome, con una sfumatura di rabbia e irritazione. Il professor Kirk mi guarda innervosito, e mentre si avvicina al mio banco vorrei darmela a gambe e scappare da una vicinissima sgridata che, probabilmente, mi sarebbe costata parecchio.
«Roberts, è la quinta ora del lunedì, e ciò significa che dovresti essere più che sveglia. Per caso Kant ti annoia? Oppure stamattina ti hanno drogato?» dice, con un sorriso pieno di sarcasmo che emana solamente molta paura, terrore.
«Mi scusi.»
«La prossima volta che ti becco disattenta, ti spedisco in detenzione.»
Le ultime due ore sono un inferno, ma quando esco da scuola sono felice come la pasqua, e come al solito mi siedo su una panchina in attesa dell’arrivo di Ellie, che questa volta sembra è più in ritardo del solito. Incrocio le gambe, cercandola con lo sguardo, ma quando vedo una figura familiare avvicinarsi alla mia panchina, sento la gola seccarsi e vorrei solo sparire da quel posto, dal mio stato, dal mio pianeta. Vorrei sparire e basta.
D’un tratto mille pensieri cominciano ad aggrovigliarsi e le solite paranoie vengono a galla: sono vestita bene? Ho il trucco rovinato? Sono spettinata?
Mi agito sulla panchina, evitando il più possibile il suo sguardo ipnotizzante, ma quando lo sento parlare non posso continuare, e mi costringo a guardarlo negli occhi.
«Ciao Danaë.»
«Ciao Joe.»
Il famoso ragazzo della biblioteca, il cui nome non mi è più sconosciuto, si erge dinanzi a me, mentre con la sua testa copre il sole che poco prima mi bucava la retina; il ragazzo non ha abbandonato il suo sorriso terribilmente tranquillo ma inquietante, e so dentro di me che quel sorriso nasconde un mistero, il che lo rende affascinante, desiderato.
«Che fai? Ti accompagno a casa.»
«No, sto aspettando la mia amica, non posso.»
Il ragazzo sbuffa, togliendo le mani dalle tasche, e poi la sua attenzione ritorna su di me mentre lui esclama «Dài, lei la puoi vedere tutte le mattine, io ci sono una volta ogni due settimane.» e annuisce speranzoso, cercando di convincermi.
In effetti, il suo ragionamento non fa una piega, ma sento qualcosa frenarmi, qualcosa che mi consiglia di rifiutare il suo invito ed aspettare Ellie, a costo di tornare a casa il pomeriggio; tuttavia, anche il discorso del ragazzo fa acqua: la scorsa settimana l’ho incontrato due volte, il che significa che non è così assente come vuole che si creda.
Forse lo è davvero, e questa settimana è stato semplicemente più libero.
N0, non può essere così, so che sotto c’è qualcosa, e non appena mi ricordo la frase prima –“Ti accompagno a casa”– storco il naso, mentre tanti dubbi mi affliggono il cervello.
Come fa a sapere dove abito? Questo, sinceramente, mi spaventa, ma voglio sapere se c’è seriamente qualcosa sotto al suo bel visino e alle sue spalle gigantesche. Devo saperlo.
«Se proprio insisti.» esclamo, alzando ed affiancandolo mentre cominciamo a camminare verso casa mia, che dista poco dalla mia scuola, ma abbastanza da scoprire qualcosa sul conto di questo particolare soggetto, Joe, il cui cognome non mi è noto.
«Qual è il tuo cognome?» chiedo, cercando di ignorare la differenza d’altezza fra noi due.
«E’ così importante?» domanda, sbuffando mentre annuisco con vigore.
Esita un po’ prima di parlare, osservandosi i piedi, e poi proferisce «Barker.»
Dalla sua esitazione, capisco che è solo un’enorme bugia, ma non capisco perché me l’abbia raccontata, e non capisco perché non voglia dirmi il suo cognome.
Chissà cosa teme. Non sono una spia dell’FBI.
«Il tuo vero cognome.»
«Non pensavo fossi così arguta, Sherlock.»
«Hai esitato, e non mi guardavi mentre l’hai detto. Era palese che stessi mentendo.»
Mi stupisco della mia abilità nel riconoscere l’onestà della gente, e questo stupore mi riconduce inevitabilmente ai momenti in cui mia madre mi mentiva sul conto di papà, quando mi diceva che sarebbe tornato la settimana o il mese seguente. Non avevo impiegato troppo tempo per capire che la donna mi raccontava delle frottole per non ferirmi.
«Ti faccio i miei complimenti. Comunque, è Kelemen. Joe Kelemen.»
Sentendo la pronuncia completamente diversa da quella inglese di quel cognome, mi giro confusa verso il suo volto, rivolto verso la strada, impassibile e rigido.
«Non sei di qui.» constato, inarcando un sopracciglio. Wow, sei proprio un genio.
«Hai notato, Sherlock? Anche questo era palese, dài.» esordisce lui, facendo spallucce.
«Di dove sei?» chiedo secca, senza ricorrere sempre all’ironia come fa lui; credo che la usi solo per cambiare le carte in tavola, per cercare di spostare la mia attenzione altrove, ma la sua tattica, con me, non funziona. Anzi, si sta scavando la fossa autonomamente.
«Se avessi saputo che avresti fatto un interrogatorio non sarei venuto da te.»
Quando si gira verso di me e nota il mio sguardo impassibile, che non lascia trasparire alcuna emozione, capisce che il momento degli scherzi è concluso. Almeno per ora.
«Ungheria. Hai presente dov’è?»
Annuisco, visibilmente impressionata: perché mai ha fatto tutti quei kilometri per raggiungere Seattle? Non riesco a spiegarmelo, perciò deduco che questo particolare vada ad aggiungersi alla lista di cose da scoprire riguardo Joe e l’alone di misteri che ha intorno.
«Sei dello stesso posto da cui proveniva la Contessa Sanguinaria.» mormoro osservandolo con un sorriso spontaneo, mentre lui si irrigidisce e mi guarda con gli occhi sgranati, cercando di distogliere il suo debole sguardo dal mio, forte e deciso, fermo.
Sinceramente, non so perché abbia detto quella cosa, ma la sua reazione mi colpisce così tanto che non mi pento di questo riferimento alla storia di quella pazza, che ha ucciso all’incirca 650 persone per mezzo di torture inimmaginabili.
Ma prima che potessi chiedergli il perché di quella faccia, mi rendo conto che ci siamo fermati e che siamo esattamente davanti casa mia, da dove mio padre sta uscendo velocemente, nella nostra direzione. Lancio una rapida occhiata a Joe, che ora sta guardando il mio genitore e sorride in maniera terribile.
Il suo è un sorriso cattivo, malvagio e spaventoso.
«Danaë, entra! Subito, chiaro?» strillò John, indicandomi furioso; senza indugiare, ubbidisco immediatamente ed entro in casa sotto lo sguardo furente di mio padre, per poi correre alla finestra più vicina per osservare ciò che succede fuori.
«Ciao, Fox. Da quanto tempo che non ti vedo, eh! Lei è uguale a te.» sibila Joe, ghignando.
«Sparisci, Kiss, oppure non esiterò a romperti il collo appena me ne darai la possibilità. E non osare avvicinarti più a lei, altrimenti finirai male.» replica gridando mio padre, mentre stringe i pugni al punto da far diventare le sue nocche bianche e pallide.
Joe scoppia a ridere e se ne va per la stessa strada con cui è arrivato, lanciandomi un’occhiata veloce, che emana tanta rabbia che quasi mi spavento, tuttavia non posso restare a fissare il suo addio perché sento la porta sbattere, e quindi mi lancio sul divano.
Mio padre entra in salotto, con ancora i pugni chiusi, e mi dice «Non  avvicinarti più a quel tizio. Se ti vedo anche solo guardarlo, ti tengo chiusa in casa per un mese, te lo posso giurare sulla mia stessa vita. Chiaro?» estremamente serio e cupo.
«Ma perché?»
«E’ pericoloso, non fa per te. Stagli lontano, non lo conosci bene.»
Sento le mie guance bruciare, ma questa volta non è per l’imbarazzo: è per la rabbia; mio padre ha già cominciato a proibirmi di uscire con le persone che volevo conoscere meglio e che, fino ad adesso, non mi hanno ancora torto un capello e non mi hanno usata.
Si sta comportando come se fosse stato presente da sempre, ma non lo è mai stato.
Vorrei prendermi a schiaffi per questo pensiero, ma mi rendo conto che, alla fine, è quello che penso davvero, e non posso rinnegare i prodotti della mia stessa mente solo perché sono negativi nei confronti dell’uomo che mi ha dato la vita, e che poi è scomparso.
«Non conosco bene neanche te, se è per questo.» sibilo, fissandolo.
La sua espressione va dalla stravolta alla infuriata, ma non voglio farmi intimorire.
Oggi sono forte e faccio quello che voglio.
«So solo il tuo nome, e ora che ti chiamano Fox non sono nemmeno sicura che sia quello vero. Ti fiondi qui a Seattle dopo anni che hai lasciato noi da sole, e pretendi anche di dare ordini dopo che ti sei fatto una chiacchieratina con degli uomini di cui io e la mamma non sappiamo nemmeno l’esistenza? Devi avere il diritto di impormi le cose finchè non ti conoscerò per bene.» aggiungo alzandomi dal divano per avvicinarmi a lui.
Inevitabilmente, il mio sguardo si va a posare su quelle cicatrici che ho scoperto giusto ieri, ma lui non sembra accorgersene, il che mi obbliga a chiederglielo in futuro.
«Cosa vuoi sapere?»
«Tutto. Per esempio, perché ti chiamano Fox?»
Lui fa spallucce, ma non distoglie lo sguardo per non perdere la mia sfida; sembriamo proprio dei lupi, degli animali selvaggi, ma ciò non mi preoccupa minimamente.
«E’ un normalissimo soprannome, come se cominciassi a chiamarti “Dany”, non credi? E comunque, queste –e si indica le cicatrici– me le ha fatte Ginny mentre giocava con me» risponde automaticamente alle mie domande precedenti, anche se una di queste era mentale, il che mi fa capire che, poco prima, ha notato il mio sguardo dubbioso rivolto alla base del suo collo, per metà ricoperto da una barba incolta e brizzolata.
Il nome che pronuncia è quello del cane di mio zio, ma so che Ginny –una meticcia giocherellona– non è mai stata violenta con nessuno nemmeno per gioco, dunque deduco che mio padre, il cosiddetto Fox, mi sta mentendo spudoratamente.
Tuttavia, non voglio soffermarmi sulle sue bugie, ma voglio metterlo nel sacco.
«Ma se sei stato per tutti questi anni fuori per lavoro, come hai fatto a procurartela?»
«Tuo zio abita in Canada, Danaë. Sono stato in Vietnam, e credi che in Canada non ci sia stato?» dice soddisfatto a braccia conserte, demolendo la mia possibilità di fargli notare che il suo piano faceva così tanta acqua da far straripare un fiume.
Farlo straripare nello stesso modo in cui ora fanno i miei pensieri: come un fiume in piena, attaccato selvaggiamente da un diluvio universale, spazzano via qualsiasi cosa si trovi sotto la sua ira funesta, che non lascia il tempo di fuggire, di accorgersi di cosa stia succedendo.
I miei pensieri spesso mi fanno boccheggiare, così intricati e complessi, ma senza la capacità di pensare non sarei umana: sarei come gli animali, spinti dall’istinto.
Cogito ergo sum, nessun periodo più vero di questo. Penso quindi sono.
Se non avessi la mia mente che produce drammi a vagonate, non sarei più Danaë; sarei solamente un essere strano che vive per istinto: di bere, di mangiare, di dormire.
Se non avessi i miei pensieri, non proverei mai più emozioni sincere.
Non avrei più le palpitazioni se vedessi Blake, o non sarei interessata alla vita di Joe, che ora mio padre aveva chiamato con uno strambo soprannome: Kiss, bacio.
«Mi stai nascondendo qualcosa, John, e presto saprò cosa. Non abbiamo finito.» replico secca interrompendo il contatto visivo e lasciando il salotto per salire in camera mia e lanciarmi sul mio comodo letto, nella speranza di raggiungere “l’illuminazione” nei confronti di mio padre, abile bugiardo. Ha vinto la battaglia, ma non la guerra.
Allungo il braccio per raggiungere i miei auricolari e quando li infilo, scelgo la canzone che voglio ascoltare e la faccio partire, esternandomi dal mondo che mi circonda.
Non voglio pranzare, perciò decido di mangiare una mela che avevo per l’intervallo a scuola, e sto sdraiata ad ascoltare i Coldplay almeno per un’ora, mentre la mia mente lavora all’impazzata e mille pensieri e riflessioni vorticano in assenza di gravità.
La mia testa è una giungla, e dentro di essa persino io devo combattere per ottenere un po’ di controllo e non perire sotto la massa di queste parole ed emozioni che si uniscono in un legame indistruttibile e pesante quanto un’ancora.
Peccato che con questa ancora non riesca a rimanere coi piedi per terra.
Quindi, queste riflessioni si avvicinano più ad un’incudine che mi pesta il cuore e mi annoda lo stomaco e mi attorciglia l’intestino, tanto da farmi venire da vomitare.
Quando ormai non riesco più a stare distesa e la testa mi scoppia dall’ansia e dai dubbi, mi alzo dal letto e socchiudo la porta, sentendo se c’è qualcuno in casa o se sono tutti andati a sbrigare delle commissioni, ma ciò che odo è solo un silenzio assordante.
Esco e percorro tutto il corridoio che mi porta alle scale e quando passo davanti alla porta dello studio di John sento due voci maschili diverse, ma che hanno lo stesso tono, perciò deduco che i due uomini che sono all’interno della stanza mi abbiano sentito.
La curiosità è troppa e mi rannicchio furtivamente vicino alla porta, appoggiandoci un orecchio sopra, e cercando di captare qualche suono che mi sia utile.
«Oggi era con lei, l’ha accompagnata.» questa è la voce di mio padre, la riconosco.
Sebbene sia tornato da poco, ormai ho già memorizzato la sua voce: profonda e dura, nemmeno quando si addolcisce suona amichevole, e mette quasi sempre soggezione.
«Stai scherzando? Come fa a conoscerla?» questa voce invece mi è sconosciuta.
E’ sconcertata, e probabilmente è per quello che mi risuona strana.
«Non lo so. So solo che in qualche modo è riuscito ad avvicinarla, e la cosa potrebbe peggiorare. Se solo la tocca anche per sbaglio stermino tutto il suo clan, te lo posso giurare sulla mia stessa vita»
«Pensi che Ronnie se la prenderà? Sai che è uno violento.» questa volta la voce che ho sentito poco prima non è più sconvolta, ma è più profonda e calda.
«Dì a Ronnie di non scatenare gli altri e di lasciare che la situazioni si sistemi da sola, e digli anche che se vedo delle orme dei nostri faccio il disastro. Mi fido di te, Blake»
Sgrano gli occhi e sento che ormai la mia bocca è arida e secca, mentre cerco di capacitarmi di ciò che ho sentito, anche se la maggior parte è poco chiara; quando mi accorgo che i due –mio padre e il ragazzo che la sera prima ho baciato– si stanno alzando e probabilmente uscendo, mi fiondo fuori di casa, rischiando anche di cadere dalle scale.
Ho bisogno di pensare seriamente, perciò comincio a camminare sul marciapiede con passo lento, le mani nelle tasche, mentre fiumi e fiumi di domande mi assillano e mi sento terribilmente in colpa per non trovare loro delle risposte.
Sono più che certa che i soggetti –i cui nomi non sono stati pronunciati– trattati in quella conversazione bisbigliata di fretta, come se fosse un segreto, siamo io e Joe; ancora non comprendo perché quel ragazzo debba farmi volutamente del male, e non comprendo nemmeno perché mio padre e Blake lo temano e lo odino così tanto.
Dopotutto, non mi ha ancora fatto nulla di male, se non essersi sbattuto accidentalmente contro di me in una semplicissima biblioteca.
E se non fosse stato un incidente?
Una voce solletica il mio intelletto, tentando di persuadermi, ma sono quasi sicura di essermi urtata per puro caso contro il petto gelido di Joe e le sue spalle enormi, sono quasi sicura che sotto non ci fosse stato nessun piano segreto per farmi del male.
Sospiro, scoraggiata, e la mia memoria riporta alla luce alcune parole pronunciate da mio padre a proposito di un clan di cui, evidentemente, Joe fa parte; corrugo la fronte, notando quanto la cosa sia sciocca, ma mi rendo conto che se mio padre l’ha detta, vuol dire che ha comunque qualcosa di fondato e veritiero. E’ tutto così difficile.
Se mio padre non mi avesse nascosto niente, ora non sarei qui a sprecare le mie energie per venire a capo di questi problemi sorti appunto per colpa sua, del suo silenzio.
Delle sue bugie.
E di che orme stava parlando, poco prima? Essendo tutti delle persone aventi piedi, le orme che possiamo lasciare sono uguali, e si differenziano solo in grandezza e larghezza, perciò riconoscere delle tracce sarebbe difficile, a meno che tutti i numeri delle scarpe degli amici siano conosciuti a tutti. No, c’è qualcosa che non quadra, ed è evidente.
Le uniche orme riconoscibili, differenti da quelle umane, sono quelle animali, il che è altrettanto inspiegabile e misterioso; mi blocco istantaneamente e mi siedo sul marciapiede mettendomi la testa fra le mani, mentre cerco di evitare un eventuale attacco di panico.
«Tutto bene?» la voce preoccupata di Blake fa fremere il mio corpo mentre ricorda l’avvenimento della sera precedente, che voglio evitare per non arrossire.
«Secondo te?» ringhio, cercando di non mostrare il mio tremore non appena lui si siede accanto a me, con lo sguardo fisso sui miei capelli che mi coprono il volto.
La domanda che mi ha appena posto è tutto tranne che intelligente, e la mia aggressività –che sta salendo sempre più– non mi permette di rispondere garbatamente.
La Danaë che sta parlando adesso è quella stanca e frustrata.
«Che hai fatto?» chiede seccamente, senza smettere di osservarmi intensamente.
In uno scatto di rabbia mi volto per guardarlo in faccia e sputo «Sono stanca! Stanca dei vostri segreti, delle vostre scenate, stanca! Vi ho sentiti mentre parlavate, poco prima, e mi state nascondendo qualcosa. Vuoi vedermi allegra?» guardandolo.
Lui annuisce incerto sul da farsi, perciò ne approfitto.
«E allora parla!» strillo, ignorando le mie guance paonazze dalla rabbia.
«E’ una cosa troppo grande, Danaë, e tu sei ancora una ragazzina…» mormora lui distogliendo lo sguardo e stringendo i pugni, mentre la mia rabbia cresce sempre più.
«Ho quasi diciotto anni, sono quasi maggiorenne e merito di sapere quello che mi riguarda. Avete paura che soffra per colpa di Joe? E’ un mio amico, e finora non mi ha mai fatto del male, quindi lasciatelo in pace!»
«Kiss è tuo amico?» chiede allibito, ritornando a guardarmi negli occhi ed incatenandomi ai suoi, mentre ora ha cominciato ad alzare la voce. Mi piace litigare con lui.
«Sì, Joe è mio amico. E non capisco perché lo chiamiate Kiss, come non capisco perché chiamiate mio padre Fox. Voglio delle risposte, Blake, poi non mi avrete più fra i piedi. Scomparirò e sarò invisibile, così non avrete una ragazzina fra i piedi.»
Blake tace, e invece di parlare mi prende per un braccio e mi fa alzare, per poi scortarmi di nuovo a casa, restandomi sempre affianco e senza perdermi di vista.
Mi sta trattando come un’evasa di prigione, ma i suoi occhi addosso non mi disturbano, sebbene sia ancora arrabbiata per il suo rifiuto di proferire parola; quando arriviamo davanti al mio portone, mi dice «Controlla il telefono, fra un po’» e se ne va con la solita espressione che cela qualsiasi emozione lui stia provando.
Questa illeggibilità è un punto a mio sfavore, ma presto imparerò a captare ciò che quella smorfia nasconde dietro di sé, e presto potrò coglierlo nei momenti adatti per rubargli qualche informazione top secret.
Sono stanca di questo silenzio, necessito delle risposte vere.
Qualche ora dopo, quando sento suonare il campanello nello stesso momento in cui il telefono squilla, capisco che si può trattare solo di una persona: Blake.
Apro la porta ostentando un’espressione indifferente mentre incrocio i suoi occhi, che brillano di stupore, probabilmente perché ho già previsto le sue intenzioni e mi sono vestita apposta per l’occasione, ma in maniera semplice, non come alla sua festa.
«Andiamo» dico, uscendo di casa, ma la sua mano mi blocca.
«Dovresti dirlo a tuo padre» mi suggerisce grattandosi la testa, visibilmente in imbarazzo.
«Manderò un messaggio a mia mamma» replico facendo spallucce e finalmente uscendo dalla casa al fianco di Blake, mentre ci dirigiamo alla sua macchina.
La stessa macchina che ha usato quando mi ha portato a casa la notte della sua festa.
La notte in cui mi ha detto che ero molto carina.
Mentre un brivido mi percorre tutta la spina dorsale tento di mantenere la mia espressione dura e tirata, e sento che a volte lo sguardo del ragazzo si posa su di me, quando non sta guardando la strada illuminata dalle luci arancioni dei lampioni.
«Non mi piaci con questo broncio. Sembri uno dei sette nani» ironizza.
«Dovresti chiederti perché ce l’ho» rispondo, guardandolo.
Lui ride, buttando indietro la testa in una maniera che mi ricorda un bambino felice, ma mi obbligo a non sorridere per risultare comunque credibile e veramente arrabbiata.
Guida per un paio di minuti, finchè non parcheggia l’auto esattamente davanti ad un locale dove fuori v’è una fila molto lunga di giovani dall’aspetto particolare; quando ci avviciniamo all’entrata, riesco ad intravedere un ragazzo dai capelli verdi, e mi aspetterei di dovermi mettere in fila se Blake non mi prendesse per mano e mi facesse entrare senza dover attendere il mio turno, semplicemente parlando con il buttafuori.
Quando entriamo, la musica mi aggredisce come un leone sulla preda, ma è una musica orecchiabile e ritmica, che molto presto mi fa battere il piede al suo ritmo; senza mollarmi la mano –contatto che mi da una scossa elettrica ogni secondo che ci penso– Blake mi fa sedere ad un tavolo ai lati della discoteca. Non capendo perché siamo lì, comincio a porgli delle domande legittime «Come si chiama questo posto?»
«Ecstasy» risponde secco, stendendo le gambe e scrocchiando le dita, come se si stesse preparando ad una sfilza di domande sfiancanti. E’ proprio quello che voglio fare.
«La gente qui è strana» esclamo, lanciando occhiate in tutte le direzioni per osservare persone conciate in maniere assurde: chi ha i capelli colorati, chi la faccia piena di piercing oppure tutto il corpo coperto da tanti tatuaggi strani. Il locale è illuminato principalmente da due tipi di luce, blu e rossa, e il bancone è completamente accerchiato da ragazzi che si sgolano ed allungano le braccia per ordinare qualche bicchiere di superalcolici che potrebbero stendere persino un elefante, ma l’aria che circola in quel posto è profumata.
Mi piace, perché è allegro e ti puoi divertire senza ogni ombra di dubbio.
«Tutti siamo strani» dice.
«Non in quel senso. Voglio dire che non ho mai visto gente conciata così» rispondo, lanciando un’occhiata ad una ragazza dai capelli rosa e le pupille da serpente.
Saranno delle lenti a contatto.
Mi impegno a crederci, ma c’è qualcosa che mi dice di fare esattamente il contrario, di smetterla di fidarmi di Blake, specialmente quando quest’ultimo saluta la ragazza-serpente.
Qualcosa brucia poco sopra il mio stomaco, e rimango di stucco quando me ne rendo conto.
Sono gelosa. Appena Blake si volta di nuovo per guardarmi, nota la mia espressione di rabbia e ride sotto i baffi, portandosi una mano sulla bocca per fingere di grattarsi.
«Smettila. E comincia a parlare» esclamo secca, riducendo gli occhi a due fessure.
Blake rotea gli occhi con fare teatrale e si stravacca sulla sedia, chiedendo «Non possiamo semplicemente goderci la serata come due persone normali?»
Se è la guerra quello che vuole, la avrà; se il ragazzo non vuole dirmi cosa c’è sotto, farò anch’io il gioco sporco e mi comporterò come una bambina per tutta la serata.
Comincio immediatamente con il mio punto di forza: l’alcol.
Prima che Blake possa protestare, ho già ordinato e bevuto una bottiglia di birra irlandese, e sebbene io sappia benissimo che non ho un fegato invincibile, voglio spingermi poco prima del limite, per dimostrargli quanto possa godermi la serata.
Devo solamente stare attenta a non sorridergli se lui comincerà a parlarmi o a guardarmi.
«Giusto per godermi la serata –comincio sogghignando indicando il ragazzo dai capelli blu– vado a ballare» termino la frase, alzandomi dalla sedia e dirigendomi in pista.
Quando sono abbastanza vicino al ragazzo che ho indicato poco prima, comincio a ballare, e solo dopo mi accorgo che questi mi ha notato, avvicinandosi molto a me. Se continuo a ballare in questa maniera, so che presto Blake interverrà senza indugi, quindi continuo, ignorando le mani del tizio che ora si sono spostate sui miei fianchi, mentre gli do le spalle.
Sento la testa girare e potrei vomitare, ma mi obbligo a rimanere in piedi e a non rimettere non appena vedo Blake avvicinarsi a me; mi scappa un sorriso di soddisfazione, che tuttavia si volatilizza appena noto che lui non è da solo, ma con la ragazza-serpente.
Il bruciore di poco prima si fa più intenso, ma a volte si affievolisce quando noto che Blake lancia delle occhiate sfuggenti verso di me, per controllare che la situazione sia sotto il suo controllo; quando ormai non riesco più a ballare perché la nausea mi assale, esco direttamente dal locale dove la musica si sente ugualmente, potente e ipnotizzante.
Respiro un’enorme boccata d’aria fresca mentre i conati di vomito diminuiscono sempre più velocemente e il mio apparato digerente mi ringrazia, tornando al suo posto, sebbene abbia un freddo tremendo; guardo l’orario sul mio orologio da polso, sbuffando e chiudendo gli occhi, respirando a pieni polmoni il profumo di vaniglia che fuoriesce dall’Ecstasy.
Questa situazione mi riporta alla festa di Mike, solo che allora ero più ubriaca.
E molto meno disinibita con i ragazzi.
«Ehi. Prima sei scappata» esclama una voce maschile che si avvicina sempre di più, obbligandomi a voltarmi per scoprire di chi è. Mi aspetto che sia Blake, ma rimango interdetta quando al posto suo vedo il ragazzo dai capelli blu.
«Stavo per vomitare» mormoro, guardandolo mentre si siede vicino a me.
«Oh, capisco. Io sono Matt» dice mentre mi stringe vigorosamente la mano.
La sua è callosa e ruvida, di uno che ha lavorato per anni.
«Danaë. Mi piacciono i tuoi capelli.»
«Hai un odore strano.»
Sgrano gli occhi quando sento quest’affermazione, che per lui è una cosa più che naturale.
«Come?» chiedo, visibilmente confusa; tuttavia, lui non sembra notare la mia confusione.
«Che cosa sei? Hai un odore particolare» ripete lui, scrutandomi coi suoi grandi occhi neri.
Quegli occhi sono così profondi che m’impauriscono più delle sue stesse affermazioni.
«Ehm, io non so che dirti. Sono una ragazza, no?» sussurro, corrugando la fronte, ed insicura su cosa dire a quel ragazzo che, molto probabilmente, ha fatto uso di droghe.
Che mi considerasse un ragazzo per l’assunzione di ecstasy? Ora sembravo anche un maschio? Scuoto la testa disorientata, mentre le paranoie cominciano a venire a galla.
«Questo l’avevo capito –dice, facendomi sospirare di sollievo e scacciando le mie paure– ma, insomma, non sei una vampira. Non avresti questo colorito, se non altro. Ma non puzzi nemmeno di cane, quindi non sei una mannara. Che diamine sei?»
Ora ho davvero paura di Matt, quel ragazzo che poco prima mi era sembrato così normale –a parte la sua peculiare tinta– che adesso si mostrava a me come un pazzo drogato.
Ma se stesse dicendo la verità? Per qualche attimo, cominciai a crederci, ma la consapevolezza di essere ubriaca mi riportò coi piedi per terra e confermò la mia teoria sullo stato del ragazzo dai capelli blu, imbottito di chissà quali sostanze.
Prima che possa alzarmi e scappare, Blake esce dal locale e, vedendomi in compagnia di Matt, si avvicina immediatamente con passo veloce ed espressione preoccupata; probabilmente, conosce il mio nuovo “amico”, quindi sa cosa mi ha detto.
«Danaë, che ci fai qua fuori?» mi chiede serio e nervoso.
«Mi sentivo male e avevo bisogno di una boccata d’aria.»
«Blake, ciao! Non ti vedo da due mesi, cazzo!» esclama Matt, risoluto, mentre balza in piedi e saluta Blake come, solitamente, i ragazzi di adesso fanno: come dei gorilla.
«Sì, ciao. Vedo che hai conosciuto Dana» esordisce, mentre cerco di ignorare il fatto che mi abbia già dato un soprannome che, tra l’altro, mi piace davvero. Tieni duro Danaë.
«Già, già, bella ragazza, no?» Matt parla come se non ci fossi, ma la cosa non mi dispiace.
«Sì, molto carina. Cosa vuoi da lei?»
Un brivido mi passa per la schiena mentre sento proferire quelle parole da Blake, la cui espressione ora si è fatta più dura, forse per il fatto che Matt mi ha incatenato lì con lui.
«Volevo solo sapere cosa fosse. Sai, ha un odore strano: se fosse una vampira, sarebbe più pallida, e se fosse una mannara saprebbe un po’ da cane bagnato. Lei continua a dirmi che è una normale, ma io non ci credo, nono» esordisce allegramente il ragazzo dai capelli blu; noto che ora Blake non è più arrabbiato: ora è irrequieto e nervoso ed i suoi occhi si spostano velocemente in tutte le direzioni tranne che nella mia. Ha paura.
«Lei.. lei è la figlia di Fox» mormora Blake, mentre sia lui che Matt mi fissano con intensità.
Matt sussurra un “Cazzo” pieno di stupore e mi guarda come se fossi un’aliena; non capisco perché, dopo quell’informazione palese, il ragazzo dai capelli blu mi stia guardando in una maniera diversa, come se fossi una dea od una apparizione divina. Sono confusa.
«Com’è essere figlia del mannaro più stronzo di Seattle?» domanda risoluto, mentre Blake gli da una spinta molto forte, che gli fa perdere l’equilibrio ma lo avverte di tacere.
Capisco che Matt è l’unica persona che possa dirmi qualcosa a proposito di mio padre e dei suoi compagni, ma tutte queste scoperte al limite della credibilità mi stanno solo procurando più gatte da pelare del solito. Ora come ora, sto litigando con la mia mente.
Blake decide di liquidarlo con la solita frase “S’è fatto tardi” –che è assolutamente vera, dato che è l’una– e mi aiuta ad alzarmi, per poi spingermi lievemente mettendomi una mano sulla schiena, attaccata da miliardi di brividi che mi elettrizzano.
Quando, grazie alla sua macchina, siamo davanti al mio portone, decido di aprire bocca e sfogarmi una volta per tutte, dicendo «Blake, io sono stufa. Dimmi che diamine succede.»
«Avrei preferito dirtelo di persona, ma quell’idiota di Matt ha già detto abbastanza.»
«Quanto avresti aspettato ancora? Un mese? Un anno? Sono matura abbastanza da sapere le cose che mi riguardano, Blake, e desidero conoscerle.»
«Non voglio che ti incasinino la vita ancora più del dovuto. Scusa se vederti contenta mi interessa» sbotta lui, stringendo i pugni nervoso.
«Sarei più contenta se mi diceste cosa c’è sotto.»
«Non me la sento di dirtelo qui, pensa semplicemente a quello che ti ha detto Matt. Penso sia stato abbastanza chiaro e simpatico, da come ti toccava.»
Lo guardo allibita, ma dentro sono particolarmente soddisfatta. E’ geloso.
Anche se poco prima lo sono stata anche io, gioisco di nascosto perché è la terza volta che dimostra il suo affetto nei miei confronti, se non di più; Blake fa spallucce e si gira, ma non voglio che se ne vada, voglio che resti ancora, quindi lo fermo per un braccio.
Quando si gira, le sue labbra sono strette e mi sta guardando arrabbiato, ma non ho intenzione di farmi intimorire dalla sua armatura d’oro che nasconde i suoi sentimenti.
«Io… volevo dirti grazie, per essermi stato vicino. E mi dispiace se mi sono comportata da stupida, è che volevo farti arrabbiare per farti capire quanto fossi arrabbiata io. Lo so che vuoi vedermi contenta, ma che ci vuoi fare? Sono una ragazzina.» ammetto, sorridendo con fare innocente e sperando di essere “perdonata” per il mio comportamento infantile.
Anche lui sorride, con un sorriso che mi accende, come quando mi tocca la schiena o mi chiama Dana. Anche solamente la sua presenza mi provoca quest’effetto.
Quando allarga le braccia, io gli cingo la vita con le mie e lui, di tutta risposta, mi stringe forte, mentre ascolto il battito stabile del suo cuore.
Se solo sentisse il mio, che ha le palpitazioni, si spaventerebbe.
Blake profuma di deodorante e dopobarba, ed ha un fare impacciato che mi ricorda vagamente un bambino timido e costantemente imbarazzato, cosa che ora non è.
«Abbi pazienza. Saprai tutto fra un po’. Devi solo aspettare» mormora.
Non vorrei staccarmi da quella presa ferrea e sicura, ma so che è tardi e che devo tornare a casa; tuttavia, restiamo abbracciati finchè non mi fanno male le caviglie e successivamente rientro in casa, appoggiandomi con la schiena alla porta e sospirando.
E vorrei restare così per sempre, in questo calore tremendamente piacevole.
Ma il sonno mi reclama.


-don't read me-
Ci siamo col sesto capitolo, che -lo dico con profonda sorpresa- è più lungo degli altri! Mi dispiace notare che, nel capitolo precedente, non ci sia stata nemmeno una recensione, ma spero di rifarmi con questo. Perciò, vi chiedo di dirmi che ne pensate: accetto qualsiasi tipo di recensione, da positiva a negativa -l'ultima in particolare- e vi prego di farmi notare eventuali errori di cui non mi sono accorta durante la correzione finale.

Vi ringrazio comunque tantissimo per le visualizzazioni ottenute, che mi fanno sempre sorridere! Grazie di cuore, e alla prossima (spero lol)
  
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